Cap. 23 Ombre dal passato, ombre nel presente
Wow, siamo già alla
ventitreesima parte di questa storia e i nostri personaggi hanno ancora
molta strada da fare ^^' e tante prove/torture a cui essere sottoposti
dalla sottoscritta (ride in modo sadico).
Come capirete ben presto leggendo, questo è un capitolo
abbastanza "statico": niente grandi azioni nè sangue, ma solo
molte emozioni. Avrei potuto benissimo condensare le informazioni
contenute qui dentro in mezza pagina oppure buttandole qua e là,
ma sentivo la necessità di dar spazio alle personali di
alcuni dei protagonisti.
Tra l'altro, il capitolo si è scritto praticamente da solo, quindi...
Dal prossimo aggiornamento in poi ci sarà da rimboccarsi le
maniche: i muri non si ricostruiscono da soli e gli psicopatici tendono a non autoeliminarsi :D
Buona ! :)
Cap. 23 Ombre dal passato, ombre nel presente
Tutte
le persone che dovevano essere avvertite, in particolare datori di
lavoro e amici, avevano ricevuto notizie più o meno uguali:
nessuno di loro sarebbe uscito di casa per un po’ di tempo.
Quanto far durare la “degenza” sarebbe stata prerogativa personale.
Purtroppo non avevano tenuto in
considerazione Eric che, ormai completamente guarito, entrò
nell’appartamento come un piccolo uragano.
Più o meno tutti gli
occupanti della casa stavano riposando, qualcuno se ne stava
accoccolato sotto le coperte, qualcun altro semplicemente appoggiato
all’imbotte di una finestra. La notte era stata tremenda e i
segni erano chiaramente visibili sui loro visi e nei vestiti imbrattati
di sangue.
Il giovane europeo rimase a fissare
basito la scena che gli si presentava davanti, indeciso se mettersi a
strillare oppure tapparsi la bocca per non farlo.
-Entra e smettila di arrovellarti.- la voce di Evan lo trasse d’impaccio, riscuotendolo.
-M-ma cosa…?- iniziò,
guardandosi attorno. –Perché il palazzo è mezzo
distrutto? Alst non mi ha detto nulla.
-E a ragione. Ti saresti precipitato qui urlando come un forsennato… o sbaglio?- replicò il suo capobranco.
Eric arrossì visibilmente. –Non trattarmi come un bambino!- sbottò.
Evan allora sollevò le
palpebre, puntando gli occhi sul giovane affiliato. –Non ho
voglia di discutere, ora come ora. Ti basti sapere che Andrew si trova
nella cantina, finalmente sotto controllo e che nessuno di noi ha
riportato ferite mortali.- tagliò corto.
-Avreste potuto avvertirmi…-
il ragazzo incrociò le braccia al petto. Sapeva che lo
consideravano poco più di un pivello, ma quello era il suo
branco ora e se c’era una cosa di cui sapeva dar prova, quella
era la lealtà.
-Tuo zio è stato chiaro: se
ti dovesse succedere qualcos’altro, esigerà la mia testa.-
replicò lo scozzese. –E’ una prospettiva che non mi
alletta molto, a dir la verità.
-Lascia perdere mio zio. Si diverte
a mettere in soggezione le persone.- Eric liquidò la questione
con un’alzata di spalle.
Van si lasciò sfuggire un
sorrisetto. –Fa molto più di questo, ma sei troppo giovane
per capirlo.- disse di rimando. –Ora… ti chiedo di
chiudere la porta e trovarti qualcosa da fare. Ho bisogno di riposare.-
aggiunse, sistemandosi meglio contro il muro. Eric non poté fare
a meno di notare la smorfia di dolore che gli attraversò il viso.
-E un letto non sarebbe più adatto allo scopo?- si ritrovò a chiedere.
MacGregor riaprì un occhio. –Sono tutti occupati.- e con questo pose fine alla discussione.
Eric rimase ad osservarlo per
qualche istante, convincendosi sempre di più che la prima
impressione avuta sul capitano fosse completamente sbagliata. Mettere i
bisogni del branco al primo posto, anche se significava semplicemente
cedere un letto, era una qualità fondamentale per essere un buon
Alfa.
Evan poteva sembrare ruvido e poco
incline a lasciarsi coinvolgere, ma ogni tanto lasciava trapelare la
sua vera natura, quella nascosta sotto la corazza. Eric non aveva idea
di come fosse prima di arrivare a New York, ma era sempre più
certo che quella fosse una facciata.
Solo David sembrava conoscere il
vero carattere dello scozzese e non faceva altro che ricordargli i bei
vecchi tempi, nel tentativo di riaccendere quel fuoco.
“Aleksandr aveva ragione, in
fin dei conti. In lui c’è più di quello che si
vede.”, pensò con un sorriso mesto. Esitò ancora un
attimo, poi uscì lentamente dall’appartamento, deciso a
raggiungere Andrew.
Il minimo che poteva fare era aiutarlo nel momento del bisogno.
Sapeva che non stava dormendo.
Non più, almeno. E avvertiva il pressante desiderio di chiederle spiegazioni.
Proiettò la propria aura all’esterno, sondando l’ambiente che lo circondava.
