Guess
who's coming to dinner
Se
c'era una cosa che Ivar odiava – beh, una tra le tante,
almeno –
era la sola idea di mostrarsi debole, spaventato o agitato per
qualcosa. Era un ragazzo arrogante e incredibilmente orgoglioso, uno
di quelli che preferiscono farsi odiare o, ancora meglio, temere,
piuttosto che compatire. D'altra parte, però, gli risultava
davvero
difficile nascondere qualcosa, specialmente sul campo emotivo, ad
Alfred: quello sciocco ragazzino lo avrebbe fatto impazzire prima o
poi, ed Ivar pazzo lo era già, a detta di molti.
Lo
conosceva da meno di un anno e ricordava ogni dettaglio del loro
primo incontro quasi perfettamente: era soltanto il quinto giorno del
suo ultimo anno universitario, lui era uscito piuttosto malconcio (un
occhio gonfio, un labbro sanguinante e, probabilmente, il naso rotto)
da una rissa da lui stesso cominciata e dalla quale era uscito
vincitore (per quel che valeva) ed ora si trovava fuori l'ufficio del
preside in attesa di essere ricevuto.
Non
era il primo episodio del genere, negli anni ne aveva combinate anche
di peggiori, ma la sua media era alta e suo padre ricco e famoso,
perciò nessuno aveva mai avuto il coraggio di cacciarlo una
volta
per tutte.
Dopo
una ventina di minuti di attesa, la porta dell'ufficio si era
finalmente aperta, Ivar aveva rizzato la testa in quella direzione
poggiandola poi contro il muro alle sue spalle; dalla stanza era
uscito questo ragazzo gracilino, apparentemente spaesato e fuori
posto, che dopo pochi passi aveva subito notato la sua presenza,
fermandosi di colpo. Si scrutarono negli occhi per degli istanti
infiniti, e proprio mentre Ivar faceva per aprire bocca e dirgli di
levarsi dalle palle e di piantarla di fissarlo, il ragazzo
tirò
fuori un fazzoletto di pezza dalla tasca della sua giacca e glielo
porse senza dirgli una parola, prima di allontanarsi come se niente
fosse successo.
Ivar
non era assolutamente un ragazzo che si impressionava facilmente, ma
quel gesto lo tenne sveglio per tutta la notte – quel gesto e
il
dolore per il naso rotto, se vogliamo specificare.
Passò
un'altra manciata di giorni, Ivar si trovava in cortile, sotto un
albero a mangiare il suo pranzo e stracciare la lettera –
seriamente, c'era ancora qualcuno che scriveva lettere invece di
usare l'email, nel ventunesimo secolo?! – che suo fratello
Ubbe gli
aveva scritto per dirsi amareggiato dal suo comportamento.
Mentre
ingoiava l'ultimo pezzo del suo sandwich, la sua attenzione fu
catturata da un gruppo di ragazzi, suoi coetanei, che avevano
avvicinato il ragazzino dai capelli lunghi dell'ufficio del preside.
Senza pensarci due volte e senza avere il minimo controllo sulle
proprie gambe, si era rizzato in piedi ed aveva raggiunto i bulli in
men che non si dica, ma mostrandosi calmo all'apparenza, annoiato
quasi.
In
un attimo si era posizionato tra il ragazzo e quello che sembrava il
capo della banda, e adesso lo guardava con un sorriso beffardo sul
volto. Invitò i ragazzi ad allontanarsi, all'inizio, poi
passò ai
pugni e dopo averli atterrati brutalmente tutti e cinque, si
avvicinò
al ragazzino (che scoprì, in seguito, essere soltanto al suo
primo
anno), gli mise un braccio intorno alle spalle e poi tornò a
rivolgersi agli altri.
“Gradirei
che lasciaste in pace – com'è che ti
chiami?”
“Alfred”
fece quello in un filo di voce, frastornato, più che
spaventato.
“Alfred.
Gradirei che tutti voi lasciaste in pace il piccolo Alfred.
È sotto
la mia protezione, la protezione di Ivar Lothbrok, da questo momento
in avanti.”
Inutile
dire che nessuno importunò più Alfred, nell'anno
che seguì, e che
i due diventarono inseparabili, per quanto diversi fossero
caratterialmente, e non solo. Com'era scattata la scintilla, o
quando, fra di loro, era difficile dirlo, ma un giorno Ivar si fece
trovare fuori l'aula di Alfred alla fine di una lezione, baciandolo
non appena ne fu uscito e senza dargli il tempo di salutarlo o dirgli
una sola parola.
Non
si erano più lasciati dopo quel momento, ed ora, ad anno
scolastico
finito e tornati entrambi nelle rispettive case, avevano avuto la
brillante idea – per meglio dire, l'idea era stata di Alfred
– di
far conoscere i loro genitori. A due ore dalla tanto temuta cena,
Ivar cominciò a mostrare i primi sintomi di un imminente
crollo
nervoso, non avrebbe mai dovuto assecondare quella stupida idea.
“Credi
che la cena si rivelerà un disastro?” Si
sentì domandare, ad un
certo punto, da Alfred che, finito di leggere l'ultimo capitolo di un
romanzo che lo aveva tenuto impegnato per settimane, si apprestava a
raggiungerlo in quello che poi era il suo letto.
Ivar
si lasciò abbracciare gentilmente ed aspettò di
avvertire le
morbide labbra del ragazzo premute contro il suo collo, prima di
ribadire. “Tu che cosa pensi?” Domandò
con quella che doveva
essere una risata sarcastica ma che suonò più
isterica e nervosa.
“I
nostri genitori ci vogliono bene, ognuno a suo modo. Farebbero di
tutto per vederci felici e sono certo che troveranno il modo di
andare d'accordo, per noi” dichiarò con una
sicurezza che gli fece
quasi accapponare la pelle.
“Sei
così sdolcinato” sibilò allora l'altro,
mettendo su
un'espressione disgustata.
“E
tu mi ami per questo.”
“Nonostante
questo.”
Alfred non vi badò,
premendosi meglio contro di lui, lasciando che l'altro lo avvolgesse
stretto, prima di far incontrare le loro labbra in un bacio lento e
delicato. “Annulliamo tutto, andiamocene a cena fuori,
soltanto
noi. O al cinema. A teatro. Ti porterò dovunque
vorrai” tentò
ancora Ivar, ad un certo punto, gli occhi chiusi e le parole
sussurrate contro la sua bocca.
“Non
vorrei essere in nessun
altro posto, stasera, se non a casa dei tuoi genitori, con te e le
nostre famiglie riunite” ribadì. Ivar
sospirò “Lo faresti, per
me?”
