RILEY JENKINS E GLI DEI
DI ASGARD
IL
FARDELLO DI SIGYN
CAPITOLO
2
Mangiare
il tofu di bestia o non mangiarlo? Questo è il dilemma!
- Tutto a posto, signorina?
Il tizio
con la barba incolta e l’ascia appesa alla cintura, Hunding,
picchiettò un paio di volte la punta del piede sul
pavimento, mentre mi guardavo attorno con aria disagiata: dopo un breve
soggiorno alla reception dell’Hotel Valhalla (sì,
avevano proprio detto “Hotel Valhalla), dove un energumeno
peloso aveva conficcato la punta di un coltello nell’occhio
di un altro omaccione della stessa stazza, ero stata condotta al
ventitreesimo piano, dove mi attendeva un’enorme e lussuosa
camera d’albergo, dal soffitto alto almeno sei metri. Il
centro era costituito da un ampio spiazzo di forma quadrangolare, da
cui si diramavano quattro larghi corridoi: uno di essi, quello che
conduceva al terrazzo, era attraversato da una specie di fiumiciattolo
che partiva dalla piscina di acqua salata posta in mezzo al quadrato
centrale; il corridoio di destra portava alla stanza da letto, mentre
quello di sinistra terminava di fronte a una porta scorrevole
verniciata di bianco, che supposi rappresentasse l’entrata
del bagno. Nel quarto corridoio, quello in cui mi trovavo, che partiva
dal piccolo atrio d’ingresso, c’era uno spazioso
salottino, provvisto di televisore a schermo piatto, caminetto
già acceso, un comodo divano, una coppia di poltroncine e
un’immensa libreria in legno chiaro, che somigliava in modo
impressionante a quella che tenevo in casa.
A dire il
vero, anche il resto del mobilio, dall’aria curata e un
po’ antica, mi ricordava i pezzi d’arredamento
della villetta in cui ero cresciuta.
Su una
piccola cassapanca erano state poste delle fotografie. Ne afferrai una
rimanendo sbigottita: era la stessa che occupava ormai da due anni un
posticino sulla mensola accanto al camino, quella che io e mamma
avevamo scattato a Londra. Eravamo alla stazione di King’s
Cross, io indossavo la sciarpa di Corvonero, lei quella di Serpeverde,
e ci eravamo disegnate una piccola cicatrice a forma di saetta sulla
fronte (con gli occhiali e i capelli crespi, la me sedicenne somigliava
a uno strano incrocio tra Harry Potter e Hermione Granger).
-
Signorina?
Riposi la
foto incorniciata al proprio posto, scuotendomi dai miei pensieri: -
Io… okay, riassumiamo la situazione: il tipo
all’ingresso, Helgi, mi ha detto che sono morta, rinata e poi
condotta qui, nel Valhalla, da una valchiria. Sono diventata
un’einherji,
una figura della mitologia norrena, possiedo un corpo nuovo,
addirittura “migliorato”, e sono proprietaria di
questa incredibile stanza. Le leggende nordiche sono vere e,
d’ora in poi, passerò la mia nuova vita
allenandomi in previsione del Ragnarok. Ho dimenticato qualcosa?
- Possiedi
anche la chiave del minibar – aggiunse Hunding, accarezzando
con le dita la punta della propria ascia. Non riuscii a capire se il
suo fosse un commento serio o se mi stesse semplicemente prendendo in
giro.
- Vorrei
almeno poter fare una telefonata a mia madre – borbottai.
- Per dirle
cosa? “Ciao mamma, non preoccuparti, sono stata uccisa da un draugr e
d’ora in poi passerò la mia nuova vita
nell’Hotel Valhalla, dove mi addestrerò per
entrare nell’esercito di Odino!”
- Non posso
restare qui! – protestai, stringendo con forza le dita tra i
capelli. – Sono iscritta all’università,
ho degli esami da fare, mia madre ha già pagato tutto! E i
miei conoscenti saranno preoccupati per me! Ho una vita là,
sulla Terra!
- Avevi una vita
sulla Terra, signorina. Adesso sei un’einherji e non
c’è modo di tornare indietro –
replicò l’omaccione, serafico. – Per
quanto mi riguarda, il mio compito si interrompe qui. Prima di
congedarmi, mi aspetto una mancia per il servizio.