Poteva ancora percepire la presenza
di Alst e Frances nella cantina, intenti a discorrere su quale fosse il
metodo migliore per accudire il giovane Andrew. Distolse
l’attenzione da quella conversazione per concentrarsi
sull’interno dell’appartamento.
Mentre saliva le scale
incrociò Eric, diretto verso il piano seminterrato: le
intenzioni che lo animavano erano scritte a caratteri cubitali sul suo
viso.
Gli sorrise brevemente, felice che,
a conti fatti, non fosse un damerino senza spina dorsale e
proseguì la propria ascesa.
“Attento alle domande che
porrai.”, la voce di Evan s’insinuò furtiva nella
sua mente. Di nuovo, sorrise. “Un Alfa non ha tempo di
riposare.”, lo sentì aggiungere, in risposta alla sua
domanda inespressa.
“Dovresti. Te lo sei meritato.”, replicò.
Riuscì a vederlo mentre
sbuffava, assolutamente in disaccordo. David gli aveva sempre invidiato
quel profondo senso del dovere verso gli altri: lui aveva impiegato
decenni per abbandonare il proprio menefreghismo.
“Dovremo trovare una
sistemazione alternativa. Questo appartamento è troppo
piccolo.”, Van passò ad un argomento più neutrale.
“Non ti crucciare. Ti ricordo che sono un architetto.”, gli fece presente Dave.
Era ormai arrivato al pianerottolo
dell’appartamento di Amanda e si concesse un momento
d’esitazione, valutando i pro e i contro di quello che stava per
fare. Evan non lo interruppe, probabilmente perché non riteneva
necessario il proprio intervento.
L’inglese gliene fu grato e, dopo aver lasciato passare qualche altro istante, si decise finalmente a varcare la soglia.
Una volta dentro non poté
impedirsi di guardare verso Van. Scorse il luccichio dei suoi occhi,
segno che era vigile, ma nient’altro avrebbe rivelato il suo
stato vigile.
Attento a non svegliare Amanda, il
lupo attraversò il soggiorno e sparì tra le ombre del
corridoio. Ci mise poco ad individuare la camera da letto, dato che le
porte erano solamente due.
-Entra…- la voce di Emily
gli arrivò sommessa. Fece come gli era stato detto e
scivolò all’interno come fosse fatto di fumo, senza
produrre il minimo rumore.
L’ambiente si trovava in
penombra, ma per i suoi occhi non fu un problema individuare le due
figure che occupavano il letto. Blake se ne stava tutto accoccolato in
grembo alla zia, finalmente al sicuro, mentre lei gli accarezzava la
testolina scura, traendo molto più conforto da quel contatto di
quanto avrebbe mai ammesso.
-Come state?- David decise di iniziare con qualcosa di semplice.
Emily si strinse nelle spalle.
–Scossi, ovviamente. Ma Blake è riuscito ad addormentarsi
e questo è un bene.- rispose lei.
-Questa cosa ha scosso parecchio
anche te… emotivamente parlando.- l’inglese spostò
il peso da una gamba all’altra, nervoso.
Capendo dove volesse andare a
parare, l’americana si lasciò sfuggire un sorriso amaro.
–Vuoi sapere il perché del mio comportamento?- chiese
allora.
David si avvicinò lentamente
al letto, in attesa di un rifiuto da parte di Emily. Quando questo non
arrivò prese posto all’angolo opposto a dove si trovava
lei, in modo da non invadere il suo spazio vitale o disturbare Blake.
-Lo scontro che c’è
stato con Andrew ha riportato alla mente ricordi che vorrei poter
estirpare dalla memoria.- iniziò, stringendo con forza il
copriletto. David non sapeva a cosa si stesse riferendo, quindi si
mantenne in silenzio. –La morte di Evelyn.- rivelò infine
la giovane donna.
Quelle poche parole lo colsero di
sorpresa: aveva capito che fosse qualcosa di importante, ma non aveva
capito lo fosse così tanto. –Non sei obbligata a
parlarne.- disse, mettendo le mani in avanti.
-Il vaso è stato aperto, ormai.- mormorò. –E parlarne non mi farà di certo male.
-Rivangare il passato può essere doloroso.- la contraddisse Dave.
Si fissarono in silenzio per alcuni
istanti, valutandosi a vicenda. Emily era quella nuova, entrata
nel branco con l’inganno. David era l’amico fidato, il
braccio destro dell’Alfa.
Non potevano ricoprire due ruoli più diversi.
-E’ successo mentre ero di
ronda.- lanciò una rapida occhiata al suo interlocutore per poi
abbassare lo sguardo. –Ricordo ancora l’irritazione: ero
stata assegnata ad una staffetta per controllare che la consegna di
quel giorno andasse a buon fine.
-Con staffetta intendi quel tipo di
staffetta?- volle sapere l’inglese. La storia aveva già
preso una brutta piega.
-Sì. Droga.- confermò lei.
-Perché sei coinvolta…- tentò di domandare, ma venne zittito.
-Non importa. Lasciami continuare,
per favore.- disse. Percependo l’enorme sforzo che stava facendo,
David l’assecondò. –Grazie… come ti stavo
dicendo, ero fuori di ronda. Non vedevo l’ora di tornare indietro
e passare del tempo con la mia famiglia: quel giorno era il compleanno
di Blake.
-Blake era lì?!- senza poterselo impedire, David trasalì.
Emily annuì gravemente.