Colpo
basso. Ivar inarcò un
sopracciglio, Alfred giocò la parte dell'innocente (che
aveva smesso
di fregarlo già da tempo) poi entrambi sorrisero e per la
successiva
ora e mezza non pensarono più a niente.
*
Ragnar
aveva sempre trovato
difficile affrontare serate di quel genere. Aveva assistito al
matrimonio dei suoi tre figli maggiori (Bjorn, Gyda e Ubbe), ce ne
erano state tante di cene imbarazzanti con i suoi potenziali
consuoceri, era riuscito ad evitarne qualcuna, le prime specialmente,
ma a lungo andare sua moglie aveva puntato i piedi e lo aveva
obbligato ad intrattenere i suoi ospiti, fingendo interesse e
simpatia.
La
realtà era che lo
annoiavano, tutti loro, e non si impegnava minimamente a nasconderlo.
Non perdeva tempo a sperare che per una volta le cose potessero
andare diversamente: aveva conosciuto Alfred e, per quanto lo avesse
preso stranamente in simpatia fin da subito, le sue eccessive buone
maniere, il suo rigore e la sua ostentata fede cristiana continuavano
a fargli alzare gli occhi al cielo. Non osava immaginare i suoi
genitori, cazzo, quella serata aveva tutto il potenziale per
rivelarsi la più disastrosa e noiosa cena di sempre.
Per fortuna
aveva chiesto a
Sigurd di fare scorta di birra, prima di uscire, o non sarebbe
sopravvissuto per più di un'ora.
“Saranno
qui a momenti”
esclamò sua moglie Aslaug, spuntando fuori dal nulla, non
perdendo
tempo a lanciargli un'occhiata di fuoco “Ancora non ti sei
preparato?!”
“Come
no?!” Ribadì lui,
alzando le braccia e indicandosi dalla testa ai piedi “Sono
vestito, come puoi vedere.”
“È
una cena importante per
nostro figlio, non vorrai mica presentarti ai nostri ospiti in questo
modo così sciatto!”
Il
cosiddetto modo sciatto faceva
riferimento alla sua tshirt marroncina aderente, ai suoi jeans scuri
completamente strappati e al paio di infradito nere, comodissime, che
teneva ai piedi.
Ragnar
abbassò gli occhi,
osservò i suoi vestiti, poi tornò a guardare sua
moglie con un
sorriso innocente. “Cosa c'è che non
va?” E prima che lei
potesse aggiungere qualsiasi cosa, si affrettò a tornare
serio e a
fulminarla con un solo sguardo. “Ascolta, non ho intenzione
di
entrare per l'ennesima volta in quello stupido abito gessato che hai
tirato fuori e stirato con tanta cura. Non per delle persone che
probabilmente non rivedrò mai più, se
sarò fortunato.”
Aslaug era
decisa a non
dargliela vinta, lo capì subito, ma non ebbe il tempo di
aprire la
bocca, che il campanello suonò. Strinse i pugni, la donna,
limitandosi a mormorargli un glaciale “Potevi almeno farti la
barba!” prima di correre ad aprire la porta.
Si
prese un momento per se stesso, per respirare a pieni polmoni e
godersi quegli ultimi secondi di serenità, prima di
raggiungere la
moglie ed accogliere gli ospiti. Salutò Alfred con una pacca
sulla
spalla, regalandogli un sorriso sincero, mentre quest'ultimo gli
presentava sua madre Judith, un'artista, sicuramente, da quattro
soldi, e suo padre Aethelwulf,
un ricco e famoso avvocato difensore, figlio del defunto e grande
Ecbert, con cui lo stesso Ragnar si era più volte
confrontato in
tribunale.
Sua
moglie cominciò a scambiare con loro i primi convenevoli,
lui ne
approfittò per prendere entrambi i ragazzi sotto braccio ed
allontanarsi il più in fretta possibile. Fu però
raggiunto dal
padre di Alfred, che aveva avuto modo di sentire il suo nome, da suo
padre in primis, e da altri membri della corte, poi. Era curioso di
conoscerlo, quasi emozionato di potergli parlare, peccato che la
stessa cosa non si potesse dire di Ragnar.
“È
strano non esserci mai visti o incontrati prima d'ora, Ragnar. Posso
darti del tu, vero? Esercitiamo le nostre professioni da più
di
vent'anni, siamo entrambi famosi e richiesti, eppure i nostri cammini
non si sono mai incrociati. Buffo, non trovi?”
Che
qualcuno gli strappi la lingua, per favore! Blaterava troppo per i
suoi gusti, e a sproposito, soprattutto, Ragnar avrebbe preferito
buttarsi da un dirupo piuttosto che continuare quella conversazione.
Guardò suo figlio e lo trovò dello stesso avviso,
ma poi osservò
Alfred e si disse di provare ad essere gentile, almeno per quella
sera.
“Allora
–” cominciò ignorando il più gentilmente
possibile il
padre del ragazzo, voltandosi verso Aslaug, attirando la sua
attenzione e guardandola, per la prima volta dopo anni, con occhi
speranzosi “ci sediamo a tavola?”
La
donna fece per rispondere, ma subito Judith si fece avanti al suo
posto. “Non siamo ancora al completo, in realtà.
Manca ancora
Athelstan.”
“Chi
–?!” Ragnar non fece in tempo neanche a terminare
la domanda, che
subito il campanello di casa suonò di nuovo. Ottimo, altri
parenti!
Se lo avesse saputo prima, avrebbe chiesto a Rollo di unirsi a loro,
almeno avrebbe avuto un compagno di bevute.
Svogliatamente,
si diresse verso la porta, vedendo a malapena l'occhiataccia che
Aethelwulf aveva appena rivolto alla moglie, senza farsi troppi
interrogativi al riguardo – poco gli interessava,
onestamente.
Mano
sulla maniglia, aprì la porta, ritrovandosi davanti questo famoso
Athelstan che, evidentemente sovrappensiero, saltò
appena sul
posto prima di scrutare Ragnar da cima a fondo, sembrava non perdere
neanche un dettaglio.
“Ehm,
salve” esordì l'ometto dai capelli disordinati in
svariati ricci e
dai vestiti senza dubbio più eleganti dei suoi, cominciando
a
sentirmi lievemente minacciato dallo sguardo vago che l'altro gli
stava rivolgendo “è casa Lothbrok?”
L'uomo
sorrise divertito da quei modi impacciati. “Lo era l'ultima
volta
che ho controllato.”
“Oh,
bene” esclamò quello; Ragnar lo fissava senza
battere ciglio,
dritto negli occhi chiari, passandosi senza volerlo la lingua sulle
labbra neanche volesse mangiarselo. Athelstan si sentì
avvampare, a
disagio. Questo non fece altro che aumentare il sorriso dell'altro
“Papà!”