Decisi di
lasciar cadere l’argomento “casa” e mi
frugai nelle tasche alla ricerca di qualcosa. Non trovai nulla, nemmeno
il cellulare, così mi guardai attorno, venendo colta da
un’improvvisa illuminazione.
- Un
momento…
Mi diressi
rapidamente in camera da letto e aprii il primo cassetto del comodino
sistemato accanto al grande giaciglio dalle lenzuola blu. Non mi ero
sbagliata: afferrai una manciata di piccole monete antiche, parte di
una vecchia collezione, e tornai all’ingresso, offrendole al
portiere barbuto.
Quello
osservò il pagamento per qualche istante,
dopodiché intascò soddisfatto ed
eseguì un rozzo inchino, assumendo un tono formale: - Le
auguro una buona giornata, signorina.
Non appena
uscì dalla stanza, chiudendosi la porta alle spalle, restai
per qualche istante immobile e in silenzio.
Provai a
mettere a fuoco la situazione, cercando di trovare una spiegazione
razionale ed evitare di vedere il castello delle mie certezze crollare
miseramente, ma fui costretta ad arrendermi all’evidenza: non
c’era nulla di logico o razionale in ciò che stavo
vivendo, ma non si trattava di un sogno.
Pensai a
mia madre, pensai a Dayo e al senso di colpa che avrebbe provato per
non avermi riaccompagnata a casa, pensai
all’università e agli esami che non avrei
più potuto dare, alla carriera che sognavo ormai finita
dritta dritta nel… com’è che la
valchiria dai capelli rossi aveva chiamato l’abisso che
avevamo sorvolato prima di raggiungere l’hotel? Ginnungagap?
Mi
accasciai sul divano, accartocciandomi su me stessa, nascosi la testa
nell’incavo delle braccia e cominciai a urlare,
abbandonandomi a una vera e propria crisi isterica.
Non mi era
mai successo di perdere il controllo in quel modo, ero sempre stata una
persona tranquilla e ragionevole, ma tutto quel casino andava ben oltre
il mio limite di sopportazione.
Mi alzai
all’improvviso, scagliandomi contro il muro più
vicino e cominciando a tempestarlo di pugni, ma balzai
all’indietro spaventata non appena mi resi conto che le mie
mani affondavano nella parete a ogni colpo, quasi mi stessi accanendo
contro una superficie di cartongesso.
Cercai
qualcos’altro su cui riversare la mia ira, ma dei timidi
colpetti alla porta spensero momentaneamente il mio sfogo. Mi sfilai
gli occhiali, asciugando le lacrime alla bell’e meglio, e mi
fiondai sulla maniglia, abbassandola e tirando verso di me.
Mi trovai
di fronte una ragazzina sorridente, con i capelli biondi raccolti in
due trecce. Non era molto alta, aveva guance tonde e piene,
tempestate di lentiggini, grandi occhi celesti e un fisico provvisto di
morbide curve.
Indossava
una T-shirt verde e un semplice paio di jeans e, tra le mani, reggeva
un vassoietto celato da una cupola di cartone rosa, simile a quelli
delle pasticcerie.
- Ciao,
vicina! – mi salutò allegramente, facendo
trasparire un lieve accento tedesco. – Era da un
po’ che non arrivavano nuove reclute al piano
ventitré. Io sono Liselotte Dashner, ma puoi chiamarmi
Lilly. Ti ho portato uno spuntino di benvenuto, spero ti faccia
piacere, appena ho saputo del tuo arrivo mi sono messa a sfornare mini bretzel dolci in
tempo record.
Feci
scorrere lo sguardo da lei al vassoio un paio di volte, poi mi schiarii
la voce, riuscendo a gracchiare un impercettibile
“grazie”.
Dovevo
essere in condizioni pietose, così provai ad abbozzare un
sorriso, che somigliò più a una smorfia di
dolore.
- Riley B.
Jenkins – lesse, osservando la scritta impressa sulla porta
della mia stanza. – Di dove sei?
- Di
Boston… - ignorai la fitta che mi tormentò lo
stomaco non appena mormorai il nome della mia città.
– Ti ringrazio per la tua gentilezza… Lilly.
Probabilmente avrai sentito le mie urla, prima…
- Oh, ma io
adoro dare il benvenuto ai nuovi arrivati!
