Salve a tutti/e! Ecco l’ultimo
capitolo dell’orrendo mappazzone.
Grazie
a tutti coloro che hanno avuto la pazienza di seguirmi in questo
delirio nonostante la sua lunghezza. Un ringraziamento in particolare
va a chi mi ha lasciato un parere, ovvero Saelde_und_Ehre, John
Spangler, mystery_koopa, Enchalott, alessandroago_94, evelyn80,
Yonoi, Syila, queenjane, _Polx_, molang e innominetuo.
Capitolo
5
La
stanza era piccola e quasi buia, vi regnava un odore di cuoio, ferro
e grasso rancido. Dal soffitto basso pendeva una piccola lanterna a
olio, che gettava tutt’intorno una luce fioca e tremolante.
Due
uomini sedevano uno di fronte all’altro a un vecchio tavolo
sbilenco, con il piano segnato da punte di lama e macchie di unto.
L’orologio
del campanile batté il dodicesimo colpo.
“Ci
siamo,” disse Renard Desprez, capitano della milizia reale a Metz.
L’uomo che sedeva di fronte a lui, il sergente anziano Antoine
Coutier, annuì lentamente, e in tono grave proclamò: “È l’ora.”
Il
capitano annuì a sua volta, poi si girò a fissare lo sguardo su uno
stipo chiuso a chiave. Fece l’atto di alzarsi per raggiungerlo, ma
all’ultimo desistette.
Di
nuovo i due uomini si scambiarono uno sguardo teso.
“Lo
stanno aprendo in tutto il regno, signore,” osservò poi il
sergente. Anche lui si girò verso lo stipo, come per suggerire al
suo superiore cosa fare.
“Lo
so,” rispose l’altro, che comunque ancora non si risolveva a
muoversi. “La mezzanotte fra il dodici e il tredici di ottobre, gli
ordini erano chiari.”
“Direi
ce ci siamo, signore.”
Il
capitano non rispose, e nella stanza calò un silenzio carico di
inquietudine. In lontananza si percepì flebile il richiamo di una
sentinella, da qualche parte un gatto gnaulò in tono spettrale.
“Gli
ordini sono ordini,” sospirò alla fine Desprez. Si alzò facendo
cigolare la sedia, quindi estrasse dalla camicia una chiave che
portava al collo e la infilò nella serratura del piccolo armadio.
Trasse
dal mobile un rotolo pesante e coperto di sigilli, e per un po’ si
limitò a fissarvi sopra lo sguardo, come se i suoi occhi avessero
avuto il potere di penetrare gli strati di pergamena e leggerne
direttamente il contenuto, prima che esso divenisse manifesto a
chiunque e fosse necessario ottemperare a ciò che ordinava. Infine
con un sospiro tornò al tavolo e si sedette. Estrasse dalla cintura
il pugnale e con la punta della lama fece leva sotto il primo dei
sigilli, che si spaccò con un crepitio da vecchio osso.
Gli
altri seguirono la stessa sorte, e il rotolo si aprì docile,
rivelando un testo fitto e disposto su due colonne.
Il
capitano vi fissò sopra lo sguardo, e dapprima sollevò le
sopracciglia stupefatto, quindi le aggrottò in una torva maschera di
disappunto. “Per la lancia di San Giorgio,” borbottò. La sua
espressione si fece se possibile ancora più cupa.
Il
sergente si piegò appena in avanti. A bassa voce chiese: “Che cosa
dice, signore?”
“Te
lo leggo,” fu la risposta, quindi il capitano si schiarì la voce e
cominciò a declamare: “Siamo venuti a sapere che i fratelli del
Tempio, camuffando il lupo da agnello, nascondendosi dietro l’abito
dell’Ordine, insultando miserabilmente la nostra religione,
crocifiggono di nuovo Nostro Signore Gesù Cristo, e lo coprono di
ingiurie più terribili di quelle che sopportò sulla croce. Quando
nuovi fratelli entrano nell’Ordine, viene presentata loro la sua
immagine: essi la rinnegano tre volte, e con orribile crudeltà le
sputano tre volte in faccia; poi vengono condotti nudi di fronte a
colui che li riceve o a un suo sostituto: egli, secondo l’odioso
rito dell’Ordine, li bacia prima sul fondo della spina dorsale, poi
sull’ombelico e infine sulla bocca, con profonda vergogna
dell’umana dignità. Essi sono costretti, per i voti che
pronunciano e senza timore di offendere la legge umana, a darsi l’un
l’altro per effetto del terribile vizio del concubinaggio. Questa
gente immonda ha abbandonato la fonte di acqua viva e l’ha
sostituita con la statua del vitello d’oro, immolando vittime agli
idoli. Vista la preventiva e diligente inchiesta fatta sulle dicerie
del popolo dal nostro caro fratello in Cristo Guillaume de Paris,
inquisitore degli eretici ed eletto dall’autorità apostolica, noi
abbiamo decretato che tutti i membri dell’Ordine nel nostro regno
siano arrestati, senza alcuna eccezione, fatti prigionieri e
destinati al tribunale ecclesiastico [1]”
Il
capitano smise di leggere e alzò gli occhi sul subalterno.
Questi
scosse stupefatto la testa. “Ma che cazzo...” cominciò, poi si
interruppe. “Scusate, signore,” borbottò.
L’altro
fece un gesto come per dire che non importava, ma non aggiunse altro.
Fu
il sergente Coutier che dopo un po’ disse: “Il problema, signore,
è uno solo: e se quelli non vogliono farsi arrestare?”
“C’è
un ordine del re,” fu l’asciutta risposta.
“Con
tutto il rispetto, capitano, secondo voi quanti dei nostri uomini
sarebbero necessari, per tenere testa a un Templare che non ha
intenzione di obbedire all’ordine del re?”
Michel
si bilanciò in spalla l’asta dell’alabarda, poi rabbrividì
nella luce sbiadita dell’alba. “Dannata stagione,” brontolò.
“Umida e fredda come un pesce morto.” Si voltò verso il
commilitone Bertrand, che con espressione turbata guardava gli altri
soldati uscire dalle camerate e allinearsi nel cortile, poi in tono
trionfante lo apostrofò: “Hai visto che avevo ragione?”
L’altro
si voltò verso di lui. “Su cosa?”
“Quelli
là sono da arrestare tutti. Te l’avevo detto, io, che erano dei
poco di buono.” E al silenzio del primo insisté: “Eretici e
sodomiti. Avevo ragione, vedi? E tu a ripetere come uno scemo: ma no,
mio cugino dice che sono bravi, che danno molte elemosine… Te lo
dico io che elemosine danno!” Fece un gesto osceno.
“Adesso
non ricominciare,” brontolò Bertrand.
“Io
dico solo quel che è vero. Se il re ha deciso di farli arrestare, ci
sarà un motivo, no?”
L’altro
grugnì qualcosa di inintelligibile.
“Non
sai cosa rispondere, eh?” lo provocò Michel. “Il re non è mica
stupido, l’ha capito benissimo che questi qua sono tanto marci
dentro quanto sono bianchi fuori.”
§
Sugli
spalti del castello di Metz, Fratello Friedrich girava avanti e
indietro come un animale in gabbia. Di tanto in tanto si fermava,
appoggiava le mani sulle merlature e si sporgeva come se avesse
voluto balzare giù, poi riprendeva il suo nervoso camminare.
A
distanza di sicurezza, le guardie lo fissavano mute.