Il contatto visivo fu interrotto dalla comparsa di Alfred, che subito
abbracciò velocemente l'uomo che ricambiò il suo
sorriso
entusiasta, sentendosi come tratto in salvo.
Ragnar
alzò un sopracciglio, ancora appoggiato con un braccio
contro la
porta. Aveva perso il filo, ma non se ne risentì troppo:
improvvisamente le cose si erano fatte interessanti. Rivolse uno
sguardo veloce al nuovo arrivato, poi a Judith che era andata dietro
al figlio e infine a Aethelwulf, che invece se ne era rimasto in
disparte, l'attenzione rivolta alle foto della famiglia Lothbrok
appese qua e là nel soggiorno.
“Papà?”
Domandò retoricamente, tornando a guardare l'uomo ancora
fuori la
porta.
“Ragnar,
ti presento mio padre, Athelstan” Alfred fece gli onori di
casa,
emozionato “papà, lui è Ragnar, il
padre di Ivar.”
“Ovviamente”
Athelstan allungò la mano destra verso di lui, Ragnar rimase
a
guardarla per circa mezzo secondo, prima di stringerla
“Alfred mi
ha parlato tanto di te!”
“Buffo”
pronunciò l'altro per tutta risposta
“perché qui tutti si stavano
comportando come se tu non esistessi fino a un attimo fa.”
Athelstan si rabbuiò, stringendosi nelle spalle sulla
difensiva.
Visto così sembrava ancora più piccolo, di
statura, di quello che
realmente era. “Vedo che hai portato il vino,
ottimo!” Esclamò
allora Ragnar, togliendogli la bottiglia dalle mani e prendendolo per
un braccio, per farlo entrare dentro casa.
Lo
lasciò andare subito, mentre si allontanava in cucina per
stappare
la bottiglia, ma senza perdere d'occhio la situazione nell'ingresso:
Judith si era fatta avanti per salutarlo timidamente, Aslaug
andò a
presentarsi e Aethelwulf si avvicinò ad Alfred, prima di
abbracciare
la moglie come a voler marcare il territorio. Athelstan parve
ricevere il colpo, si ammutolì subito dopo aver salutato
Ivar, che
raggiunse poi il padre in cucina.
“Non
mi avevi mai parlato di Athelstan” Ragnar ora osservava il
figlio,
cercando di interpretare il suo sguardo e leggere i suoi pensieri.
Gli sembrava di essersi ancora perso dei pezzi per strada, ma davvero
poco gli importava.
“Non
mi piace quel tipo.”
“Ma
davvero?”
“Fa
il pastore, è bene amato da tutti in città. Ed
ogni volta che mi
vede non perde occasione di invitarmi alla messa della
domenica!”
Esclamò contrariato. Ragnar se la rise.
“Ah
sì?!” Tornò ad osservare Athelstan
proprio mentre questi si
voltava a guardarlo ed, essendo stato beccato in pieno, arrossiva e
rivolgeva la sua attenzione ancora una volta ad Alfred.
Probabilmente
quella serata non si sarebbe rivelata un completo disastro,
dopotutto.
*
Ragnar
aveva impedito a sua moglie di sedersi accanto a lui, bloccandola
prima che potesse anche soltanto spostare la sedia, e indicando il
posto vuoto proprio ad Athelstan che si fece avanti confuso.
La
tavola fu riempita di cibo e, almeno per un bel po', le uniche
chiacchiere che si potevano ascoltare provenivano dalle voci di
Aslaug e Judith: le due non si premurarono di inserire anche i mariti
(o gli ex amanti) nei loro discorsi, lo stesso non si poteva
però
dire dei due giovani fidanzatini che presto o tardi furono riempiti
dalle più disparate domande. Gli uomini si godevano quegli
attimi di
pace, in silenzio, attenzione rivolta ai loro piatti; solamente
Ragnar continuava a tenere tutti sotto controllo, specialmente il
timido pastore al suo fianco.
“E
dimmi, Ivar, seguirai le orme di tuo padre e diventerai
giudice?”
Aethelwulf si intromise, ad un tratto, nei discorsi. Ragnar
osservò
il figlio con un sorrisetto, conoscendo già la risposta.
“No,
diventerò un pugile professionista. Voglio riuscire
nell'unica cosa
in cui mio padre ha fallito” Ragnar rise e gli diede un
buffetto
dietro la testa, prima di osservare la faccia perplessa di
Aethelwulf, e l'occhiata contrariata che rivolse poi al suo
figlioccio.
“Come
ha fatto un pugile a diventare un giudice?” Tutti si
voltarono a
guardare Athelstan, era la prima volta che apriva bocca. Ragnar lo
guardò con attenzione, prima di rispondergli; l'altro
sembrava
sinceramente colpito e curioso.
“Alla
nascita di mio figlio Bjorn ho dovuto fingere di mettere la testa
apposto. Avevo studiato legge, non ricordo neanche perché,
ma non
avevo la minima intenzione di diventare un avvocato e ritrovarmi a
difendere dei criminali oppure ad accusare degli innocenti.”
Non si
degnò di osservare la reazione di Aethelwulf alle sue
parole, anche
se sentì Aslaug tossicchiare indignata, ma non se ne
curò.
“È
stato una sorta di ripiego, quindi. Una scelta obbligata.”
“Non
ho mai sognato di diventare quello che sono, se è questo che
mi
chiedi, no. E tu, invece? Già da bambino sognavi di
raccontare
favole ad una folla di peccatori che amano credersi dei santi e
credere che una volta morti finiranno in un luogo incantato in cui
tutti sono felici?”
Ivar
rise, Alfred gli tirò una leggera gomitata; Aslaug si
nascose il
volto con una mano, Judith trattenne il fiato e suo marito
dimenticò
di chiudere la bocca per circa trenta secondi; Ragnar
aspettò una
risposta, Athelstan, invece, abbassò la testa per nascondere
un
sorriso divertito.
“Ho
davanti un ateo, suppongo. Beh, Ragnar, ti dirò che, no, ho
ricevuto
la chiamata con il raggiungimento della maggiore età, anno
più o
anno meno. Da bambino volevo fare l'esploratore.”
Ragnar
rise, portandosi alla bocca un pezzo di carne direttamente con le
mani. Athelstan osservò quel gesto, senza fare commenti.
“Chissà,
magari il tuo Signore avrà provato a rintracciare anche me,
in
passato, soltanto che deve aver trovato occupato. Poteva provare a
lasciare un messaggio in segreteria, però, avrei potuto
richiamarlo.”
Ivar
nascose la bocca dietro la mano sinistra, notò poi
l'occhiataccia di
Alfred e si affrettò a stringergli la mano a mo' di scusa,
rivolgendogli un occhiolino. Athelstan scosse la testa, per nulla
offeso dalle parole dell'uomo, o scoraggiato di trovarsi di fronte ad
una causa persa.