Il suo
sorriso si allargò, scavando due graziose fossette nelle
gote morbide: - Non preoccuparti, Riley, è normale dare di
matto all’inizio, figurati che c’è
ancora chi…
Un urlo di
rabbia proveniente da una delle stanze vicine mi fece sobbalzare.
Seguì il rumore di uno schianto, accompagnato da altre grida.
- Appunto,
Alviss sta di nuovo avendo una delle sue crisi… -
borbottò Lilly. – Mi sa che devo proprio andare,
non mi fido a lasciarlo solo quando si trova in certe
condizioni… ti consiglierei di non guardare, visto che sei
nuova… ci vediamo più tardi a cena! Oh, tieni, il
tuo vassoio.
-
Ehm… d’accordo…
Mi ritirai
nella stanza, chiudendo la porta e raggiungendo nuovamente il divano,
dove mi sedetti posando il vassoio con i bretzel sulle ginocchia. Mi
sentii egoista, ma l’ultima cosa di cui avevo bisogno in quel
momento era assistere un einherji che dava di matto.
Rimossi il
coperchio con cautela, abbozzando un sorrisetto alla vista degli otto
dolcetti ancora caldi: erano piccoli, intrecciati e glassati con cura
ed emanavano un profumo invitante.
Ne presi
uno, staccandone un pezzo con un morso: era ripieno di crema di
nocciole.
In qualche
modo, quel sapore delizioso mi aiutò a tornare un
po’ lucida: cominciai a guardarmi attorno, facendo cadere lo
sguardo sul taccuino poggiato sul tavolinetto del salotto. Sulla
copertina in cuoio spiccava la scritta“Servizi per gli
ospiti”.
Lo
afferrai, dando un secondo morso al mio bretzel, e cominciai a
sfogliarlo con la mano libera: la piantina dell’hotel
attirò immediatamente la mia attenzione.
“Bene”
pensai. “Ho
una mappa, un elenco di regole, un menù… e un
sacco di libri. Manca ancora parecchio all’ora di
cena… forse un po’ di studio non mi
farà male…”
Un paio di
colpi decisi alla porta mi fecero quasi sobbalzare: alzai gli occhi dal
testo “Divinità
e creature della mitologia norrena”, mentre,
senza aspettare il mio invito, la valchiria dai capelli rossi che mi
aveva salvata fece il proprio ingresso nella stanza, gettando
un’occhiata leggermente stranita alla vista del marasma di
libri sparsi sul tavolo.
Portava la
lunga chioma ramata raccolta in una treccia che cadeva davanti alla
spalla, indossava un abito bianco e un po’ attillato che
sottolineava le sue piacevoli forme e, legata a un’elegante
imbragatura di cuoio, una lancia argentata faceva capolino da dietro la
sua schiena.
- Vedo che
ti stai già dando da fare – osservò,
incrociando le braccia al petto ben sviluppato.
Mi alzai,
sistemando gli occhiali che mi stavano scivolando giù dal
naso, e provai a farfugliare qualcosa: - Io… cerco di
comprendere meglio quello che mi sta capitando…
- Il mio
non era un rimprovero – replicò, facendo un passo
avanti, senza sciogliere l’espressione severa. – Io
sono Elizabeth, la tua valchiria.
-
Ciao… io sono…
- Lo so,
Riley Barry Jenkins, figlia adottiva di Margaret Jenkins.
Era
piuttosto alta, considerato che io, dal mio metro e settantotto, la
superavo di massimo cinque centimetri, ed emanava un profumo fresco di
menta e limone.
Non era il
mio tipo, sembrava troppo rigida per una persona tranquilla
come me, ma dovevo ammettere che era una ragazza affascinante.
- Hai
già conosciuto Lilly – disse, accennando al
vassioietto che conteneva ancora quattro bretzel. – Penso
troverai piacevole la compagnia dei ragazzi del piano
Ventitrè. Magari dovrai prima abituarti alle crisi di Alviss
e alla stupidità di Jace, ma a parte questo direi che ti
è andata piuttosto bene.
- Che
cos’ha Alviss? – domandai istintivamente, mentre
cercavo di mettere a posto i libri.
Elizabeth
sospirò: - Ti spiegheranno tutto i tuoi compagni. Ti
consiglio vivamente di cambiarti e indossare la maglietta
dell’hotel, tra poco ci chiameranno per la cena e tu dovrai
raccontare a tutti le gesta eroiche che ti hanno condotta fin qui.