–Evelyn stava preparando una torta per lui. Al contrario di me,
lei è sempre stata brava in quelle cose… ed era
migliorata notevolmente da quando era diventata mamma.- si
lasciò sfuggire un sorriso, negli occhi la malinconia per un
tempo che mai avrebbe potuto tornare.
Dave guardò brevemente il piccolo lupo e poi tornò a concentrarsi su sua zia. –Cos’accadde?
-Jared aveva comprato un regalo al
suo prezioso erede, come era solito chiamarlo. Ma assieme a quello si
era fatto anche una striscia e aveva preso qualcosa anche per Eve.-
Emily puntò lo sguardo sul muro, cercando di non farsi
sopraffare.
Era la prima volta in assoluto che
condivideva quell’esperienza con qualcuno, un estraneo per di
più. Ma sentiva che poteva fidarsi di David e, soprattutto, che
erano affini.
-Tua sorella si drogava?
-Sì. Purtroppo è
sempre stata un animo tormentato, anche se era una persona estremamente
posata. Incontrare Jared non l’ha aiutata.- ammise.
–Prendeva qualche allucinogeno, ma nulla di più. La coca
è arrivata con lui.
-Ma perché..?- David non si capacitava della scelta della giovane.
-Era malata terminale: la
licantropia può molte cose, ma non sconfiggere un tumore. Gli
allucinogeni l’aiutavano a liberarsi di parte del dolore.-
confessò con voce tremante.
Il riccio si morse l’interno
della guancia, dandosi dello stupido. Aveva già iniziato a
giudicare Evelyn senza nemmeno conoscere a fondo le sue ragioni.
–Io… mi dispiace…- riuscì solamente a dire,
confuso.
-L’unica cosa positiva
è che adesso dovrebbe essere libera da quel dolore.-
replicò Emily. La voce le si era incrinata a metà frase,
ma era riuscita comunque a terminare, lasciando che le sue parole si
espandessero nel silenzio della camera.
-E’ stata la droga ad ucciderla?- dopo un po’ David decise di azzardare una domanda.
La sua interlocutrice scosse il capo. –No. E’ stato Jared.
Il giovane tornò a farsi confuso. –Non capisco.- dovette ammettere.
-Quel giorno Evelyn si
rifiutò di prendere la dose di cocaina, dicendo che non voleva
essere fatta di fronte a suo figlio. Mi aveva confessato di aver smesso
di assumere droghe subito dopo aver scoperto di essere incinta, anche
se quello l’aveva fatta ripiombare nel dolore.- raccontò,
cercando di delineare al meglio le intenzioni della sorella. –A
Jared la sua risposta non piacque e l’attaccò.
-Quell’uomo è un
mostro.- commentò disgustato l’inglese. Gli prudevano le
mani tant’era forte il desiderio di stringerle al collo del
licantropo.
-Sì e la droga non faceva
altro che renderlo più imprevedibile. Hanno lottato, ma alla
fine lui l’ha scaraventata contro la grande finestra del loro
loft.- disse lei. –Io ero appena rientrata dal mio giro di ronda.
David non chiese altro: poteva
benissimo immaginare l’orrore provato alla vista del corpo
esangue di Evelyn. E la rabbia verso Jared, che probabilmente era
rimasto a guardare il risultato delle sue azioni come una
divinità soddisfatta del proprio operato.
Mentre cercava di reprimere la
furia che lui stesso stava provando, si rese conto che Emily stava
cercando inutilmente di non piangere.
L’aura rossa che aveva
circondato ogni cosa nel suo campo visivo svanì, lasciandolo
disorientato. –Emily…?- allungò una mano verso di
lei, pentendosi di aver chiesto.
Ma lei scosse la testa e racimolò la forza per sorridergli. –Grazie, David.- disse in un sussurro.
-Ti ho fatta piangere.- obiettò.
-E’ vero. Ma ne avevo bisogno.- replicò, asciugandosi una lacrima.
Si alzò, impacciato. Non
aveva previsto di poter scatenare una tale reazione e non aveva
assolutamente immaginato cosa potesse celarsi dietro lo strano
comportamento della lupa.
Lasciò vagare i pensieri, cercando di capire cosa fare.
Poi, senza poterselo impedire, dalla sua bocca uscirono le seguenti parole:-Lascia che ti la mia storia.
***
Erano passati diversi anni dalla sua prima trasformazione.
Quella notte
aveva creduto di essere stato posseduto dal demonio e aveva rischiato
di uccidere sua madre. Aveva fallito soltanto perché
l’odore dei cavalli era così forte da riempirgli le narici
e l’aveva condotto lontano dalla stalla.
Eleanor
l’aveva trovato disteso in mezzo ai cespugli di caprifoglio che
crescevano ai confini della tenuta di famiglia. David era completamente
imbrattato di sangue e tremava così forte che la donna temette
gli si sarebbero spezzati i denti.
Senza una
parola l’aveva avvolto in una coperta e l’aveva fatto
alzare, conducendolo verso il maniero. Lui si era lasciato guidare,
docile.
Una volta al
sicuro tra le mura domestiche, Eleanor si era presa personalmente cura
del figlio, allontanando la servitù. E tra i vapori di un bagno
ristoratore gli aveva raccontato la verità.
Ricordava quel momento come fossero trascorse appena poche ore, invece erano ormai sette anni.