Appoggiato
a un muro con le braccia conserte sul petto, fratello Adalbert
seguiva il suo irrequieto passeggiare con una sorta di rassegnata
indulgenza.
“La
vuoi piantare?” disse dopo un po’.
L’altro
si fermò sui due piedi, quindi gli rivolse uno sguardo cupo. “Hai
sentito cosa stanno facendo?” si limitò a ringhiare.
“Dipende.
Di cosa stai parlando?”
“Arrestano
i Templari.”
“Chi
li arresta?”
“La
milizia reale.”
Fratello
Adalbert sollevò stupito le sopracciglia. “E tu come fai a
saperlo?”
“L’ha
detto sorella Bertha [2] al rientro dal mercato. Ha detto che tutta
la città è bloccata per questo motivo, e che ci consigliano di non
uscire da qui, per non essere confusi con i cavalieri del Tempio.”
L’altro
scrollò le spalle. “Lo sai anche tu quanto parla sorella Bertha.”
“Ha
detto che all’alba sono entrati nella magione templare e hanno
portato via tutti,” replicò fratello Friedrich, poi tornò a
sporgersi dal bastione, e per un po’ rimase a scrutare la città
stringendo gli occhi come un astore.
“Fritz?”
lo richiamò dopo un po’ fratello Adalbert.
L’altro
si girò torvo. “Che c’è?”
Il
primo aprì la bocca per rispondere, ma in quel momento sbucò da una
strada laterale un carro coperto trainato da una pariglia di cavalli.
A cassetta c’erano due soldati della milizia reale.
Il
veicolo curvò per immettersi nella strada che costeggiava le mura, e
attraverso la grata che ne chiudeva la parte posteriore, i due videro
al suo interno dei mantelli bianchi con la croce scarlatta sulla
spalla.
Si
scambiarono un’occhiata perplessa.
“Donnerwetter,
non
è possibile,” disse alla fine fratello Adalbert. “Perché mai
dovrebbero fare una cosa del genere?”
“È
quello che voglio scoprire,” disse in tono duro fratello Friedrich.
Si girò come per andarsene.
L’altro
lo fermò afferrandolo per una spalla. “Aspetta. Cosa vuoi fare?”
“Vado
a parlare col priore, ovviamente. Lui saprà cosa sta succedendo.”
“Ne
saprà quanto noi, immagino.”
Fratello
Friedrich si liberò dalla presa con una brusca scrollata, poi
rispose: “Ma può informarsi, a lui spiegheranno perché stanno
arrestando i Templari.”
“Potrebbero
anche dirgli che non sono faccende che riguardano i tedeschi.”
“Oppure
noi potremmo essere i prossimi, e in ogni caso voglio capire perché
arrestano i cavalieri del Tempio. Voglio sapere cosa sta succedendo.”
“Fritz...”
“Vado
a parlare col priore,” fu la risposta. Un attimo dopo, il cavaliere
scomparve nella tromba delle scale.
Fratello
Adalbert alzò gli occhi al cielo.
Fratello
Luitpold, priore del castello di Metz, sollevò lo sguardo dalla
lettera che stava scrivendo. Sulla soglia del suo studio era comparso
fratello Otto, un ministeriale che aveva mansioni di segretario.
“Ebbene,
che c’è?” gli chiese.
L’altro
si inchinò. “Un cavaliere chiede di vedervi, signore.”
Il
priore aggrottò le sopracciglia. “Un cavaliere? E chi sarebbe?”
“Fratello
Friedrich, signore.”
All’udire
quel nome, fratello Luitpold alzò gli occhi al cielo con un sospiro.
“Cosa vuole ancora?”
“Non
lo so, signore. Sembra molto inquieto.”
Il
giorno che non sarà inquieto sarà morto,
pensò tra sé e sé il priore, che ben conosceva ormai le
intemperanze del subalterno, poi a voce alta disse: “Fa passare,
sentiamo cosa vuole questa volta.”
Trascorse
qualche minuto, poi Fratello Friedrich entrò a grandi passi e si
fermò a guatarlo come avrebbe fatto un toro prima di incornare un
rivale. “Priore,” ringhiò a denti stretti.
“Che
cosa c’è, fratello?” chiese l’altro in tono neutro.
“Stanno
arrestando i cavalieri del Tempio,” fu la secca risposta. “Voi
per caso sapete per quale motivo?”
La
notizia suonò talmente inaspettata che fratello Luitpold aggrottò
le sopracciglia e semplicemente replicò: “Cosa?”
Il
cavaliere emise uno sbuffo di impazienza. Si erse in tutta la sua
notevole altezza e lentamente scandì: “Stanno arrestando i
cavalieri del Tempio.”
“Voi
come fate a saperlo?”
“Li
ho visti. Vengono portati via dalla milizia del re.”
“Chissà
cosa avrete visto. E poi, comunque, non sono faccende che riguardano
il nostro Ordine.”
Gli
occhi di fratello Friedrich parvero mandare lampi. “Sono fratelli
cavalieri!” replicò brusco. “Voglio sapere cosa sta succedendo,
datemi il permesso di uscire.”
L’altro
lo fissò con durezza. “Assolutamente no.
Voi rimarrete qui e non farete nessuna delle azioni dissennate che di
certo avete in mente. Non voglio che replichiate l’incidente di
Ritterswerder.”
“Con
quell’incidente,
priore, ho salvato il castello,” ringhiò il cavaliere fissandolo
come se avesse voluto incenerirlo. Fratello Luitpold lo vide
stringere i pugni con tale forza che le nocche sbiancarono.
“Basta
così,” disse allora, raddrizzandosi con fare autorevole sulla
sedia. “Voi non andrete da nessuna parte. Obbedirete ai miei
ordini, tanto per cambiare, e ve ne starete qui. Se vi vedo anche
solo avvicinarvi al portone, giuro che questa volta vi faccio perdere
l’abito per sempre [3].”
“Sono
fratelli cavalieri,” ripeté il più giovane imperterrito.
“Dobbiamo aiutarli.”
Fratello
Luitpold emise un sospiro. “Prima dobbiamo capire cosa sta
succedendo,” replicò in tono esasperato, “dobbiamo capire se è
vero che il re li sta facendo arrestare, e perché, magari. Lo sapete
anche voi che girano voci strane sul Tempio.”
“Sono
false.”
L’altro
alzò gli occhi al cielo. “Mi informerò. In ogni caso, poiché la
carità e l’aiuto non si negano ai fratelli, se i cavalieri del
Tempio verranno qui, li accoglieremo.” fece una pausa, poi in tono
ammonitore aggiunse: “Ma vi proibisco formalmente di uscire dalle
mura del castello e prendere iniziative personali.”
Fratello
Friedrich si limitò ad annuire torvo, quindi rimase immobile al
centro della stanza.
“Che
cosa c’è ancora?” gli chiese il priore dopo un po’.
“Mi
concedete mandare un messaggio alla commenda di Vaux?”
“Prima
devo informarmi su ciò che sta accadendo. E ora andate.”
§
Fratello
Roland sussultò e aprì gli occhi. Fece girare lo sguardo
tutt’intorno: nel debole chiarore che precede l’alba, intravedeva
solo le vaghe sagome dei suoi confratelli addormentati. Si passò una
mano sul viso, e la ritrasse umida di sudore. Eppure non era caldo,
in camerata. Cominciava anzi la stagione in cui la coperta bastava
appena per non sentire freddo la notte.