“Non
credi in niente, Ragnar?” Domandò, come se lo
stesse sfidando.
“Credo
negli uomini,” partì l'uomo, senza battere ciglio
“credo che
siamo i soli artefici delle nostre vite; non c'è nessun
destino,
nessun disegno, nessuna strada già scritta. Quelle sono
soltanto
storie raccontate a noi stessi per giustificare delle scelte
sbagliate.”
“Quindi
credi che non ci sia niente, dopo la morte? Credi che l'esistenza di
noi uomini non sia servita a niente, una volta arrivati alla sua
fine?”
Ragnar
parve pensarci sopra, soppesare la domanda che gli era stata posta e
pensare alle giuste parole per la sua risposta. “Non credo
che ci
sia un Paradiso e benché meno un Inferno, se è
questo che mi
chiedi. Ma voglio comunque sperare che ci sia la possibilità
di
ricongiungersi con le persone che abbiamo amato in questa vita, stare
di nuovo insieme.”
In
tavola era calato il silenzio, ormai, tutti in ascolto del loro
dialogo, nessuno che osasse davvero intromettersi o interromperli.
Loro due parvero non farci caso, però.
“Mi
sembra una visione un po' triste e povera, eppure speranzosa e quasi
l'ideale: l'idea che non esista un Inferno, ma comunque la
possibilità di ricongiungerci con i nostri cari.”
Ragnar
sorrise sarcastico. “Non tutti sono fortunati ad avere tutte
le
risposte, come voi pastori.”
Fu
il turno di Athelstan di incurvare le labbra verso l'alto, forse
tristemente. “Non mi vanto di avere tutte le risposte, io per
primo
sono pieno di dubbi. Piuttosto, ammiro la tua sicurezza in quello che
dici.”
L'altro
rimase senza parole, davanti quest'ultimo discorso. Lo fissò
a bocca
semi aperta per qualche secondo, incapace di trovare un modo
qualsiasi per ribattere. Athelstan abbassò, invece, gli
occhi sul
cibo, sentendosi messo a nudo, forse, così improvvisamente.
Sapeva
di aver parlato troppo, di aver espresso le sue insicurezze davanti
ad un estraneo, ma quasi pareva non importargli, come se fosse giusto
così.
Judith
prese la parola, dopo un po', approfittando di quell'attimo di
silenzio per vantarsi dei voti del figlio nel suo primo anno di
università. Ragnar e Athelstan non si scambiarono parola per
tutto
il resto della serata, stessa cosa non poteva dirsi dei loro sguardi.
*
“Non
è andata poi tanto male, ieri sera. Visto, avevo
ragione!” Esordì
Alfred, ad un certo punto, mentre sceglieva un film da guardare su
Netflix.
Ivar
alzò gli occhi dal cellulare, interrompendo così
la partita a Clash
Royale, in modo da rivolgere uno sguardo accigliato verso il ragazzo.
“Abbiamo vissuto due serate diverse?”
Domandò, sbattendo le
palpebre, perplesso. “Non farti ingannare dai toni cordiali
di mia
madre, ha mantenuto una conversazione distaccata per tutto il
tempo.”
“Me
ne sono accorto” sbuffò l'altro “ma i
nostri padri stavano
andando d'accordo.”
“Non
credo che mio padre fosse veramente interessato ai discorsi di
Aethelwulf. Hai notato la sua faccia? Le sue parole?”
“Parlavo
di Athelstan.”
Ivar
rimase a guardarlo mentre scorreva titoli di film visti almeno una
decina di volte, in silenzio, la mente alla serata precedente.
“Hanno
parlato soltanto pochi minuti” affermò alla fine
“come puoi
dirlo?”
Alfred
sorrise una volta individuato il film che stava cercando, premette
play e tornò a buttarsi sul divano, al suo fianco.
“Hai mai visto
tuo padre essere gentile con qualcuno? O trattarlo come un suo
pari?”
Ivar
aggrottò la fronte “Mio padre è gentile
con te.”
“Io
non conto” rise “sono il ragazzo di suo
figlio!”
*
Ivar
non diede troppo peso a quelle affermazioni, troppo impegnato a
lamentarsi della solita commedia che si apprestavano a guardare. Alla
fine quel discorso gli sfuggì addirittura di mente e non
pensò mai
di interrogare i suoi genitori, e benché meno suo padre, in
merito
alla cena che si era svolta a casa loro.
Per
come la vedeva lui era stata un disastro, un gruppo di persone che
non si piacevano costrette a passare diverse ore insieme non poteva
portare a nulla di buono – ma si premurò di
ribadirlo neanche ad
Alfred, soddisfatto ed ottimista a tal proposito. A suo parere,
invece, l'ideale era limitare il numero di serate del genere, magari
una volta l'anno sarebbe stata la cosa migliore per tutti.
Scacciò
quei pensieri dalla testa quando si rese conto di star programmando
il suo futuro con Alfred – quando era diventato
così sentimentale,
esattamente?
Gli
tornò tutto alla mente, comunque, quando, qualche settimana
dopo,
tornando a casa, vide suo padre uscire dalla macchina del pastore.
Rimase perplesso per un po', in piedi davanti al vialetto della loro
abitazione, ad osservare la macchina dell'uomo che ripartiva e suo
padre che faceva la medesima cosa, ridacchiando tra sé.
Quando
Ragnar incrociò gli occhi del figlio, non fece altro se non
alzare
una mano in segno di saluto, come se niente fosse. Ivar alzò
un
sopracciglio e mosse appena il capo, simulando con la bocca un muto:
“Cosa?”.
Il
padre alzò le spalle “Ci siamo incontrati e mi ha
dato un
passaggio.”
Ivar
non fece altre domande e non ne riparlarono più.
Il
secondo episodio del genere accadde all'incirca sei giorni dopo.
Sua
madre era fuori, suo padre era in garage a trafficare con la sua auto
e lui, Sigurd e Hvitserk erano in camera di quest'ultimo a giocare
alla play station. Quando il campanello suonò
cominciò una sorta di
lotta verbale per decidere chi doveva scendere ad aprire, alla fine
Ivar fu il primo a cedere per non essere costretto a doverli sentire
un secondo di più.
Aprendo
la porta rimase come pietrificato. Athelstan lo guardò,
quasi allo
stesso modo, sorpreso, prima di rivolgergli un sorriso gentile.
“Ciao
Ivar” lo salutò raggiante –
perché doveva sempre essere così
felice e tranquillo? “Non ti ho visto ieri, alla
messa.”