Sbuffando,
David lanciò un altro sasso nel fiume Lea. Era nervoso a causa
dell’ennesimo litigio col padre e la vicinanza col plenilunio lo
rendeva ancora più irritabile.
-Smettila, te ne prego.- si sentì pregare.
Lasciò
cadere la pietra che stava per lanciare per poi rivolgersi al giovane
al suo fianco. –Scusa se non riesco a controllare le mie
emozioni…- brontolò.
L’altro
gli dedicò una lunga occhiata, distogliendo lo sguardo dal libro
che stava leggendo. –Se ti è così difficile la
convivenza con tuo padre, allora vattene.- gli suggerì.
Il giovane aristocratico alzò un sopracciglio. –Per andare dove, Evan?
-Ovunque.
Scuotendo la
testa, l’inglese si passò una mano tra i capelli ricci.
–Per te è diverso. Tu non hai nessun tipo di dovere verso
la tua famiglia.- replicò.
Evan si
raddrizzò, abbandonando definitivamente la propria .
–Tu credi?- lo guardò divertito. David se ne accorse e gli
lanciò un’occhiata interrogativa. –Devo portare
avanti la genealogia, ricordi?
-Come se fosse
una cosa così sgradevole.- fu la risposta dell’altro.
Sapeva che l’amico aveva a sua volta problemi col padre, ma in
quel momento desiderava solo sfogarsi.
Van rimase in
silenzio, evitando di commentare con tono sprezzante, ma non
poté impedirsi d’irrigidire la postura. Notandolo, Dave
s’affrettò a scusarsi, dandosi dello stupido.
“So essere proprio infantile, a volte.”, si rimproverò mentalmente.
Rimasero in
silenzio per qualche minuto, poi MacGregor disse:-Fai valere la tua
posizione. Non con la forza, ma con l’intelligenza.
-E se non dovesse ascoltare?- chiese l’altro.
-Nel branco di
mio padre c’è spazio anche per un sassenach* altolocato
come te.- Evan si lasciò sfuggire un sorrisetto. Quel ghigno gli
valse uno spintone da parte dell’amico, ma sortì anche i
suoi effetti.
Poco dopo David si alzò ed annunciò la propria partenza.
Per tutto il tragitto non fece che ripetersi mentalmente le parole che voleva dire al genitore.
Sapeva che
doveva mostrarsi deciso, ma non aggressivo. Albert I, Earl di
Chorleywood, avrebbe contrattaccato al minimo accenno di sfida,
rimettendo al suo posto il figlio riottoso con poche, taglienti sillabe.
Era quasi
arrivato davanti alla porta dello studio che il padre era solito usare
per dilettarsi nella , quando il suo fine udito colse i
frammenti di una conversazione.
Si fermò e si mise in ascolto, non potendone fare a meno.
-Perché non gli permetti di rendersi utile? David non è uno sprovveduto.- sua madre protestò con vigore.
-Certo che lo è. Spreca il suo tempo a disegnare, ignorando il mondo circostante.- replicò aspramente suo padre.
-David sta
coltivando il talento che gli è stato dato.- Eleanor
passò rapidamente davanti alla porta socchiusa, aggirando la
scrivania di legno massello per avvicinarsi al marito.
Albert fece una
pausa, scrutandola. –Così come sta coltivando il suo amore
per il demonio?- replicò, velenoso.
-Non ti permettere!- il rumore di uno schiaffo spezzò l’immobilità dell’aria.
David sgranò gli occhi, stupito. Di cosa stavano parlando?
-Immagino che
sia già arrivato a quello stadio. Da qualche anno, ormai.-
continuò il conte, indefesso. -Come suo padre prima di lui.
Il giovane
aggrottò le sopracciglia, ancora più confuso.
Perché i suoi genitori stavano discutendo di adorazioni del
demonio? E perché suo padre usava la terza persona, parlando di
se stesso?
-Avrei dovuto
tagliarti la gola la prima notte di nozze…- la contessa di
Chorleywood aveva preso a tremare, i pugni stretti per la rabbia. David
la poteva vedere perfettamente dalla fessura tra le due ante, in piedi
di fronte al marito.
“Cosa sta succedendo, qui?”, si chiese, avvicinandosi di qualche passo.
Aveva sempre
creduto che, nonostante gli alti e bassi del loro rapporto, i suoi
genitori si rispettassero e provassero affetto l’uno per
l’altra. Non amore, quello no: sapeva che il loro era stato un
matrimonio di convenienza.
Invece, quella conversazione smentiva tutte le sue convinzioni…
-Non avresti potuto farlo. Dovevi difendere il tuo piccolo lupo.- Albert schernì la moglie.
“Lui sa!”, realizzò all’improvviso, sobbalzando.
La figura
minuta di Eleanor si mosse all’improvviso, slanciandosi in avanti
coi pugni serrati. –Sei un mostro! Volevi strapparmi
l’anima dopo aver schiacciato il mio cuore!- lo aggredì.
Ridendo
malignamente, l’uomo le bloccò i polsi. –Alexander
era un abominio. E tu non avresti dovuto infatuarti di lui.
-Alexander era
un licantropo! Il solo abominio che vedo, sei tu!- in un impeto
d’ira, la contessa riuscì a liberarsi e graffiare il viso
di quello che non aveva mai considerato suo marito.