Si
mise a sedere e di nuovo si guardò intorno. Gwenel dormiva
rannicchiato, con la coperta tirata fin sulla testa: probabilmente
non si era ancora abituato ai rigori della vita monastica. Fratello
Séverin, invece, disteso sulla schiena russava beatamente con la
coperta a mezzo corpo. Gli altri erano bozzoli bianchi che si
perdevano nella penombra.
Attento
a non fare rumore si alzò in piedi, recuperò l’involto dei
vestiti e uscì dalla stanza. Guardò fuori: era ancora presto per la
Prima [4], eppure avvertiva una strana inquietudine, un senso di
urgenza tormentosa.
Inspirò ed espirò lentamente cercando di fare il vuoto in testa:
era la stessa sensazione che lo prendeva prima delle battaglie.
Sentì un fruscio provenire dalla
camerata. “Gwenel?” chiese a bassa voce.
Non gli giunse risposta.
Si affacciò alla porta.
“Gwenel?” ripeté, ma il ragazzo dormiva immobile. Rimase per un
po’ fermo a guardare, ma non vide alcun movimento.
Tornò sui suoi passi, finì di
vestirsi e uscì all’aperto. L’aria del mattino era immobile,
umida. Non si udiva il minimo rumore, gli uccelli tacevano.
Si guardò intorno, la sensazione
che stesse per succedere qualcosa era più opprimente che mai.
Improvvisamente, dei colpi sul
portone lo fecero sussultare. Uno stormo di corvi si alzò in volo
gracchiando, i cani della commenda cominciarono a latrare.
“Aprite!”
urlò una voce dall’esterno. “Aprite, in nome del re!”
Istintivamente, fratello Roland
portò la mano al fianco, solo per rendersi conto che non si era
ancora affibbiato la spada.
Subito dopo, successero molte
cose: i colpi contro il portone si ripeterono, più imperiosi di
prima, e di nuovo qualcuno urlò: “In nome del re, vi ordino di
aprire!”
Il fratello portinaio uscì di
corsa da un edificio e si precipitò a tirare i catenacci, ma nello
stesso momento anche fratello Geoffroy uscì dal capitolo e urlò:
“Non farlo!”
Fratello Roland lo fissò: era
scarmigliato, sommariamente vestito e aveva il volto di un pallore
spettrale.
Attirati dalle urla, anche gli
altri fratelli cavalieri uscirono dal dormitorio, e così fecero i
fratelli di mestiere e i garzoni. “Che cosa sta succedendo?”
chiese qualcuno.
“Non
aprite!” ripeté fratello Geoffroy, poi raggiunse la porta, e a
voce alta chiese: “Chi è che vuole entrare?”
“Aprite,
in nome del re! Abbiamo un mandato di arresto!”
“Un
mandato di arresto? Per chi?”
“Tutti
i cavalieri del Tempio sono in arresto, per ordine del re, e la
commenda è sotto sequestro con tutto ciò che contiene. Consegnatevi
spontaneamente, oppure saremo costretti a entrare con la forza.”
“Cosa?
Ma...”
Un colpo violento fece
scricchiolare l’anta di legno.
“Aprite
o sfondiamo la porta!” urlò la voce dall’esterno.
Fratello Geoffroy arretrò, si
volse verso i fratelli cavalieri. “Alle stalle!” ordinò.
“Sellate e andatevene! Aprite il cancello che dà sui campi e
passate da lì.”
Gli altri si guardarono l’un
l’altro stupefatti, ma non si mossero.
“Andate!”
ripeté il commendatario, con la voce incrinata da una nota stridula
di paura.
Fratello Roland lo fissò ed ebbe
la sensazione che egli sapesse perfettamente cosa stava succedendo.
“Muoviamoci!” urlò ai frastornati confratelli, “Prendete le
armi! Possiamo difenderci!” Afferrò fratello Séverin per un
braccio e lo sospinse verso il dormitorio.
I cani continuavano a latrare,
qua e là si sentivano mormorii preoccupati. I servi e i fratelli di
mestiere si dileguavano alla ricerca di nascondigli.
In
quel momento, fratello Geoffroy lo raggiunse. “È il momento,”
ansimò con sguardo spiritato, stringendogli un braccio come se
avesse voluto conficcarvi le dita. Sul volto livido gli scendevano
grosse gocce di sudore.
“Che
cosa sta succedendo?” chiese fratello Roland.
“Vieni
con me!” disse l’altro per tutta risposta, quindi lo trascinò
all’interno del Capitolo. Raggiunse la porta che conduceva al
Tempio Nero, con mani tremanti estrasse la chiave che portava al
collo e fece scattare la serratura. “Il Codice Ombra deve essere
portato in salvo a tutti i costi,” gli disse. “Questo è il
motivo per cui sei stato chiamato qui, e il motivo per cui sei stato
introdotto ai primi segreti gnostici.”
“Ma
cosa sta succedendo?”
“Accuse
di eresia! Sapevamo che sarebbe successo.”
Fratello
Roland lo fissò stupefatto. “Eresia?”
“Sì,
tutto è partito da quella maledetta abitudine dell’inconvenientia.
Ma ora non c’è tempo di spiegarti,
devi salvare il libro.”
“Dove
lo devo portare?” gli chiese il più giovane. “E gli altri? Che
sarà di loro?”
“Il
sapere è più importante.”
“Più
importante dei fratelli cavalieri?” ribatté l’altro con una
punta di durezza nella voce.
Fratello
Geoffroy non rispose: stava già scendendo verso il Tempio Nero.
Quando
furono giù, scomparve nelle tenebre muovendosi con la sicurezza
dell’abitudine, quindi ricomparve con il libro ancora avvolto nel
panno bianco e glielo mise in braccio. “Portalo via,” gli ordinò.
“Portalo a Sainte-Ruffine, da fratello Urbain. Lui saprà cosa
farne.”
“Ma
gli altri?” Fratello Roland non si risolveva ad andarsene in quel
modo.
“Fa’
quello che ti dico!” gli ingiunse il commendatario. “Ogni minuto
di ritardo può essere quello fatale!”
Corsero
su. Nel frattempo i colpi al portone erano aumentati di intensità e
frequenza, e già intorno ai cardini cominciavano a cadere
calcinacci.
Fratello
Roland si guardò intorno: fratello Séverin e fratello Philippe
avevano indossato l’usbergo.
“Gli
altri?” chiese.
“Gwenel
è dentro,” rispose fratello Séverin indicando il dormitorio.
“Arretrate,”
ordinò fratello Roland, con il pesante libro stretto al petto, “ci
attesteremo vicino alle scuderie. Chiamate gli altri.”
Guardò
verso il dormitorio, e con sollievo vide affacciarsi Gwenel. “Porta
la mia spada!” gli urlò. Il ragazzo tornò dentro.
“Che
cosa sta succedendo?” gli chiese fratello Philippe.
“Niente
di buono,” rispose, “preparatevi a difendervi.” Si guardò
intorno. “Fratello Olivier?”
Come
in risposta alla sua domanda, in quel momento il confratello apparve,
armato di tutto punto, ma senza il mantello dell’Ordine, né la
croce vermiglia sul petto. Andò alla porta e afferrò il catenaccio.
“Ma
che fa?” trasecolò fratello Séverin.
Fratello
Olivier fece scattare il primo dei chiavistelli. Il fratello
portinaio si era già dileguato, ma il commendatario si fece avanti
per fermarlo.
In
un attimo, l’altro si sfilò il pugnale dalla cintura e glielo
conficcò nel petto fino all’elsa, lo rigirò e lo estrasse, quindi
spinse via l’uomo morente con indifferenza, e tirò i catenacci uno
dopo l’altro.