-
Cos…
Prima che
potessi protestare, la mia salvatrice si diresse a falcate verso la
camera da letto, tornando pochi istanti dopo porgendomi un paio di
jeans e una T-shirt verde accuratamente piegati.
- Metti
questi – ordinò. – Sì, sono
della taglia giusta. Com’è possibile? Magia.
-
L’avevo intuito… - borbottai, obbedendo.
– Ma riguardo a quello che hai detto prima…
raccontare le gesta eroiche…
- I nuovi
ospiti del Valhalla devono dimostrare di meritarsi l’onore
che hanno ricevuto – rispose, facendosi passare la canotta
fucsia e i pantaloncini verdi che indossavo fino a poco prima e
adagiandoli su una sedia. – Perciò ti consiglio
vivamente di fare bella figura, se non vuoi ritrovarti relegata a
compiti ingrati. Senza contare poi che gli einherjar indegni
rappresentano la rovina per le proprie valchirie: dovessi farmi fare
brutta figura, te la farei pagare molto cara.
- Mi sento
molto più tranquilla, adesso – replicai
sarcastica. – Forse avrei dovuto leggere subito tutto il
taccuino dei Servizi
per gli ospiti, invece che limitarmi a studiarne mappa e
parte del regolamento…
- Cerca di
comportarti bene, io non metto a rischio la mia carriera per qualcuno
che non lo merita. Hai dimostrato coraggio affrontando quel draugr.
Ricordati di menzionare il bastone che tenevi in mano quando ti ha
uccisa, è fondamentale.
- Giusto,
un einherji deve morire con un’arma in mano –
ricordai, mentre mettevo i breztel avanzati al sicuro, per poi seguire
la mia valchiria fuori dalla porta.
Lilly
attendeva già in corridoio, insieme ad altri quattro ragazzi
che potevano avere massimo diciannove o vent’anni.
-
Eccola! – esclamò la biondina, battendo le mani
entusiasta. – Vieni, Riley, qui sono tutti ansiosi di
conoscerti!
La prima a
presentarsi fu una giovane guerriera dalla pelle color bronzo, unica
einherji femmina del corridoio oltre a me e Lilly: si aggirava attorno
al metro e settanta d’altezza, aveva gambe lunghe e forti, un
fisico un po’ spigoloso e capelli corti e neri, con un unico
ciuffo più lungo acconciato in una treccina che cadeva sul
lato sinistro del suo volto.
- Ciao, io
sono Sitala Tel’ula, figlia di Heimdall e ospite
dell’hotel Valhalla dal 1986.
Strinsi la
mano che mi stava porgendo: aveva parecchi tatuaggi sparsi sul corpo e
le sue iridi erano tanto scure da sembrare nere.
- Piacere
– risposi. – Figlia di… Heimdall? Quel Heimdall?
- Molti
residenti dell’hotel Valhalla sono semidei –
soggiunse un ragazzo dalla carnagione olivastra, facendo trasparire un
forte accento italo-americano. – Questo, però, non
vale per me e Lilly. Mi chiamo Benjamin Levin, ma puoi chiamarmi Ben.
Vivo qui dal 1953.
Notai con
un certo stupore il ciondolo con la stella di David che spiccava sopra
il tessuto verde della sua maglietta.
- Sei
ebreo? Come mai ti trovi…
-
Invischiato in una realtà estranea alla mia religione?
Sorrise,
scompigliandosi distrattamente i capelli scuri. Era alto più
o meno come me e i suoi occhi erano color verde ambra, illuminati da
una luce benevola.
- Diciamo
che ho imparato a convivere con entrambe le cose. Molti di noi si
trovano nella mia stessa situazione: una delle compagne valchirie di
Lizzie, per esempio, è musulmana, Sita è
cresciuta in una riserva, con le tradizioni e la mitologia del popolo
Miwok, e Lilly viene da una famiglia cristiana. Tu aderisci a qualche
Credo?
- Mmmh, no,
sono atea – replicai. – Il che mi rende un tantino
difficile credere a tutto questo…
Gettai
un’occhiata ai due ragazzi che non si erano ancora
presentati: uno era alto e allampanato, con i capelli lunghi e neri
raccolti in una coda, malinconici occhi grigi e carnagione chiarissima;
l’altro era più tarchiato e di media altezza,
aveva la mascella squadrata, vivaci iridi azzurre e una scompigliata
capigliatura color rame.