Albert
l’allontanò bruscamente da sé, portandosi la mano
alla guancia. –Tu! Traditrice del tuo sangue..!- allungò
le mani, pronto ad afferrarla.
Di fronte a
quella scena David vide rosso. La bestia dentro di lui ruggì,
infuriata, e lo spinse con foga all’interno dello studio.
–Non osare toccarla!- ringhiò, bloccandogli entrambe le
mani. La porta alle sue spalle sbattè sonoramente contro il muro
per poi rimbalzare indietro, ruotando sui cardini ben oliati.
-D-David!- sua
madre sussultò, colta di sorpresa. Davanti a lei, il conte di
Chorleywood se ne stava immobile, il respiro accelerato.
David le lanciò una rapida occhiata. –Madre, andatevene.- ingiunse.
Ma lei si oppose. –No. Cosa vuoi fare?
-Dargli quello
che si merita.- rispose con voce metallica, trasfigurando la propria
mano destra. Interruppe il contatto visivo con la sua genitrice e lo
puntò negli occhi dell’uomo che aveva di fronte. Non suo
padre, non Albert Spencer.
Semplicemente, un uomo.
-No! Non
diventerai un assassino!- Eleanor non volle sentire ragioni e si
aggrappò con forza al suo braccio. Suo figlio cercò di
liberarsi, ma non voleva ferirla. –Non sei una bestia assetata di
sangue.
-Forse dovrei
esserlo.- considerò il giovane, tornando a fissare quello
sconosciuto che aveva chiamato padre. Il lupo dentro di lui ringhiava e
uggiolava, assaporando già il sapore del sangue e
l’ebbrezza dell’uccisione.
Gli sarebbe bastato poco, un semplice gesto per porre fine alla sua inutile vita. Così poco.
“Mi hai
mentito per tutto questo tempo. Mi hai disprezzato. Hai ucciso il mio
vero padre.”, quei pensieri si susseguivano veloci nella mente di
David.
Albert Spencer
non poteva udirli, ma li vedeva trasfigurare il viso del giovane, che
pian piano assomigliava sempre più a quello di una bestia
demoniaca.
Quando sembrava
che la sua vita fosse appesa ad un filo, una figura irruppe rapidamente
all’interno della stanza, gridando il nome di David con quanto
fiato aveva in gola.
Tutti i presenti si voltarono, colti di sorpresa.
La tensione che fino a quel momento si poteva tagliare con un coltello esplose come una bolla di sapone.
Il primo a
riprendersi fu proprio il giovane inglese, che ringhiò qualcosa
tra i denti e poi tornò a fissare la propria preda. -Non te lo
permetterò.- Evan non si diede per vinto e chiuse le dita forti
attorno al braccio dell’amico, mentre Eleanor si spostava per
lasciarlo fare.
-Non hai il diritto di fermarmi!
-Tua madre mi
ha chiesto di esserti amico. E gli amici fanno anche questo.-
replicò, proiettando la propria aura verso quella del moro.
Dave
tremò, respingendo il primo attacco. –Non…-
iniziò. La bestia ringhiò e tentò di ribellarsi,
infuriata.
-Lascialo andare.
Scosse la
testa, sentendo la bestia farsi di colpo confusa. Aveva ancora il
battito accelerato e respirava in modo rapido e superficiale, ma
l’alone rosso che era calato su di lui si stava lentamente
alzando.
-Devo vendicare mio padre…- provò a protestare.
Evan lo
afferrò per le spalle, facendogli mollare la presa sul collo di
Albert. –Lo sarà.- gli promise. –Ora vieni con me.
***
David tornò al presente con un singulto.
Sbattè le palpebre diverse volte, ancora profondamente immerso nei ricordi. Emily, accanto a lui, lo fissava basita.
-Non volevo sconvolgerti…- mormorò il Beta.
-David… io…- non trovava le parole per esprimere il proprio dolore.
-Non lo uccisi.- disse solamente.
Lei si bloccò, ricacciando indietro una lacrima. –Cosa successe dopo?- chiese invece.
-Evan mi portò lontano dalla
tenuta per farmi calmare.- raccontò, gli occhi fissi sul muro
davanti a sé. –Poi arrivò mia madre e mi
svelò quello che era accaduto ventiquattro anni prima.
-Ti raccontò di Alexander?
Annuì.
–Sì… mi raccontò di come si erano
innamorati. Lui era un semplice borghese, un gran lavoratore, mentre
lei era destinata a sposare un duca per volere della famiglia. Ma
nonostante le premesse, Alexander riuscì a conquistarsi il
favore del conte e, alla fine, la sposò.- si concesse un
sorriso. Ripensare alle parole della madre gli stringeva il cuore, ma
al tempo stesso gli dava conforto.
-Immagino fossero felici, insieme.-
mormorò Emily. Senza poterselo impedire accarezzò
brevemente la testolina scura di Blake, ancora profondamente
addormentato.
-Eccome. I primi anni del loro
matrimonio furono molto felici…- assicurò. –La mia
nascita, poi, portò loro ulteriore gioia.
Vedere quel sorriso triste sul viso dell’inglese le fece male. –Cosa… cosa accadde… dopo?
-Albert si era invaghito di mia
madre… e dei soldi della sua famiglia.- le lanciò una
breve occhiata. –Aveva scoperto che Alexander era un licantropo e
così assoldò un cacciatore per ucciderlo.