Le
due ante si spalancarono, e una moltitudine di sbirri armati fino ai
denti si riversò nel cortile.
Fratello
Roland fu il primo a riprendersi. “Indietro!” urlò, “Alle
scuderie!” Adocchiò Gwenel e gli disse: “Corri!”
Il
ragazzo lo raggiunse. “La tua spada.”
L’altro
se l’affibbiò in cintura. “Ora va’ con gli altri alle
scuderie, svelto! Sellate i cavalli.”
“E
tu?”
“Muoviti!”
I
soldati avanzarono. Fratello Roland impegnò in combattimento un paio
di essi, ma gli altri gli dilagarono intorno come un’onda di piena,
e dopo poco il Templare dovette arretrare per non venire accerchiato.
Si
unì ai compagni. “Non facciamoci circondare,” ordinò conciso.
Fissò
i soldati in avvicinamento. Armigeri di paese, perlopiù. Nessuno di
loro valeva il decimo di un cavaliere, ma anche un cinghiale alla
fine soccombe, in una muta di cani.
Appoggiò
il libro e lo coprì con un mucchio di paglia, poi si mise in
guardia. “Fratello Olivier è un traditore,” informò secco gli
altri, “fratello Geoffroy è morto. Non fateli avvicinare e
cerchiamo di andarcene da qui.”
Per
dirigersi dove, poi, era un problema che avrebbe affrontato dopo.
“Non fateli avvicinare,” ripeté. “L’alternativa è finire
nelle prigioni del re.”
“Ma
non abbiamo fatto niente,” si lamentò una voce smarrita alle sue
spalle.
“Meno
chiacchiere, e ammazza tutto quello che si avvicina,” ribatté
brusco fratello Roland.
Si
scatenarono numerosi scontri. Come sempre capitava durante la
battaglie, il Templare fece il vuoto in mente e lasciò che fossero
l’istinto e l’esperienza a guidarlo.
Vide
Gwenel abbattere un soldato con un fendente, e fratello Séverin
spingerne via un altro come se fosse stato uno straccio vecchio.
Fratello Philippe arretrò incalzato da un armigero, ma riuscì a
sottrarre bersaglio e a contrattaccare. Poi si udì uno schiocco, e i
Templari videro un dardo che finiva di vibrare conficcato nella
parete di legno.
“Hanno
le balestre!” esclamò fratello Séverin.
A
quelle parole fecero seguito un secondo e un terzo schiocco, poi si
udì un grido, e fratello Philippe rovinò al suolo. La spada gli
scivolò di mano e cadde con un sinistro clangore. Subito dopo anche
fratello Séverin, a sua volta colpito da un dardo, stramazzò con un
lamento.
Fratello
Roland a quel punto si lanciò in avanti a testa bassa. Abbandonate
tecnica e strategia, cercava solo di fare il vuoto intorno a sé,
nella speranza di costringere la milizia ad arretrare quel tanto che
avrebbe permesso a lui e Gwenel di montare a cavallo e abbandonare la
commenda.
Era
impegnato in un ennesimo assalto, quando una voce fredda lo
apostrofò: “Ora basta, per favore.”
L’assurdità
di quel richiamo costrinse fratello Roland a fermarsi.
Il
Templare si voltò ansante e si trovò davanti fratello Olivier che
stringeva contro di sé fratello Gwenel, e intanto gli puntava il
pugnale alla gola.
“Giù
la spada, per favore,” ordinò gelido.
Fratello
Roland rimase immobile.
“Giù
la spada,” ripeté allora l’altro. Premette leggermente la lama,
e lungo il collo del ragazzo scese adagio
una goccia di sangue.
L’arma
cadde a terra.
“Molto
bene,” apprezzò fratello Olivier. “Vedo che sai anche ragionare,
quando vuoi.” Poi, a voce più alta: “Guardie!”
Due
robusti soldati si avvicinarono a fratello Roland e lo presero per le
braccia. Questi alzò sul confratello uno sguardo di fuoco.
“Traditore,” ringhiò.
L’altro
assunse un’espressione di sufficienza, quindi rispose. “Al
contrario, direi. Mai si vide fedeltà più incrollabile della mia.”
Fratello
Roland si limitò a fissarlo cupo. L'altro spinse via Gwenel, che
venne subito afferrato da due guardie, poi disse: “Sono tre lunghi
anni che mi sorbisco tutte le idiozie del Tempio facendo finta di
essere uno di voi.”
“Che
significa?”
“Il
re ha infiltrato spie nell’Ordine, e ovviamente nessuno si è mai
accorto di nulla. Per tutto questo tempo, io e tanti altri abbiamo
raccolto informazioni e le abbiamo riferite a chi di dovere, ed ecco
che ora esse vengono messe a frutto.” Fece una pausa, poi con un
sorrisetto soggiunse: “Nascondere la Regola [5] non è servito a
gran che, non ti pare?”
L’altro
ignorò l’osservazione. “Quindi non sei un cavaliere?” si
limitò a chiedere.
Il
primo fece una risata sprezzante. “Non ho nulla a che fare con
idioti della vostra risma, capaci solo di masticare giaculatorie e
vendere polli. Sono il capitano Olivier D’Airelle della milizia
reale.”
Fratello
Roland incupì lo sguardo e tese i muscoli.
“Non
fare stupidaggini,” lo ammonì il capitano, “Ti ricordo che non
ci metto nulla a tagliare la gola al tuo amichetto.”
“Si
vede proprio che non sei uno di noi,” fu la sdegnosa replica,
“altrimenti sapresti che un cavaliere del Tempio non teme la
morte.”
Detto
questo, con uno strattone liberò un braccio dalla presa degli
armigeri, estrasse il pugnale di uno di essi e lo usò per colpire
quello che gli stava tenendo l’altro braccio. Vide che qualcuno
sollevava la balestra, quindi afferrò un’altra guardia e se ne
fece scudo, poi ne gettò il corpo contro il capitano, facendolo
cadere a terra. Subito dopo prese Gwenel per la tunica e lo tirò a
sé.
Corsero
alle scuderie, estrasse il libro dal mucchio di paglia, poi montarono
in sella ai due cavalli già sellati e si allontanarono al galoppo,
inseguiti dai rabbiosi sibili dei dardi.
§
Dal
folto di una macchia, fratello Roland scrutava Sainte-Ruffine. Era
ormai mattino inoltrato, ma non si vedeva alcun segno delle milizie
reali. La vita della commenda, anzi, sembrava procedere nel solito
modo.
“Torna
a casa tua, Gwenel,” disse senza distogliere lo sguardo dal gruppo
di edifici.
Il
ragazzo lo fissò stupefatto. “Cosa?”
“Jussy
non è lontano. Rientra a casa tua, riprendi la vita di prima. Non è
troppo tardi.”
Il
ragazzo spronò il cavallo fino ad affiancarsi a lui, quindi rispose:
“No, io voglio rimanere con te. Andremo insieme a Jussy, se vuoi.”
Il
maggiore scosse la testa. “Non lascerò il Tempio.”
“Allora
non lo lascerò neppure io.”
Fratello
Roland si voltò fino a fissarlo negli occhi. “Tu devi andartene,”
gli disse. “Non so cosa stia accadendo, perché ci mettano in
prigione, ma una cosa mi è ben chiara: non voglio che questo succeda
a te. Quindi vattene, per favore.”
“E
tu?”
“Devo
compiere un’ultima missione.”