Il
giovane lottò con tutte le sue forze per non mettergli le
mani
addosso. Evitò di rispondere, la mente al malcapitato figlio
a cui,
purtroppo, era affezionato. “Alfred non è
qui” lo informò,
immaginando che fosse quello il motivo della visita.
Athelstan
parve imbarazzarsi, le guance gli si colorarono appena. “Oh
no, non
è per questo che sono qui. Tuo padre voleva che gli
prestassi un
libro, avevo delle commissioni da fare qui intorno, oggi,
così ho
pensato di approfittarne per portarglielo.”
“Un
libro?” Ivar era incredulo, non sapeva neanche che suo padre
ne
possedesse, figuriamoci leggerli o farseli prestare.
Athelstan
annuì con la testa, poi tirò fuori dal borsone
che si portava
dietro un volume di, ad occhio e croce, 400 pagine, per
mostrarglielo. Il ragazzo guardò prima lui, poi il libro,
poi ancora
una volta il pastore. Era sempre più sconcertato.
“Ragnar
è in casa?” Chiese alla fine, quest'ultimo.
“No”
rispose il ragazzo senza pensarci, gli occhi di nuovo al libro.
Neanche
a farlo apposta, proprio in quel momento Ragnar uscì dal
garage,
venendo loro incontro, uno strofinaccio per ripulirsi le mani.
“Mi
era sembrato di sentire delle voci” esclamò, una
volta raggiunti,
gli occhi ad Athelstan.
Il
pastore parve non essersi offeso dalla menzogna di Ivar,
improvvisamente il volto illuminato in una nuova espressione a cui
però, il ragazzo, non sapeva dare un nome. “Ti ho
portato il
libro!”
“Vedo,
lascialo ad Ivar, fatti offrire qualcosa da bere e raggiungimi in
garage, i ragazzi mi hanno quasi distrutto la macchina ieri e sto
tentando di ripararla, possiamo parlare lì.”
Athelstan
rifiutò l'invito a bere, piuttosto si affrettò a
seguire Ragnar,
una volta affidato il libro nelle mani di Ivar e ignorato il suo
sguardo sempre più smarrito.
Cosa
stava succedendo?
*
Quel
tipo di episodi cominciarono a diventare all'ordine della settimana,
per non dire, in seguito, del giorno.
Suo
padre aveva presentato Athelstan a suo fratello e ai loro amici
–
Ivar era certo che nessuno di loro fosse troppo entusiasta del nuovo
arrivato, Floki gli diede poi la conferma quando, una sera, gli aveva
scritto per messaggio “Che problemi affliggono Ragnar,
ultimamente?”
Il
pastore divenne sempre più presente nella vita dei Lothbrok,
presentandosi a casa loro, con o senza invito, nelle ore più
disparate, fermandosi a pranzo o a cena e invitandoli a sua volta.
Aslaug era solita ringraziarlo gentilmente, ma né lei
né i suoi tre
figli maggiori si erano mai presentati a casa sua, al contrario
Ragnar c'era stato parecchie volte, accompagnato da Ivar (ma mai
senza Alfred), in qualche occasione da Bjorn e spesso e volentieri da
Gyda (e la sua famiglia) che, a quanto pareva, stravedeva per
quell'uomo.
Mesi
dopo, Aslaug comunicò ai figli che lei e Ragnar avevano
deciso di
prendersi una pausa e che sarebbe stata via per un po'. Nessuno ne
parve troppo sorpreso, dato che erano anni che i due avevano smesso
di andare d'accordo, comunicando a stento, solo Ivar pareva
sospettare che Athelstan c'entrasse qualcosa, con quella storia.
“Tuo
padre è gay?” Si ritrovò a chiedere, un
giorno, ad Alfred,
all'uscita dal cinema. Il ragazzo non smetteva di parlare del musical
che avevano appena guardato, e per poco non si strozzò con i
restanti popcorn che stava finendo di mangiare.
“Non
credo? Voglio dire... non sarei qui, in quel caso” suppose,
tossicchiando – Ivar gli diede dei colpetti dietro la schiena
senza
rendersene conto “Come ti è venuta questa
domanda?”
“Non
ti sei accorto che i nostri genitori stanno passando praticamente
tutto il loro tempo libero insieme? Mio padre va in tribunale, esce
e, per prima cosa, vede Athelstan. Lavora da casa e Athelstan viene
da noi. Nel weekend escono insieme, solitamente con gli amici di mio
padre, ma è capitato anche che stessero da soli. Una
domenica ho
seguito mio padre e l'ho trovato davanti le porte della chiesa!
Quando gli ho chiesto cosa ci facesse lì, mi ha risposto che
stava
aspettando che tuo padre finisse il suo sermone settimanale per
portarlo a fare un giro. Non ti rendi conto di cosa sta
succedendo?”
“I
nostri genitori vanno d'accordo, e allora? Te lo avevo già
fatto
notare io.”
“Non
è solo questo. Mia madre è andata via di casa,
quattro giorni dopo
mio padre è rimasto fuori per la notte. Floki mi ha detto di
averlo
visto andare via dal locale in cui si trovavano con tuo
padre.”
“Mi
stai dicendo che credi che tuo padre sia gay o che ne hai la
certezza?”
“Mio
padre non è gay!” Ribatté, offeso,
prima di ritrattare “ha
avuto parecchie donne negli anni, anche sotto gli occhi di mia madre,
ma – ma non credo che sia completamente indifferente a tuo
padre.”
Alfred non rispose, annuendo pensieroso. Ivar alzò gli occhi
al
cielo. “Cosa ne pensi?”
Il
ragazzo lo guardò e fece spallucce “Non dico che
non sia strana,
l'idea di loro due insieme, ma se mio padre, dopo tutti questi anni,
è felice insieme a qualcuno, non posso che esserne contento.
A te da
fastidio?”
Alfred
sapeva che Ivar non impazziva per suo padre, per via della sua fede
cristiana, ma era anche vero che la sua religione non aveva impedito
loro di frequentarsi; sperava che con il tempo, imparasse ad
affezionarsi, o a sopportare almeno, anche Athelstan.
“Non
saprei. Sono incazzato perché mia madre è andata
via di casa
probabilmente per questo motivo, ma allo stesso tempo voglio bene a
mio padre – non dire a nessuno che ho detto questo, mai
–
e non credo che potrei avercela con lui, non per molto almeno,
neanche per un motivo del genere. Non vado matto per tuo padre,
Alfred, lo sai, ma per te ho sempre provato ad andarci d'accordo,
suppongo di poterlo fare anche per mio padre. Sarebbe bello,
però,
che lui me ne parlasse, prima.”