- Tiro a
indovinare: Jace e Alviss?
-
Naturalmente! – rispose il rosso, spavaldo. – Jason
Colbert, per gli amici Jace. Quindi per tutti i presenti tranne che per
Liz.
Fece la
linguaccia alla bella valchiria, la quale alzò gli occhi al
cielo con fare scocciato.
Lilly diede
una gomitata all’einherji più alto, il quale face
un passo avanti, tenendo gli occhi fissi al pavimento: - Ciao, io sono
Alviss, figlio di Nott… ti chiedo scusa per il casino che
hai sentito prima e che sentirai spesso nei giorni a venire…
- Ciao,
Alviss. Non ti preoccupare, non sono una vicina intollerante e
dispotica, spero tu stia meglio adesso.
Ero tentata
di chiedergli da cosa dipendessero quelle crisi, ma pensai che fosse
meglio prendere un po’ di confidenza prima di estorcere
dettagli personali troppo intimi.
Posai
distrattamente lo sguardo su una delle porte del corridoio opposto,
aggrottando le sopracciglia quando lessi il nome inciso
all’interno di un cerchio di rune vichinghe: MIA
DE MEDICI.
- Pensavo
fossimo tutti qui – osservai. – Insomma, tutti gli
inquilini del corridoio… Mia è già
andata a mangiare?
I volti dei
miei compagni si serrarono in un’espressione tesa. Anche
Elizabeth parve piuttosto a disagio.
-
Ecco… - cominciò Ben con fare incerto.
– Mia non è qui… lei… lei
è…
Il suono
assordante di un corno mi face sobbalzare, interrompendo il discorso
del giovane einherji.
Elizabeth
mi afferrò per un polso, trascinandomi via con fare
impaziente: - Parlerete dopo cena, non voglio arrivare in ritardo.
Stasera siederai al tavolo dei nuovi arrivi, perciò avrai
gli occhi di tutti puntati addosso. Meglio essere puntuali.
Non potevo
dire di sentirmi a mio agio, mentre prendevo posto a un tavolino che si
trovava a sinistra della tavolata principale, dove erano soliti cenare
i thanes,
i grandi capi.
La sala dei
banchetti aveva l’aspetto di un enorme stadio, al centro del
quale si ergeva l’imponente tronco di un grosso albero;
animali di svariate specie bazzicavano tranquilli sui rami, mentre, su
un lunghissimo spiedo, arrostiva una gigantesca carcassa fumante.
-
L’albero si chiama Laerdar – mi spiegò
Elizabeth, con la sicurezza di una guida turistica. – Su quel
ramo pascola la capra Heidrun. La vedi? Dal latte che cola dalle sue
mammelle si ricava l’idromele. Mentre l’acqua di
quel ruscello che scorre lungo il tronco, formando una cascata,
proviene dalle corna del cervo…
-
Eikthrymir, giusto?
La
valchiria annuì, mentre la mensa-stadio cominciava a farsi
man mano sempre più affollata.
- Noi lo
chiamiamo Ike. La bestia che arrostisce sullo spiedo è
Saehrimnir, ogni giorno viene uccisa per essere mangiata dagli abitanti
del Valhalla. Il mattino dopo risorge.
- Come le
capre di Thor, quindi – commentai, memore di quanto avevo
ripassato poco prima nei libri di mitologia norrena. – Che
destino infelice… solo che, ehm… ci sarebbe un
piccolo problema… io sono vegetariana…
- Il fianco
sinistro di Saehrimnir è fatto di tofu – rispose
prontamente Elizabeth, alzando appena un sopracciglio. – Il
suo corpo è fatto in modo tale da soddisfare i desideri di
qualsiasi commensale.
-
Ma… - mi morsi il labbro dubbiosa, gettando un occhio alle
persone che si erano accomodate al mio stesso tavolo. Erano tre in
tutto, due ragazzi e una ragazza, accompagnati da altrettante
valchirie.
- Ma, anche
se prendessi il tofu del suo lato sinistro… non starei
comunque mangiando un animale?