Gwenel
chinò la testa. Si girò nella direzione in cui si trovava Jussy,
poi tornò a rivolgere lo sguardo verso di lui. “La compiremo
insieme,” disse. Gli rivolse un pallido sorriso.
“Gwenel...”
“Neppure
io voglio lasciare il Tempio.” Si morse il labbro inferiore, poi a
voce più bassa soggiunse: “E non voglio lasciare te. Compiremo
l'ultima missione, e se Dio riterrà di chiamarci a sé, moriremo
come cavalieri.”
Fratello
Roland non rispose. Come spiegare a quel ragazzo così pieno di
entusiasmo e coraggio che la morte era forse la migliore delle
prospettive che li attendevano? Sarebbe stato dolce, anzi, morire in
combattimento, con la croce di sangue sul petto.
Più
probabilmente, ciò che li attendeva era un'odiosa prigionia,
trascinati nel fango, accusati di ogni nefandezza, destinati a subire
gli interrogatori dell'Inquisizione.
Non
lo sfiorò neppure l'idea che l'Inquisizione avrebbe anche potuto
giudicare l'Ordine innocente. Primo, perché non accadeva quasi mai
che l'Inquisizione abbandonasse la preda che aveva ghermito. Secondo,
perché capiva che un'accusa di quel genere, proveniente addirittura
dal re, non aveva alcun bisogno di essere provata. Era la fine
dell'Ordine, e loro ci erano capitati in mezzo.
Fece
scivolare la mano alla bisaccia della sella e le sue dita
incontrarono la sagoma del libro che vi aveva riposto. Trasse un lungo
respiro, poi disse: “Andiamo, Gwenel.”
In
fondo era bello, nella tempesta che si stava preparando, guardare al
proprio fianco e incontrare lo sguardo limpido di un amico.
Sporchi,
esausti e insanguinati com'erano, quando entrarono nel cortile della
commenda fecero calare un costernato silenzio. I pochi fratelli di
mestiere che non erano nei campi rimasero a fissarli stupefatti, e
per parecchio tempo nessuno ebbe il coraggio di proferire parola.
Solo
un fratello cavaliere, che si affacciò a un certo punto da una
porta, si avvicinò e sconcertato chiese: “Che cosa vi è successo,
fratelli?”
Fratello
Roland si voltò a fissarlo: faccia pulita, abito candido,
l'espressione di chi non si capacita di ciò che sta vedendo.
Smontò
da cavallo. “Non sai niente, fratello?”
“A
che proposito?”
Roland
rinunciò a rispondere. “Devo parlare immediatamente con fratello
Urbain,” disse.
“Ora
sta lavorando, gli farò presente che... qual è il vostro nome,
fratello?”
“Fratello
Roland, mi conosce già.”
L'altro
annuì con un sorriso volenteroso. “Glielo farò presente
senz'altro,” gli assicurò. “E ora, se volete entrare per
ristorarvi un po'...”
Fratello
Roland lo afferrò bruscamente per un braccio, e strinse la presa
fino a strappargli uno stupefatto gemito di dolore. “Devo parlare
con fratello Urbain adesso,”
ripeté con minacciosa lentezza. “È cosa della massima
importanza.”
Di
fronte a quel cipiglio, l'altro non ebbe il coraggio di ribattere, e
si limitò a fargli strada. Seguito da Gwenel che portava l'involto
con il libro, fratello Roland fu condotto nella chiesa, e da lì a
una stanza della sacrestia dalle pareti coperte di librerie alte fino
al soffitto. Affogate tra le scaffalature, le snelle bifore quasi
scomparivano, e la luce proveniva perlopiù da alcune candele.
Al
centro della stanza si trovava un tavolo, al quale fratello Urbain
sedeva, curvo su un tomo dalle pagine coperte di scrittura e strane
immagini.
Al
loro arrivo, egli si alzò con inaspettata energia, aggirò il tavolo
e li raggiunse, scrutandoli attento. Il suo sguardo li percorse
rapido, infine si fissò sull'involto che il ragazzo teneva fra le
braccia. “Il libro?” chiese.
Fratello
Roland ebbe di nuovo l'impressione che il suo interlocutore fosse
perfettamente al corrente di ciò che era accaduto, tuttavia gli
domandò: “Sapete cosa sta succedendo, signore?”
“Qui
siamo al sicuro,” fu la risposta, proferita con uno strano tono
sbrigativo. “Siamo al sicuro, per ora.” Scrutò di nuovo
l'involto. “Il libro?” ripeté.
Fratello
Roland fece cenno al compagno di consegnarlo. Fratello Urbain glielo
strappò letteralmente di mano, quindi fissò torvo Gwenel. “Non
l'avrai guardato, spero,” ringhiò diffidente.
“No,
signore,” fu la candida risposta del ragazzo.
“Meglio
così,” brontolò sbrigativo l'altro. “E sia ringraziato Dio, che
ha guidato la scelta di fratello Geoffroy su un uomo ardimentoso e
fedele.” Passò le dita sull'involto, dando l'idea di riconoscere
attraverso la stoffa ogni chiodo e ogni piega della rilegatura,
quindi andò a riporlo in una cassapanca.
Fatto
questo, si rialzò a fissare i due Templari.
Fratello
Roland gli restituì lo sguardo, quindi chiese: “Che sarà di noi,
signore?”
“Di
noi, di noi...” borbottò l'altro, come in risposta a una domanda
molto sciocca e anche un po' impertinente. “Intendi di te e del tuo
confratello, oppure di tutti noi?”
“Entrambe
le cose, signore.”
“Fiat
voluntas Dei,” si
limitò a proferire fratello Urbain. “E ora lasciatemi,” aggiunse
poi in tono infastidito, “Fratello Louis vi aiuterà a sistemarvi.”
Fratello
Gwenel si mise sulle spalle il mantello – un mantello pulito e
intatto, che il guardarobiere di Sainte-Ruffine gli aveva consegnato
al posto del suo – e uscì dall'edificio del refettorio. La notte
era fredda, le stelle erano nascoste da uno strato di nubi. Vide
passare un paio di fratelli di mestiere che trasportavano un
calderone fumante, dalla fucina proveniva il battere ritmico e
musicale del martello.
Sospirò
e mosse qualche svogliato passo, mentre un'angosciante sensazione di
irrealtà lo pervadeva: com'era possibile che a poche miglia di
distanza li avessero quasi uccisi, e lì invece tutto fosse come al
solito?
Non
c'erano le milizie del re, a Sainte-Ruffine? Non era arrivato fin lì
l'ordine di arresto?
O
forse quello di Vaux era stato solo una specie di strano incubo?
Di
nuovo si voltò verso la direzione in cui si trovava Jussy: a qualche
ora di cavallo da lì c'era la sua vita precedente. Gli sarebbe
bastato davvero poco per farvi ritorno, e poi avrebbe potuto
dimenticarsi dell'Ordine come avrebbe fatto con una brutta avventura
fortunatamente finita bene.
Ripensò
all'abito, al senso di appartenenza. Fino ad allora, non si era mai
sentito veramente a casa da nessuna parte. Aveva sempre cercato
qualcos'altro, qualcosa che spesso non riusciva bene a definire
neppure lui, qualcosa di più.
Non
era certo di averlo trovato nell'Ordine, ma al contrario era certo
che ormai la sua vita precedente, quella del figlio minore di un
piccolo feudatario, non rivestiva più per lui alcun interesse.