-Che cosa spregevole.- commentò Emily, amareggiata.
-Una volta ucciso il lupo, fu
facile appropriarsi di ciò che rimaneva della sua famiglia con
la forza e il ricatto.- concluse cupo.
-Tua madre l’ha fatto per salvarti da morte certa…- iniziò col dire Emily.
-Non la incolpo di niente. Io stesso avrei considerato l’idea, se mi fossi trovato nella sua stessa condizione.- ammise.
-Dopo che te ne fosti andato… cosa successe?- domandò allora lei.
Dave lasciò vagare i
ricordi, tornando ai giorni immediatamente successivi la sua fuga.
Aveva provato così tanto odio nei confronti di quell’uomo,
che la bestia aveva preso il controllo del suo corpo per alcune notti.
Solo sua madre aveva potuto qualcosa contro la sua rabbia e, con calma, aveva chetato il lupo.
Ma quando era tornato in sé, era ormai tutto finito.
-Evan uccise Albert al posto mio.
Lo fece per impedirmi di macchiarmi del suo sangue.- disse solamente,
guardando Emily direttamente negli occhi.
Rimasero a fissarsi per alcuni
istanti, poi David decise che era arrivato il momento di togliere il
disturbo. Si alzò con un movimento fluido e
mormorò:-Cerca di riposare.
La lupa lo guardò uscire in religioso silenzio, turbata da quanto aveva appena udito.
Di nuovo nel soggiorno, Dave si
concesse un momento. Chiuse gli occhi e si passò le mani sul
viso per scacciare i ricordi amari.
-Non eri obbligato a farlo.- sentì sussurrare.
Sorrise mesto. –Ho ritenuto giusto farlo. Mi è sembrato necessario.- rispose.
-Dopo tanti anni riesci ancora a sorprendermi.
Si
era approssimato il più silenziosamente possibile, temendo di
poter disturbare il riposo del giovane lupo. Era molto probabile che
Andrew si trovasse in uno stato comatoso, al momento, ma non voleva
comunque destabilizzarlo.
Rimase un attimo a fissare immobile
i danni causati dal combattimento e poi, impressionato dalla porta di
metallo sfondata, s’incamminò lungo il corridoio che dava
accesso alle cantine.
Percepì subito la presenza di un’altra persona e si fece cauto.
-Disturbo..?- chiese, bussando sullo stipite in acciaio.
La figura all’interno si
voltò di colpo, sobbalzando. –Oh… ehm…
credevo che…- iniziò a farfugliare, sfregandosi
nervosamente gli occhi.
Eric sollevò le mani, cercando di apparire innocuo. –Mi dispiace. Credevo che Andrew fosse solo.- si scusò.
-Tu saresti…?- si sentì chiedere.
-Eric, faccio parte del branco.
Sono l’ultimo acquisto.- si presentò, sfoggiando il suo
sorriso più accattivante. Non voleva far colpo sulla ragazza, ma
semplicemente rassicurarla circa le sue buone intenzioni.
-Ah… sono Frances, piacere.-
gli sorrise brevemente, lanciando poi una rapida occhiata alla sagoma
di Andrew, steso dietro di lei. –Non si è ancora
svegliato.- aggiunse, alludendo proprio al lupo.
Il giovane europeo si mise le mani
in tasca, non sapendo bene cosa dire. –E’ normale. La prima
luna è difficile per tutti.- buttò lì.
Frances annuì
distrattamente, mantenendo il contatto visivo con il grosso canide. Il
suo disagio era palese, così come il suo desiderio di essere
altrove.
-Tu sei la fidanzata di Andrew,
vero?- se ne ricordò in quel momento. Sorpresa, lei
annuì. –Gli manchi molto.- aggiunse poi, addolcendo il
tono.
Sperava che quelle parole potessero calmarla un po’, ma sortirono l’effetto contrario.
Frances s’irrigidì
tutta e si portò una mano alla bocca nel tentativo di non
piangere. Eric fece per allungare una mano, intenzionato a stabilire un
contatto, ma lei non glielo permise.
Sussurrò una scusa e si defilò rapidamente, uscendo poco dopo in strada.
Il licantropo rimase a fissare il
punto in cui si trovava fino a poco prima, inebetito. “Ma
cos’ho detto di male?”, si chiese sinceramente confuso.
“Non è colpa tua…”, la voce s’insinuò nei suoi pensieri all’improvviso.
Sobbalzò come se gli
avessero dato la scossa e si voltò verso l’interno della
cantina. –Andrew?- fece, stupito. –Non credevo che fossi
cosciente. Vuoi che avverta qualcuno?
Il grosso lupo aprì
lentamente un occhio per poi scuotere lentamente la grossa testa.
Saggiò la propria forza cercando di muovere una zampa, ma quella
rispose a malapena. “Cosa mi succede?”, volle sapere.
Non sembrava spaventato, semmai stanco.
-Hai esaurito le energie.- fu la risposta.
Drew chiuse gli occhi, sospirando.
Era la soluzione più ovvia e lui l’aveva scartata a
priori, temendo che ci fosse qualcosa di ben più grave. Una
paralisi permanente, ad esempio.
-Riesci a tornare umano?