Si
sentì prendere la mano, all'improvviso, avvertì
il ragazzo far
intrecciare le loro dita prima di stringere forte. “Sono
certo che
te ne parlerà presto” affermò
scoccandogli un bacio a fior di
labbra. Ivar sorrise, prima di rubargli gli ultimi popcorn rimasti
nella bustina.
*
Ovviamente
il famoso discorso non poteva tardare ad arrivare.
Aslaug
aveva appena firmato le carte della separazione e Ragnar non poteva
fare a meno di dirsi che, invece di sentirsi desolato o amareggiato
per aver visto fallire anche il suo secondo matrimonio, non poteva
non respirare nuovamente quell'aria di libertà e ritrovata
serenità,
nel mettere piede nella propria casa, che gli mancava da un po'.
Non
era mai stato felice con Aslaug, non l'aveva mai veramente amata, e
lei non aveva mai veramente amato lui, questo era certo. Forse questo
aveva reso la separazione più semplice, o magari
più difficile,
questo lo avrebbe determinato il tempo, dal suo punto di vista.
Avrebbe
preso e accettato volentieri ciò che il futuro aveva in
serbo per
lui, come aveva sempre fatto, solo che, questa volta, sperava che al
suo fianco ci fosse un certo pastore di sua conoscenza. Lo avrebbe
creduto impossibile solamente un anno prima.
In
soggiorno trovò Ivar intento a giocare o, forse, scambiarsi
messaggi
con Alfred, davanti alla televisione accesa su una serietv poliziesca
che però non veniva degnata di uno sguardo.
“Sono
tornato” il figlio annuì piano con il capo, a mo'
di saluto, senza
però alzare gli occhi dallo schermo. “Hai fame? Io
non metto
qualcosa sotto i denti da ore. Hvitserk è fuori con la sua
nuova
ragazza, mentre Sigurd è uscito con degli amici, quindi
siamo solo
noi due. Ordiniamo qualcosa? Pizza? Cinese?”
Ivar
lo guardò con la fronte aggrottata, il cellulare finalmente
poggiato
sul tavolino davanti a lui, vicino ai suoi piedi. “Sigurd ha
degli
amici?” Domandò piuttosto, come se fosse la cosa
più assurda che
avesse mai sentito.
Suo
padre si passò una mano sulla barba, trattenendo una risata.
“Sì,
questa cosa ha stupito anche me, non lo nego.”
Ivar
parve perplesso per qualche secondo, cercava di fare mente locale a
dei possibili ex amici di scuola o colleghi di lavoro, ma gli
risultavano tutti altamente improbabili. Alla fine fece una smorfia
ed alzò le spalle “È indifferente,
comunque, ordina quello che
vuoi.”
Ragnar
si allontanò per andare a trovare il numero del ristorante
italiano
più vicino a casa, prese il telefono e, mentre componeva il
numero,
tornò a guardare il figlio. “Vuoi invitare Alfred
a cena? Può
anche restare a dormire, se vuoi, sono un uomo adulto e non mi
scandalizzo. Non dopo aver condiviso il tetto con Ubbe e Bjorn,
comunque.”
Il
ragazzo rabbrividì a quel pensiero, i due fratelli non si
erano mai
posti dei limiti quando decidevano di portare una ragazza a dormire a
casa loro. “No, Athelstan doveva portarlo a qualche mostra
d'arte.”
Ragnar
annuì, prima di allontanarsi per ordinare il solito. Lo
raggiunse
poi sul divano, due bottiglie di birra già aperte in mano.
Ne porse
una al figlio e poi abbassò leggermente il volume della tv,
Ivar
immaginò quello che stava per succedere.
“Ho
visto tua madre, oggi” aspettò che dicesse
qualcosa, ma quando
trascorse un minuto buono fatto interamente di silenzio, si decise a
continuare “ho chiesto la separazione e lei ha firmato le
carte”
gli spiegò.
Ivar
parve attutire il colpo “Non ho mai creduto nella pausa, se
è
questo che pensavate.”
“Non
lo pensavamo, no. Ti da fastidio questa cosa?”
“Sì?
Come potrebbe essere il contrario, secondo te?”
Sbottò Ivar,
voltandosi a fronteggiarlo. Ragnar lo fissò, senza dirgli
niente,
portandosi la bottiglia di birra alle labbra. Il ragazzo
sospirò
“Ovviamente ero preparato, tutti noi lo eravamo, ma sono
comunque
incazzato.”
“Tua
madre e io non eravamo felici da un bel po', voi quattro eravate
ancora dei bambini. Credo che sia stata la cosa migliore, no?
Soprattutto per lei, sono stato un pessimo marito e lei è
stata fin
troppo paziente. Non credi che si meriti una seconda
possibilità?”
“Ah,
certo. Quindi lo hai fatto per lei, non per te stesso, vero?”
Il
nome di Athelstan era nell'aria, Ragnar sapeva benissimo che suo
figlio non era stupido e che aveva capito tutto già da un
pezzo,
così come era sempre stato pronto a scommettere che non
sarebbe
stato facile fargli accettare quella situazione. Cazzo,
perché non
ci aveva giocato dei soldi sopra?
“Sia
io che tua madre stiamo vedendo delle persone, da mesi. Ricorderai di
certo Harbard, il tuo dottore quando eri piccolo? Hai saputo che
è
tornato in città?”
Ivar
gli lanciò un'occhiataccia. “Francamente non mi
interessano gli
interessi amorosi di mia madre, al momento. Non stavamo parlando di
lei.”
Ragnar
posò la birra, improvvisamente serio. “No, hai
ragione” parole
che non diceva quasi a nessuno, ma per suo figlio faceva sempre
un'eccezione. “Io e Athelstan ci stiamo frequentando da
parecchio
tempo. Si può dire che stiamo insieme, ormai, ma questo lo
sai già.
Anche se, suppongo, avrei dovuto dirtelo prima.”
“Avresti
dovuto, esatto.”
“Ti
da noia?”
“Mi
da noia che tu non me l'abbia detto prima, facendomi passare per uno
stupido, un idiota che non si rende conto che suo padre si sbatte il
padre del suo attuale ragazzo!”
Ivar
non aveva mai amato girare troppo intorno alla questione, suo padre
non se ne stupì.
“Non
ho mai pensato che tu fossi uno stupido, anzi. Credevo che non ci
fosse bisogno di dirlo chiaro e tondo visto che non ci siamo mai
presi la briga di nasconderci. E, per la cronaca, non ho intenzione
di sposarlo, se è questo che temi. Ho chiuso con i
matrimoni, non
fanno per me; Tu e Alfred non correte il rischio di diventare
fratellastri.”
“Non
era questo il mio problema!” Affermò offeso, ed
anche disgustato
solo al pensiero.