Si
voltò verso l'edificio, e sorrise quando vide comparire sulla porta
la sagoma imponente di fratello Roland. Questi rimase un po' fermo
sulla soglia, con un atteggiamento che a Gwenel ricordò quello di un
lupo intento a fiutare l'aria, poi si avvide di lui e risoluto lo
raggiunse. “Come stai?” gli chiese quando furono vicini. Il
ragazzo vide che pur nella scarsa luce lo stava scrutando attento.
“Bene,
sono solo un po' stanco.”
“Hai
mangiato a sufficienza?”
“Sì,
non preoccuparti,” gli assicurò il ragazzo. Rimase per un po' in
silenzio, poi timidamente chiese: “Roland, posso farti una
domanda?”
L'altro
assentì. “Dimmi.”
“Perché
sta succedendo tutto questo?”
Fratello
Roland trasse un lungo sospiro, infine in tono grave rispose: “Lo
sa Dio.”
“Di
che cosa siamo accusati?”
L'altro
scrollò le spalle. “Di tutto e di niente.” Fece una lunga pausa,
poi soggiunse: “Non dobbiamo più esistere, questo è il punto.”
“Che
significa?”
“Dove
va un cacciatore, se non c'è più selvaggina? Dove va un cerusico,
se non ci sono più ammalati?”
Il
ragazzo alzò gli occhi su di lui: ormai il suo viso era solo una
vaga sagoma bianca nella quale tuttavia si coglieva il baluginare
dello sguardo. “Non ti capisco,” sussurrò.
La
risposta giunse carica di amarezza: “Dove va il guardiano, se non
c'è più nulla a cui fare la guardia?”
§
Fratello
Roland si rigirava inquieto sul pagliericcio. Lui e Gwenel erano in
una stanza al piano di sopra del dormitorio, di quelle dove
normalmente venivano alloggiati gli ospiti.
L'ambiente
era piccolo e sobriamente arredato, ma rispetto all'essenzialità
delle camerate appariva addirittura opulento. Il fatto che non ci
fosse la lucerna accesa [6] suscitava nel Templare una strana
inquietudine, come se il venire meno di quella consolidata usanza
rappresentasse il primo segno della rovina incombente.
Si
alzò adagio, attento a non far cigolare il letto, e poi uscì in
corridoio. Era completamente vestito, e aveva impedito anche a Gwenel
di spogliarsi: non si fidava di quella strana calma, e voleva essere
pronto a ogni evenienza.
Camminò
un po' su e giù, poi si sedette accanto a una finestra. Nel
frattempo la luna era uscita dalle nubi, e la sua luce fredda
delineava i contorni delle cose.
Lasciò
vagare lo sguardo sulla commenda addormentata e per un po' rimase
così, semplicemente assorto nei suoi pensieri, ad ascoltare un vago
lamento di gufo lontano.
Non
sapeva quanto tempo fosse passato quando notò dei movimenti nel
cortile: un uomo magro, molto alto e vestito di scuro attraversò lo
spiazzo con una strana andatura un po' curva e si diresse verso il
portone. Per un po' rimase in ascolto di qualcosa, poi si guardò
intorno, e infine protese una mano che nella luce fredda della luna
sembrava quella di uno scheletro, afferrò i catenacci e uno dopo
l'altro li fece scorrere nelle loro guide.
Fratello
Roland aggrottò le sopracciglia e rimase a osservare. Aveva fatto
fatica per via degli abiti borghesi, ma l'andatura gli era risultata
inconfondibile: si trattava di fratello Urbain.
Sotto
i suoi occhi stupiti, egli schiuse la porta quel tanto da consentire
il passaggio di una persona, e pochi istanti dopo, qualcuno si infilò
effettivamente dentro: era un uomo della milizia alto e snello, molto
probabilmente giovane, dal portamento elastico e marziale.
I
due parlarono rapidamente fra loro, poi il nuovo arrivato aprì
maggiormente il portone, e da esso sgusciarono dentro numerosi
soldati. Fratello Roland notò che avevano annerito con la fuliggine
le lame delle alabarde e gli elmi, per evitare che brillassero sotto
la luna.
Gli
uomini si mossero verso l’edificio che lui e Gwenel occupavano.
A
quella vista, egli tornò rapidamente in camera e scosse il ragazzo,
che sbatté gli occhi, poi mormorò: “Cosa succede?”
“Zitto
e seguimi,” rispose fratello Roland sottovoce.
“Ma
cosa...?”
“Andiamo.”
Si
mossero cauti, mantenendosi rasenti ai muri. Dal piano inferiore
cominciavano a provenire grida soffocate, tramestio e clangore di
armi.
“Cosa
succede?” ripeté il ragazzo allarmato.
“I
soldati del re.”
Gwenel
non replicò, e i due procedettero guidati dalla luce incerta che
filtrava dalle finestre. Trovarono infine una scala che portava verso
il basso.
Fratello
Roland fece segno di attendere e per un po' rimase in ascolto, poi
cominciò a scendere adagio, un gradino dopo l'altro, fermandosi su
ognuno ad ascoltare.
I
rumori che provenivano dal basso si facevano sempre più intensi e
inquietanti: ora si udivano grida di dolore e invocazioni, frammiste
al rumore di suppellettili infrante e di metallo che cozzava contro
altro metallo. Evidentemente, pur sorpreso nel sonno, qualche
fratello stava cercando di difendersi.
Fratello
Roland fece mente locale: non avrebbe avuto alcun senso scendere ad
aiutare i confratelli. Non aveva più una spada, tanto per
cominciare: la sua era rimasta sul selciato di Vaux quando il
capitano D'Airelle gliel'aveva fatta buttare. Non sapeva poi quanti
fossero laggiù, e in che ambiente si muovessero.
L'unica
cosa che verosimilmente avrebbe ottenuto, sarebbe stata spingere fra
le braccia della milizia se stesso e Gwenel.
Percepì
sulla nuca lo sguardo acuto del ragazzo. Si girò e nel buio colse il
brillio liquido dei suoi occhi azzurri. “Cosa facciamo?” mormorò
Gwenel.
“Dobbiamo
andarcene.”
“Ma...
i fratelli?”
Fratello
Roland scosse la testa. “Non possiamo fare più niente per loro.”
Da
sotto provenne il rumore di qualcosa di fragile che andava in
frantumi, e poi di legno spaccato. Una voce gridò 'per l'amor di
Dio', ma subito dopo si udì un tonfo ed essa si spense in un gemito.
Continuarono
a scendere, raggiungendo infine un vestibolo sul quale si aprivano
alcune porte. Da una di esse proveniva un tremulo chiarore, che
lambiva le pareti come una risacca.
Di
nuovo fratello Roland fece cenno al ragazzo di aspettare, poi avanzò
lentamente e tenendosi a ridosso dello stipite azzardò un'occhiata
al di là.
La
stanza era una camerata rettangolare, in quel momento ingombra di
soldati. I letti erano per la maggior parte rovesciati e privi delle
coperte, che erano sparse in giro. Uno era addirittura rotto, come se
ci fosse finito sopra qualcosa di molto pesante. Il contenuto dei
pagliericci squarciati fluttuava ovunque.
Sorpresi
con ogni evidenza nel sonno, i cavalieri, perlopiù con solo la
camicia e le brache addosso, avevano le mani legate dietro la schiena
ed erano addossati contro una parete. Uno di essi giaceva immobile,
con un rivolo di sangue che da una ferita alla testa dilagava
lentamente sul pavimento.