- La magia
del Valhalla si adatta a qualsiasi stile di vita. Non so spiegarti il
concetto in modo più chiaro, spero ti basti sapere questo:
mangiare Saehrimnir, nel tuo caso, non rappresenterebbe uno strappo
alla regola. Anche se viene dal fianco di una bestia sacra, quello
è tofu a tutti gli effetti.
Sospirai,
indicando poi un imponente scranno sul quale stavano appollaiati due
corvi dalle lucide piume color pece.
- Quelli
sono Huginn e Muninn, giusto? I corvi di Odino…
- Esatto. E
quello è il trono del Padre degli Dèi. Di tanto
in tanto viene a farci visita, ma non accade molto spesso…
Un secondo,
assordante, suono di corno diede inizio al banchetto: centinaia di
valchirie volavano qua e là, servendo gli ospiti con calici
di idromele e portate dall’aria invitante.
A me venne
presentato un piatto con polpettine di tofu, patate al burro, pane
morbido e verdure alla griglia.
Dopo un
attimo di esitazione cedetti: il profumo del cibo era troppo inebriante
per essere ignorato. E poi Elizabeth mi aveva assicurato che mangiare
quelle polpette non mi avrebbe fatta andare contro i miei principi.
Lanciai
un’occhiata di sottecchi alla valchiria dal capelli rossi che
mi sedeva a fianco: a differenza di molti commensali, rozzi e spartani,
aveva un atteggiamento composto e signorile, perfettamente intonato al
suo accento inglese.
A giudicare
dalla postura dritta e dal modo elegante di mangiare le fette di
tacchino adagiate sul suo piatto, intuii dovesse provenire da una
famiglia altolocata.
-
Senti… - azzardai, dopo qualche minuto di silenzio.
– Ben ha detto che molti einherjar sono semidei…
sei anche tu una di loro?
La sua
mascella si indurì: - Preferirei sorvolare su questo
discorso. Tu, piuttosto, hai idea di chi siano i tuoi veri genitori?
Scossi la
testa: - No. La persona che mi ha portata in orfanatrofio, che suppongo
fosse mia madre, si è presentata con un nome falso: Jane
Doe. Figuriamoci. Ha soltanto insistito sul fatto che il mio come
completo fosse Riley Barry, senza preoccuparsi del cognome.
Chissà come mai. Dici che potrei essere figlia di una
divinità nordica?
- Tutto
è possibile – replicò Elizabeth.
– Qualunque sia la risposta, la scoprirai stasera, dopo la
presentazione, quando la vala
leggerà il tuo futuro nelle rune.
Avvertii
all’improvviso una fitta allo stomaco: il pensiero di mia
madre, sola e preoccupata, fu affiancato da uno strano senso di ansia.
In quegli
anni, avevo provato a pensare, di tanto in tanto, a chi potessero
essere i miei veri genitori, senza mai sperare realmente di scoprire
qualcosa di concreto. Si era sempre trattato di una semplice e
irraggiungibile fantasia.
Quella
sera, invece, avrei potuto addirittura ottenere un nome. Un volto.
Un’identità.
Mi trovai
scissa tra curiosità e paura.
Quando i
capiclan cominciarono a battere i calici, presto imitati dagli einherjar
presenti, capii che la cena era finita e che entro pochi minuti avrei
dovuto esporre le mie gesta davanti a un’intera sala per poi
scoprire, forse, qualcosa in più su me stessa.
Mi morsi la
lingua, sperando di non vomitare il tofu per la tensione: avrei parlato
per terza, il che mi rassicurò appena, poiché
avrei avuto modo di osservare i primi due senza portare sulle spalle
l’onere di dover chiudere in bellezza.
La prima a
presentarsi fu la ragazza: dimostrava poco più di
vent’anni, aveva i capelli corti e il naso un po’
appuntito.
Si
presentò come Yara Hansdòttir, lavorava come
infermiera in un ospizio: una delle sue colleghe, corpulenta e
irascibile, aveva dato di matto e cominciato a picchiare un anziano
indifeso in sedia a rotelle, così lei era intervenuta,
colpendo in testa la donna con una stampella e tramortendola. Prima di
perdere i sensi, però, l’infermiera pazza le aveva
dato una spinta, facendola ruzzolare giù dalle scale.
Il
direttore dell’hotel, Helgi, dopo aver ascoltato la storia
annuì con fare soddisfatto: - Senza dubbio il tuo gesto
è stato nobile. Stringevi ancora la stampella in mano,
quando sei caduta?