“Non
ho intenzione di chiedere il tuo permesso per vedere Athelstan, Ivar,
voglio che sia chiaro” precisò, serio come lo era
stato davvero
poche volte in tutta la sua vita “ma non voglio che questa
cosa ti
crei dei problemi. Posso evitare di farlo venire qui, fin quando ci
vivrai anche tu. È questo che vuoi?”
Provò.
“No”
rispose l'altro, già sfinito da quella discussione.
“Non so bene
come sentirmi in merito, ma questa è casa tua, non posso
chiederti
di non portarlo qui. O di vederlo. È la tua vita, puoi fare
quello
che ti pare.”
Ragnar
sapeva che quella era la benedizione che aspettava, per questo
sorrise. “Farai un sacrificio, per me, e proverai a
sopportare
Athelstan?”
“Lo
faccio già per Alfred” commentò lui,
stringendosi nelle spalle e
riafferrando al volo il suo cellulare: discussione finita.
“Anche
se non è cambiato comunque niente in questi mesi, Athelstan
continua
a non piacermi.”
“Beh,
neanche il tuo ragazzo mi piace, se è per questo.”
“Bugiardo.”
Ragnar
rise, si buttò con la schiena sul divano ed
allungò, anche lui, i
piedi sul tavolino di fronte a loro. Riprese la birra e si
rilassò
davanti la tv, in attesa che il fattorino consegnasse loro la cena.
*
Athelstan
dormiva profondamente, respirando leggero contro il petto nudo di
Ragnar che, al contrario, non aveva chiuso occhio per ore. Lo aveva
osservato per un po', aiutato dalla luce della luna, e dei lampioni,
che entrava dalla finestra aperta, mentre se lo teneva ben stretto
tra le braccia. Era rilassante guardarlo, e lo aveva aiutato a dare
un nome ai sentimenti che provava per quell'uomo così
ordinario,
così gentile, così entusiasta, così
intelligente, così colto,
così... lui.
“Athelstan?”
Provò a chiamarlo, la voce bassa; gli sembrava un crimine
svegliarlo, nonostante tutto. “Athelstan!”
“Mmh”
mormorò l'altro, le labbra schiacciate contro la sua pelle,
gli
occhi chiusi.
“Sei
sveglio?” Domanda stupida.
“Sto
dormendo, Ragnar” risposta ancora più stupida.
“Stavo
pensando una cosa.”
Athelstan
sospirò, annuì per fargli capire di andare avanti
ma non si azzardò
ad aprire ancora gli occhi.
“Ti
amo, Athelstan.”
All'altro
per poco non prese un colpo; sussultò ed alzò
appena il busto in
modo da poterlo guardare in faccia, sconvolto. Si passò una
mano sul
volto, prima, per accertarsi che fosse veramente sveglio.
“Sei
serio?” Ragnar ridacchiò, lasciandosi baciare
più volte,
velocemente, sulle labbra “Oh, Dio!”
“Non
nominare il nome di Dio invano, c'è un tempo e un luogo per
questo
e, anche se il luogo è l'ideale – come tu stesso
hai dimostrato
più volte – non mi sembra il tempo
adatto.”
“Idiota!”
Scherzò il pastore, tirandogli un schiaffo leggero dietro la
testa,
prima di crollare di nuovo fra le coperte. “Credo di amarti
anche
io” sussurrò al buio, poco dopo “Voglio
dire, non ho mai provato
niente del genere con nessun altro, niente di così forte,
niente di
così potente, e travolgente, niente di così
stancante ed appagante.
Non sono mai stato innamorato prima, Ragnar Lothbrok, sei il primo ad
essere riuscito in quest'impresa.”
Ragnar
sorrise compiaciuto nell'udire certe parole, tuttavia non era nel suo
stile rispondere alla sdolcinatezza con altrettanto miele,
perciò
decise di non aggiungere altro in merito, e ad Athelstan
andò
benissimo così, ormai aveva imparato a conoscerlo e non
pretendeva
niente di diverso.
“Non
sei mai stato innamorato, hai detto, neanche di Judith?”
“Sono
affezionato a Judith, lo sono sempre stato, ma non credo di essere
mai stato innamorato di lei. Piuttosto credo che fossi attratto dalla
trasgressione che una relazione con lei avrebbe comportato, una donna
sposata, fedele, religiosa. Ero emozionato all'idea di diventare
padre, ma quando mi ha detto che sarebbe rimasta con Aethelwulf non
mi sono risentito, anzi. Sapevamo entrambi che fosse giusto
così”
spiegò, la mente rivolta al passato.
“Aethelwulf
non deve averla presa così politicamente, però,
la notizia della
sua gravidanza e della tua
paternità.”
Athelstan
rise “No, direi proprio di no. Voleva lasciarla, all'inizio,
ma suo
padre, Ecbert, era un mio caro amico ed era molto affezionato a
Judith, quindi lo convinse a ripensarci e a perdonarla.”
Ragnar
annuì, un po' come a dirgli che non gli importava poi molto
di
Aethelwulf, o di Judith. “E così... eri attratto
dalla
trasgressione, eh?!”
L'altro
sospirò divertito “Non avrei dovuto
dirlo!”
“No,
per nulla!” Esclamò l'uomo, avvicinandolo a
sé e prendendo a
bagnargli il collo con le labbra. Athelstan, però, era in
vena di
chiacchiere e confessioni, al momento.
“Dimmi
di te, piuttosto. Mi hai sempre detto di non aver mai amato Aslaug,
ti sei mai innamorato prima?”
Ragnar
si fermò subito, di malavoglia. “Ne vuoi proprio
parlare ora? Non
preferiresti fare altro?” Athelstan ridacchiò
appena e si morse le
labbra, per quanto tentato scosse la testa: voleva conoscere la sua
storia. L'altro sospirò sconfitto. “Certo che sono
stato
innamorato e, sarò onesto con te, quel sentimento non si
è mai
davvero spento.”
Athelstan
non rispose, ma lo guardò intensamente; Ragnar ricevette il
messaggio: non ne era infastidito, piuttosto ammirato e commosso.
“Non
ti ho mai parlato veramente di Lagertha, la madre di Bjorn e Gyda,
perché è un argomento... delicato, diciamo.
È stato quello che le
persone sdolcinate definiscono il primo grande amore. Ci siamo
sposati dopo poco, entrambi giovani, lei già aspettava Bjorn
ma non
lo sapevamo. Non c'è molto da dire, nonostante tutto siamo
ancora
molto legati. Ho incasinato tutto dopo circa 10 anni, quando ho
incontrato Aslaug. Mi farebbe piacere fartela conoscere comunque,
credo che potreste andare d'accordo.”
Athelstan
gli sorrise dolcemente “Ne sarei felice.”