Vide
uno dei soldati avvicinarsi a un prigioniero che per età avrebbe
potuto forse essere suo padre, con una venerabile barba bianca,
spintonarlo e strappargli via la sottile cintura [7] che la Regola
imponeva durante la notte. “E questa cos'è, pezzo di merda?”
gridò poi, colpendolo in faccia con un manrovescio. “Che cos'è?
Te la intendi con Satana? Hai stretto un patto con lui?”
Il
Templare dovette faticare per impedirsi di correre in aiuto del
confratello: c'erano almeno venti guardie nella stanza, sarebbe stato
solo un inutile suicidio.
Si
fece avanti a quel punto l'uomo che aveva visto alla porta, quello
snello e dal portamento marziale. “Basta, Laurent,” ordinò in
tono vagamente annoiato, “non rubiamo il mestiere al tribunale
dell'Inquisizione.”
“Scusate,
signore.”
Fratello
Roland si sentì invadere dall'ira: avrebbe riconosciuto quella voce
sprezzante fra mille. Rimase tuttavia immobile a seguire le mosse di
quello che fino a poco prima aveva creduto un fratello e compagno
d'armi.
Il
capitano D'Airelle diede qualche conciso ordine, e i soldati
cominciarono a spingere fuori i Templari prigionieri. Fratello Roland
non poté fare a meno di pensare ai rigori della stagione, e a come
quei poveretti avrebbero potuto affrontarli con l'abbigliamento
sommario che indossavano.
Strinse
i denti e i pugni in modo spasmodico, costringendosi più che mai a
rimanere immobile.
La
stanza, nel frattempo, si era vuotata. Il capitano fece per andarsene
a sua volta, ma sopraggiunse fratello Urbain a fermarlo.
“Siamo
d'accordo allora?” chiese il nuovo arrivato.
“Potete
andarvene,” concesse l'altro.
Il
primo non si mosse.
“Ebbene?”
lo incalzò il capitano.
“Ecco...”
cominciò fratello Urbain, “L'accordo comprendeva anche altro... se
ben ricordate.” Gli scoccò un'occhiata dubbiosa.
D'Airelle
assunse l'espressione di chi si è appena ricordato di una
commissione un po' fastidiosa da portare a termine. “Ah, già.”
rispose, e non aggiunse altro, limitandosi a fissare l'interlocutore
con sguardo neutro.
“Il
libro,” gli ricordò dopo un po' fratello Urbain.
L'altro
annuì grave, quindi lo corresse: “I
libri.”
Di
nuovo tra i due calò un silenzio carico di tensione. “Io vi ho
aperto la porta, vi ho consegnato i miei confratelli risparmiando
sangue e fatica ai vostri soldati,” ringhiò fratello Urbain. Fissò
torvo il militare. “Gli accordi erano chiari: a me sarebbe rimasto
il libro.”
“Gli
accordi erano altrettanto chiari per me,” replicò D'Airelle.
“Potete tenere tutta la vostra biblioteca, oltre alla vita e alla
libertà personale naturalmente, ma il Codice Ombra va al tribunale
dell'Inquisizione.”
A
quelle parole, l'altro si erse costernato. “Ma il Codice è la
summa del nostro sapere,” replicò agitato, “È tutto quello che
abbiamo raccolto in decenni di studio.”
“Mettiamola
così,” fu la risposta, pronunciata quasi in tono di sarcastica
degnazione: “Conservando la vita, potrete acquisire nuovo sapere.
Senza la vita, godere del sapere accumulato vi sarà impossibile.”
A
quel punto, fratello Roland arretrò silenziosamente: aveva sentito
abbastanza. Se non poteva liberare i poveretti che aveva visto
spingere via come bestie, poteva almeno privare il tribunale
dell'Inquisizione di un'arma.
Raggiunse
Gwenel. “Cerchiamo un’uscita,” sussurrò.
“Cosa
sta succedendo di là?”
“Dobbiamo
portare via il libro,” disse fratello Roland per tutta risposta.
Il
ragazzo si limitò ad annuire.
L’altro
considerò che probabilmente i soldati stavano tornando tutti nel
cortile, e una volta svuotata dei suoi occupanti la camerata, non
avevano motivi per rimanere nell’edificio. Posò l’orecchio
contro una porta chiusa, rimase in ascolto per un po’ e poi provò
ad abbassare la maniglia, che cedette docilmente. Alla scarsa luce
del vestibolo videro che si trattava del refettorio, arredato con
lunghi tavoli già coperti delle tovaglie bianche per il pasto del
mattino. Più oltre, nella parete di fondo, intravidero un’altra
porta. “Quella darà sulle cucine,” disse il Templare, “e le
cucine comunicano sempre con l’esterno.”
Attraversarono
rapidi la sala.
Oltre
la porta c’era in effetti una cucina. La bocca del forno aperta e
un pasticcio crudo abbandonato su un tavolo fecero capire ai due che
i fratelli di mestiere si erano allontanati in tutta fretta.
Percepirono
un soffio d’aria fredda, e si accorsero che in effetti c’era una
porta socchiusa. “Laggiù,” disse fratello Roland.
Sbucarono
in un cortile ingombro di ceste vuote e cataste di legna da ardere,
nel quale nulla si mosse, a parte un gatto che al loro apparire fuggì
via. I due si guardarono intorno, e subito individuarono la mole
imponente della chiesa.
“Muoviamoci,”
disse il maggiore.
“Ma
non hai neanche una spada, e fuori è pieno di soldati.”
“E
i soldati hanno armi, giusto?”
“Sì,
ma...”
“Andiamo.”
Fratello
Roland scivolò silenzioso lungo il muro dell’edificio. Più
avanti, di spalle rispetto a lui, un soldato appoggiato all’alabarda
fissava distrattamente i suoi commilitoni che facevano salire i
prigionieri sui carri.
Il
Templare si avvicinò adagio. Recitò mentalmente una preghiera, per
la salvezza dei suoi poveri confratelli, principalmente, ma anche per
l’anima del soldato. Quando l’ebbe terminata, fece un cenno a
Gwenel, poi balzò in avanti, e prima che l’armigero riuscisse a
rendersi conto di quello che stava succedendo, gli aveva già rotto
l’osso del collo.
Mentre
accompagnava la caduta del corpo perché non facesse rumore, il
ragazzo afferrò l’alabarda.
Trascinarono
il cadavere in una zona buia.
“Ora
ho un’arma,” sussurrò fratello Roland, afferrando l'asta che
Gwenel reggeva ancora tra le mani. La soppesò provandone il
bilanciamento, eseguì un paio di affondi, poi disse: “Andiamo
alla chiesa. Dobbiamo portare via quel libro.”
“Come
faremo a entrare?”
In
quel momento, videro passare una figura vestita di nero, alta e
curva. Roland si appiattì contro la parete e spinse Gwenel a fare
altrettanto. “È quel traditore,” sussurrò con voce appena
udibile.
Fratello
Urbain si guardò fugacemente intorno, poi, constatato di essere
solo, estrasse dall'abito una chiave che teneva legata al collo. Andò
al portone della chiesa, la infilò nella toppa e fece scattare la
serratura, poi sgusciò dentro e accostò l'anta dietro di sé. Non
si udì alcun rumore di chiavistelli.
“Bene,
andiamo,” disse fratello Roland. Si mossero cauti ai margini del
sagrato, quindi salirono i tre scalini che conducevano al portone e
silenziosamente scivolarono dentro.
All'interno
l'aria era fredda, e aveva un vago odore di incenso e di fiori
appassiti. L'oscurità era completa, a parte un vago chiarore da un
lato dell'abside.