Sollevò lentamente le
palpebre, osservando quello che lo circondava. La cella era esattamente
come la ricordava, anche se ora la luce esterna penetrava dalla bocca
di lupo superiore e l’aria entrava ad intervalli regolari dalla
porta divelta.
Provò a racimolare le forze
necessarie per cambiare forma, ma il suo corpo si rifiutò di
obbedire. Dopo vari tentativi andati a vuoto fu costretto a scuotere la
testa.
-Oh… va bene. Devi
concederti del tempo per recuperare le forze.- le parole di Eric
volevano essere incoraggianti, ma alle orecchie di Andrew fu
l’ennesima riprova della sua inettitudine.
“Amanda sta bene, vero?”, chiese dopo alcuni attimi di silenzio.
Eric alzò gli occhi al
soffitto e poi tornò a guardarlo. –Sì… credo
abbia preso una bella botta, ma non ho visto né percepito
sangue.- lo rassicurò.
“Ed Evan? David?”, volle sapere.
L’europeo non poté
trattenere una smorfia. –Poteva andare peggio.- si limitò
a dire. Drew lo fulminò con l’unico occhio aperto.
–Braccio rotto e vertebra incrinata.- fu costretto a rivelare.
“Per fortuna non ho ucciso nessuno.”, sospirò, grato.
Facendosi coraggio, Eric
entrò nella cella di detenzione e si appoggiò alla parete
di fronte alla branda, esattamente davanti alla versione animale di
Andrew. –Non devi sentirti in colpa. Affrontare la luna piena
è difficile per qualsiasi giovane lupo e tu eri umano fino a
poche settimane fa.- gli disse, ripetendo quello che aveva già
detto anche a Frances.
“Questo non mi è
d’aiuto.”, la creatura arricciò leggermente il
labbro superiore in un gesto d’insofferenza. Nonostante giacesse
inerme su un fianco poteva ancora usare le espressioni facciali per
esprimere le proprie emozioni.
Se si poteva parlare di espressioni in riferimento ad un lupo.
Vedendo che le sue parole non
sortivano nessun effetto, Eric si passò una mano tra i capelli.
–Sapere che anche io ero un Omega potrebbe aiutarti, invece?- lo
disse fingendo noncuranza, come se quel ruolo non gli pesasse.
Drew sgranò gli occhi, stupito. “Tu, cosa? Davvero?”
Annuì lentamente. –Secondo mio zio si deve iniziare dal basso.- confermò.
“Non lo augurerei a
nessuno.”, commentò l’altro. Diventare l’Omega
era stata la disgrazia più grande che gli fosse capitata da
quando era diventato un licantropo.
-Il ruolo dell’Omega è
molto importante nel branco. Soprattutto se questo è vecchio e
si regge ancora sulle vecchie tradizioni.- rivelò.
“Può essere vero per un branco di lupi, ma non per i licantropi…”, ribatté l’americano.
-Oh, no. Vale anche per i
licantropi.- assicurò. –Nel mio branco d’origine
l’Omega era il lupo fisicamente più debole, ma in grado di
compensare con l’ingegno. Grazie a lui le tensioni interne non
sfociavano mai in combattimenti e, per questo, gli era assicurata
protezione permanente.
Il lupo assunse un’espressione perplessa. “Non capisco…”
-Un branco privo di tensioni
è un branco efficiente ed efficace. Inoltre, ognuno può
dedicarsi a ciò che vuole, senza doversi costantemente guardare
le spalle.- spiegò. –All’inizio anche io ero confuso
e molto arrabbiato: non capivo perché dovessi ricoprire quel
ruolo quando sentivo di poter essere un Pretendente.
“Pretendente? Ad un altro ruolo?”, domandò Andrew.
-Esatto. Al ruolo di Gamma.- confermò. –Ci sto ancora lavorando, però.- ammise subito dopo, ridacchiando.
“E cos’è
successo?”, la curiosità del giovane stava aumentando,
così come la sua attenzione.
Eric ne fu contento, perché
significava che lo stava distraendo dandogli modo di dimenticare, anche
se per poco tempo, quello che l’aveva tanto sconvolto.
-Essere Omega è una
propensione naturale: se l’individuo scelto non ha questa
vocazione, allora avanzerà naturalmente di ruolo, lasciando il
posto ad un altro lupo.- disse. –Ma mentre si è in carica
si possono scoprire molte cose, prima tra tutte come tenere sotto
controllo una ventina di licantropi su di giri.
Il lupo arricciò il naso. “Io devo tenerne a bada solo uno.”, si lasciò sfuggire un breve ringhio.
-Prima di pensare alla vendetta
sarebbe meglio acquisire maggior controllo sul tuo nuovo corpo, non
credi?- buttò lì l’europeo. –Posso aiutarti.
L’intero branco può.
Andrew non rispose, abbassando gli
occhi chiari. Sapeva che Eric aveva ragione e che il branco sarebbe
stato lì ad aiutarlo in qualsiasi momento, ma lui desiderava
solamente il supporto di una persona.
“Frances.”
-Non puoi obbligarla ad
accettarti.- mormorò Eric. –Ma puoi dimostrarle che si
sbaglia e che il lupo non è più pericoloso
dell’uomo.
“Perché mi dici
questo? Ora come ora non ho bisogno di un discorso
d’incoraggiamento, ma…”, bloccò il pensiero
del suo interlocutore sul nascere. –Hai bisogno di qualcuno che
creda in te e ti ami per come sei.- gli disse, spiazzandolo.