“Ma
adesso basta con queste chiacchiere per favore” lo
supplicò
teatralmente, gesticolando anche con le mani. “Ritorniamo a
parlare
della tua passione per la trasgressione, sono piuttosto curioso
dell'argomento!”
L'altro
si mise a ridere, ancora, provando solletico al contatto della barba
dell'uomo contro la sua pelle nuda, prima di abbandonarsi a lui per
la seconda volta, quella notte.
*
Nonostante
i suoi figli gli avessero dato tutti, a loro modo, il via libera di
far dormire Athelstan a casa sua (non che ne avesse bisogno)
passarono ancora un paio di mesi prima che l'uomo acconsentisse a
passare la notte da lui, questo sempre per rispetto di Ivar e gli
altri.
Ragnar
aveva chiesto – o sarebbe meglio dire imposto
loro di
lasciarli in pace, almeno per quella prima volta, invitandoli a farsi
ospitare dalla madre, da qualche amico, da qualcuno dei fratelli o
dalle loro fiamme (poco gli importava, l'importante era che gli non
fossero tra i piedi).
Aveva
preparato ad Athelstan una cenetta da leccarsi i baffi, poi avevano
bevuto vino davanti la tv e poi – non c'era bisogno di
aggiungere
altro, davvero.
La
mattina dopo si era ritrovato da solo, nel letto, una volta sveglio,
e si era guardato intorno perplesso. Notò poi per terra la
camicia
che l'uomo indossava la sera prima, sentendo quasi simultaneamente
dei rumori provenire dalla cucina e questo gli bastò a
tranquillizzarsi, sbadigliare ancora leggermente assonnato, e trovare
la voglia di alzarsi. Indossò i pantaloni del pigiama e
raggiunse
l'altro giù in cucina.
Lo
trovò ai fornelli, indossava soltanto i jeans della sera
prima ed
aveva i capelli lunghi raccolti in una coda un po' disordinata, i
piedi scalzi. Rimase ad osservarlo estasiato, le spalle contro la
parete; Athelstan si destreggiava egregiamente, tutto concentrato
nella preparazione di uova strapazzate e pancetta.
“Cosa
fai?” Domandò ad un tratto, cogliendolo di
sorpresa, non
resistendo più.
Athelstan
si voltò a guardarlo, l'ombra di un'espressione di terrore
ancora
sul volto: non lo aveva davvero sentito arrivare.
“Buongiorno”
cominciò, riprendendosi, e rivolgendogli un sorriso al quale
Ragnar
rispose subito “beh, avevo pensato di portarti la colazione a
letto
per ringraziarti dell'ottima cena di ieri sera.”
“E
per il dopo cena?”
Athelstan
alzò gli occhi al cielo “Non ho bisogno di
prepararti la
colazione, per quello.”
Ragnar
ridacchiò, raggiungendolo alle spalle e prendendogli i
fianchi. Gli
sfiorò il collo con le labbra, senza però
toccarlo. Athelstan
chiuse leggero gli occhi, completamente stregato; si sentì
accarezzare la pelle e poi abbracciare piano, le mani dell'altro
contro il suo stomaco. Allora cominciarono i baci sul collo, seguiti
da dei morsi e dal tocco indistinguibile di un succhiotto.
“Ragnar
–” lo intimò, tentando come poteva di
apparire fermo. Fallì
miseramente “Rischio di bruciare la colazione.”
“La
bruceresti comunque” commentò l'altro
“non sei un grande chef,
non ti offendere.”
“Ah
no?!” Fece offeso, alzando ironicamente un sopracciglio.
“No
davvero. Hai altre qualità però, non so se te
l'hanno mai detto.”
Athelstan
scosse la testa, arrendevole. “Me lo dicono spesso.”
Si
girò appena in tempo per accogliere le labbra di Ragnar
sulle sue,
in quello che si rivelò un bacio feroce e famelico. Si
ritrovò
seduto sul bancone della cucina, gli prese il viso fra le mani e si
lasciò accarezzare dalle dita dell'uomo che avevano
cominciato a
percorrere tutta la sua schiena scoperta.
Fu
per un fortuito caso che si ritrovò ad aprire gli occhi,
almeno per
un secondo, quel tanto che bastava per darsi un contegno.
“Ragnar
–” provò a chiamarlo, ma l'altro non
voleva saperne e continuava
a rituffarsi sulle sue labbra, nonostante lui si tirasse indietro.
“Ragnar, ci guardano” provò allora.
Ragnar
rinunciò alle sue labbra, gettandosi nuovamente sul suo
collo. “Ne
abbiamo già parlato: sono certo che il tuo Signore
avrà ben altro a
cui pensare al momento.”
“No,
non è questo che intendevo” sospirò
“girati.”
Ragnar
lo fissò, prima, socchiudendo appena gli occhi, non capendo
dove
volesse andare a parare. Alla fine volse appena il capo alle sue
spalle, scoprendo Alfred, impegnato a guardare una piccola crepa nel
muro più vicino, ed Ivar, gli occhi addosso al padre e la
bocca
spalancata, in completo stato di shock.
“Ragazzi!”
Li salutò, lasciando andare Athelstan e provando a darsi un
contegno. Ivar era sempre più sconvolto.
“Papà,
t-i-p-r-e-g-o.” Sillabò, a denti stretti. Alfred
provava a non
ridere per la sua espressione, comunque imbarazzato per averli
beccati in flagrante.
“Cosa
c'è?” Domandò, per tutta risposta,
Ragnar, giocando la parte del
santerellino.
“Io
non ho parole” esclamò il figlio, gli occhi al
cielo, prima di dar
loro le spalle, prendere il ragazzo per mano, e trascinarsi entrambi
al piano di sopra. Sia Ragnar che Athelstan riuscivano a sentirlo
mentre continuava a brontolare cose come: “Due uomini adulti.
In
pieno giorno. Come due adolescenti. In cucina! Ne
ho
abbastanza.”
Nessuno
osò ritornare sull'argomento, in futuro, ma tutti
cominciarono ad
annunciarsi a gran voce, una volta rientrati a casa: la prudenza non
era mai troppa, con quei due nei paraggi.
*
Note dell'autrice:
Well, domenica sera sono riuscita a mettermi in pari con la serie e nei
giorni a seguire non ho potuto trattenermi dallo scrivere questa
storia. Il fluff non è esattamente il mio genere, ma credo
di aver sofferto abbastanza con Ragnar e Athelstan, mi serviva (e
serviva anche a loro) una tregua. Per quanto riguarda Ivar e Alfred...
non so, ho in testa la scena della 4x15 e li trovo carini? In
più mi piaceva l'idea che fossero proprio loro a farli
conoscere.
Grazie a chiunque abbia letto :*
|