Yara
annuì, serrando le mani a pugno per la tensione.
I capi
confabularono per qualche istante, poi, Helgi riprese con entusiasmo: -
Yara Hansdòttir, ti giudichiamo meritevole del Valhalla.
Conosci le tue origini?
-
Sì, i miei genitori si chiamano Hans e Yelena - rispose lei,
tradendo un fremito nella voce. – So per certo di essere la
loro figlia biologica.
Il
direttore sorrise appena: - Molto bene, vediamo cos’ha in
serbo il futuro per te. A meno che il Padre Universale non voglia
intercedere… - si voltò verso lo scranno di
Odino, che rimase vuoto. – Bene, chiediamo il responso delle
rune.
Una donna
anziana abbigliata con una lunga cappa verde, che intuii dovesse essere
la vala, si avvicinò al tavolo, ponendosi di fronte a Yara
Hansdòttir. Tirò fuori da un sacchetto una
manciata di tessere di pietra, facendole cadere sul pavimento dopo aver
recitato qualche arcana formula sottovoce.
Helgi
batté le mani: - Yara Hansdòttir, nonostante tu
non possegga sangue divino avrai modo di dimostrare il tuo valore nel
Ragnarok. Domani, alla tua prima battaglia, verrai arsa viva!
Scoppiò
uno scroscio di applausi e urla, mentre la giovane si mordeva il
labbro, gettando un’occhiata nervosa al ragazzo che le sedeva
accanto.
Quello
inspirò a fondo, alzandosi in piedi e presentandosi come Lee
Fukuhara. Aveva origini asiatiche ed era morto salvando il fratello
maggiore durante uno scontro a fuoco. Stava per aggiungere
qualcos’altro, quando, all’improvviso, si
levò un mormorio di sorpresa: dallo stagno ai piedi
dell’albero Laerdar emersero tre donne
incappucciate, alte più di due metri, che avanzarono
lentamente verso di noi.
Elizabeth
si lasciò sfuggire un fremito di tensione: - Le Norne sono
qui… e si sono presentate prima che il ragazzo finisse di
parlare… non è un buon segno…
Helgi si
schiarì la voce con fare innervosito: - Molto
bene… a quanto pare questo giovane eroe ha in serbo qualche
sorpresa speciale per noi…
Lee
sbiancò quando le tre donne pronunciarono il suo nome,
parlando all’unisono. Una di loro allungò la mano,
affondandola nella nebbia che avvolgeva i loro imponenti corpi, poi,
quando la ritrasse, notai che reggeva sul palmo un insieme di candide
rune. Le lanciò e, invece che ricadere ai suoi
piedi, le piccole pietre si fermarono a mezz’aria. Una di
esse si illuminò.
ᚲ
- La runa
Kenaz… - mormorò Elizabeth, mentre un brusio
concitato si levava per tutta la sala. – Loki…
- Loki?
– ripetei incredula.
La
valchiria che aveva portato il giovane nel Valhalla si portò
le mani ai capelli, scuotendo la testa con aria sconvolta e ripetendo:
- No… no… no… non è
possibile…
Lee
sembrò sul punto di svenire ma, prima che qualcuno avesse
tempo di commentare qualcosa, o lanciare un piatto in direzione dello
sventurato, le Norne ripresero a parlare, recitando una profezia.
“Il seme del
coraggio è tutt’ora disperso
Si traccerà una
rotta lungo lo specchio del cielo terso
Fiamme divine
fomenterà il sangue dell’immolato agnello
Su terra e mare
graverà il crudele fardello
La stirpe del male
compirà scelta ardita
Scelta che porterà
trista morte o nuova vita.”
***
Angolo
dell’Autrice: Ecco il secondo capitolo!
Spero non ci siano
incongruenze, non sono sicura sull’ordine dei piani
dell’hotel, in caso ci sia qualcosa di sbagliato fatemelo
pure notare. Spero anche che la runa di Loki sia giusta XD
Riley sta per
conoscere la verità, ma pare che ci siano parecchi misteri
da svelare: chi è il ragazzo che ha provocato tanto
scompiglio? Cosa significano i versi della profezia?
Cos’è successo a Mia De Medici? Perché
Alviss soffre di forti crisi?
Grazie per aver letto,
alla prossima!
Tinkerbell92
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