Drew lo fissò dritto negli occhi, immobile, poi abbassò le orecchie e uggiolò leggermente.
Non sapendo cosa fare per
migliorare l’umore del giovane, Eric si fece scivolare lentamente
lungo il muro, fino a sedersi a terra. Si lappò le labbra,
indeciso su cosa dire e poi si passò una mano tra i capelli,
arruffandoli.
Alla fine sospirò ed
esordì dicendo:-Avevo una sorella che amavo con tutto me
stesso… ma ormai sono sei anni che non c’è
più.
Andrew si fece vigile, aprendo gli
occhi e puntando le orecchie nella sua direzione. “Mi
dispiace…”, la sua voce fu poco più di un sussurro.
-E’ morta a causa della mia
inesperienza come Omega.- confessò, lanciandogli una breve
occhiata. Non aveva mai parlato con nessuno di quello che era successo,
nemmeno coi suoi genitori. Loro sapevano, ovviamente, ma non
immaginavano nemmeno quanta fatica gli costasse indossare la maschera
di strafottenza che si era costruito.
Forse nemmeno suo zio Aleksandr poteva capire.
“Non capisco…”, per la seconda volta il suo interlocutore ammise i propri limiti.
-Alina era completamente umana e
per questo era vista come una cosa preziosa, da proteggere ad ogni
costo. Tutti nella mia famiglia stravedevano per lei ed io con loro.-
si lasciò sfuggire un sorriso amaro mentre i ricordi gli
invadevano la mente. –Le piaceva pattinare sul ghiaccio. Ogni
occasione era buona per recarsi al lago e trascinarmi con sé.-
aggiunse subito dopo, ridacchiando.
Sentì pizzicare il naso, ma
ignorò ostinatamente il nodo che gli stringeva la gola. Non
avrebbe pianto: non era quello lo scopo del suo racconto. “E
quale sarebbe, invece?”, si chiese, confuso.
Lanciò una rapida occhiata
al suo interlocutore che, immobile, stava aspettando la parte
successiva. –All’epoca vivevamo in Russia e se
c’è una cosa da sapere sui licantropi russi è che
sono estremamente venali e territoriali.- continuò, riprendendo
da dove si era interrotto.
“Vi hanno attaccato?”, chiese Andrew in un soffio. Iniziava a temere un risvolto assai crudo per la storia.
-Avevamo sconfinato mentre
pattinavamo… e io, come un pivello, non me n’ero accorto.-
disse, stringendo con forza i pugni. Ricordare quella parte della
storia gli faceva sempre montare la rabbia: rabbia per la propria
stupidità e avventatezza. –Ci hanno circondato in poco
più di dieci minuti.
Vedendo l’altro in
difficoltà, Drew provò a fermarlo. Si agitò
leggermente, lasciando uscire un tremulo uggiolio. “Non devi, se
non vuoi.”, pensò.
Il giovane Kinsey sembrò non
averlo udito, troppo preso dai suoi stessi ricordi. –Ho provato a
tenerli a bada comportandomi come mi avevano insegnato, come un Omega,
ma fu tutto inutile.- s’interruppe, trattenendo il respiro. Nella
sua mente non c’era spazio per nulla che non fosse il bianco
della neve e il rosso del sangue. –Sono tornato a casa con
più ferite di quante potessi contare e il corpo di Alina tra le
braccia.
Andrew non seppe cosa pensare: in
confronto il suo sembrava un dramma da poco. -Ma lo sai
cos’è che mi fa più male, di tutta questa storia?-
si sentì chiedere. Lentamente e con un enorme sforzo,
sollevò il capo. –Ha continuato a ripetere che si fidava
di me. Per tutto il tempo, anche mentre mi massacravano di botte e lei
affondava in uno stupido buco creatosi nello strato di ghiaccio. Si
fidava di me come fratello e come lupo, nonostante fossimo caduti preda
di un branco di licantropi.
Gli occhi verdi del giovane
incontrarono quelli azzurri del lupo e, per qualche istante, tra loro
passò qualcosa: condivisione, compassione, impotenza.
Il primo a rompere il contatto fu
Eric, che distolse lo sguardo per puntarlo sulla superficie liscia del
pavimento. Sentiva ancora il bisogno di piangere, ma non
l’avrebbe fatto davanti ad un uomo emotivamente debilitato dalla
sua prima trasformazione.
Andrew, invece, si sentiva
svuotato. Si sarebbe paragonato volentieri ad un guscio vuoto, se solo
non si fosse sentito al tempo stesso così vivo.
Era come se qualcuno l’avesse
liberato da un grosso peso, sostituendolo con una nuova consapevolezza.
La bestia dentro di lui sembrava essersi assopita, esausta, e
l’uomo poteva finalmente riprendere il controllo.
Il limbo in cui era rimasto
bloccato svanì come neve al sole e, in men che non si dica,
avvertì le ossa scricchiolare. Lasciò che la natura
facesse il suo corso, provando poco dolore in confronto alle
trasformazioni precedenti.
Quando infine ebbe riassunto la forma umana, l’unica cosa che disse fu:-Grazie.
Per poi piegarsi su se stesso e lasciar libero sfogo alle lacrime.
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