I
Templari vi si diressero, e videro che la luce proveniva da una porta
socchiusa, oltre la quale c'era un corridoio rischiarato da una
piccola candela. Si udiva un frenetico tramestio.
Avanzarono
cauti, badando a non fare alcun rumore. Fratello Roland, che
procedeva per primo, si trovò a un certo punto sulla soglia dello
studio tappezzato di libri nel quale il traditore li aveva ricevuti.
Questi era chino su una cassapanca e vi stava rovistando dentro.
Sul
tavolo erano ammucchiati alla rinfusa dei volumi, tutti dello stesso
colore e di dimensioni simili.
Il
Templare si fece avanti e beffardo chiese: “Vuoi tradire di nuovo,
cane?”
L'altro
sussultò e scattò in piedi con tale rapidità che perse
l'equilibrio e dovette appoggiarsi con una mano a uno degli scaffali.
“Non
contento di aver condannato a morte i tuoi fratelli per i tuoi
sporchi interessi, vuoi far credere al capitano che gli hai
consegnato il Codice Ombra mentre in realtà gli stai dando
tutt'altro?”
Fratello
Urbain lo fissò con occhi grifagni. “Che cosa vuoi?” lo
apostrofò. “Come osi entrare qui dentro senza il mio permesso?”
Per
tutta risposa, il Templare recitò: “Or
io vi dico: chiunque mi riconoscerà davanti agli uomini, anche il
Figlio dell'uomo lo riconoscerà davanti agli angeli di Dio. Ma chi
mi rinnegherà davanti agli uomini, sarà rinnegato davanti agli
angeli di Dio [8].”
Fratello
Urbain assottigliò lo sguardo e sibilò: “Ma guarda un po',
l'asino che vuol farsi dottore. Tu pensa a eseguire gli ordini, e non
chiederti perché ti vengono impartiti, tanto non capiresti.”
L'altro
fece un passo avanti. Si fece scivolare l'alabarda dalla spalla e la
impugnò. “Sei un lurido traditore,” gli disse per tutta
risposta. “Il male che hai fatto forse non si può riparare, ma
almeno eviterò che tu ne faccia ancora.”
“Ah,
davvero?” lo provocò fratello Urbain, nello sguardo una luce
sprezzante e gelida. “Hai la presunzione di avere gli strumenti per
combattere il male? Tu non sei nessuno, sei solo un piccolo uomo
aggrappato alle sue misere cognizioni da chierico di campagna. Anche
se quel povero ingenuo di fratello Geoffroy ha voluto cominciare a
istruirti, tu non sai ancora niente, i tuoi occhi sono ciechi, le tue
orecchie sorde. La tua mente è piccola, attaccata alle minuzie di
tutti i giorni.” Fece una pausa, in cui rimase a fissarlo vagamente
ansante, poi in tono più basso, addirittura amaro, riprese: “Che
cos'è la tua miserabile esistenza, o quella dei tuoi fratelli,
paragonata al sapere? Gli uomini si possono rifare, sono meri ammassi
di carne imperfetta, ma il sapere... il sapere è Dio! Il sapere è
perfezione dello spirito, è vita eterna, è...”
Non
fece in tempo a finire la frase. Fratello Roland spinse in avanti
l'alabarda e lo passò da parte a parte, quindi estrasse la lama e si
preparò a colpirlo di nuovo, ma in quel momento si udì il passo di
svariate persone in rapido avvicinamento.
“Roland!”
esclamò Gwenel.
L'altro
fece scorrere lo sguardo sui libri sparsi, ma non riconobbe fra essi
il Codice Ombra. Prima che avesse il tempo di cercare altrove, però,
irruppero nella stanza il capitano D'Airelle e alcuni soldati. “Ma
guarda chi si vede,” disse questi ironico. “Pensavamo di trovare
quel vecchio avvoltoio,
ed ecco che invece spunta fuori il buon Roland. Butta quel bastone,
prima di farti male.”
“Vieni
a prenderlo,” fu la risposta.
Il capitano fece una breve
risata. “Cosa vuoi fare con un'alabarda qui dentro?”
“Passarti
da parte a parte come ho fatto con lo schifoso che è sul pavimento.”
“Ma
ti devi avvicinare, prima, non ti pare? E intanto i miei uomini ti
hanno già abbattuto come un bue al macello.”
“Vediamo
chi sarà il bue al macello,” replicò brusco fratello Roland, poi
cercò lo sguardo di Gwenel e gridò: “Non nobis, domine!”
Il grido di guerra colpì Gwenel
come una sferzata: egli d'impulso strinse la spada che aveva in pugno
e si gettò sul più vicino dei nemici. Lo trapassò con una punta
alla gola, poi ritrasse la lama e colpì un altro con un fendente
rovescio.
Vide fratello Roland far girare
l’alabarda talmente in fretta che la lama emise un sordo sibilo,
poi si abbatté contro uno dei soldati tagliandolo praticamente in
due, e infine esaurì la sua forza contro uno scaffale, facendone
schizzare via grosse schegge.
Il Templare abbandonò
l’ingombrante asta, raccolse il pugnale di un caduto e incalzò un
altro dei soldati, che arretrando nel luogo angusto travolse quello
che si trovava dietro di lui. Egli in un attimo gli fu addosso, lo
trafisse al petto, estrasse la lama e squarciò la gola al secondo,
poi balzò da una parte per evitare l’assalto del capitano
D’Airelle, rotolò all’indietro, ma perse l’equilibrio, e
l’altro ne approfittò per farsi più vicino.
Gwenel vide la scena, e corse
verso i due. Si buttò in avanti con una punta, ma l’altro lo vide
arrivare, si girò fulmineo, prese ferro deviando il colpo, e subito
dopo rispose con un tondo rovescio. Il ragazzo tentò di sottrarsi,
ma non fu abbastanza veloce, e il morso della lama sulla spalla gli
strappò un gemito di dolore.
“Gwenel!”
urlò fratello Roland.
“Sto
bene,” gli assicurò il ragazzo. Tentò di incalzare l’avversario,
ma questi rispose tirando a sua volta una punta, che gli trafisse il
fianco.
“Ecco
cosa succede a combattere senza usbergo,” disse il capitano in tono
sarcastico. Avrebbe voluto aggiungere una risatina, che però
fratello Roland gli fece morire in gola con un violento assalto.
Sotto gli occhi
di Gwenel, che era scivolato alla base di una parete
col respiro mozzo dal dolore, il Templare riuscì a oltrepassare la
guardia di quello che era stato il suo confratello. L’altro,
consapevole del pericolo, tentò di arretrare, ma il primo lo afferrò
per una spalla. “Dove vai?” ringhio. Ora, sotto misura e con un
pugnale in mano, era lui ad essere in vantaggio.
Il capitano
abbandonò la spada ed estrasse a sua volta la daga.
La vista
annebbiata, Gwenel li vedeva girarsi intorno come animali
rabbiosi, colpendosi fulminei, e un attimo dopo allontanandosi per
sottrarsi ai colpi dell’altro. Li vide studiarsi in un teso
silenzio per lunghi istanti, e poi balzare l’uno contro l’altro.
Sentì entrambi
gemere più volte di dolore, e presto la tunica
bianca di fratello Roland fu rigata di sangue.
Il ragazzo
cercò di alzarsi per aiutarlo, ma era come se il suo
corpo non volesse obbedirgli, ed egli era costretto a fissare,
impotente, i due uomini che si scontravano all’ultimo sangue.
Alla fine
crollarono a terra ancora avvinghiati, rotolarono
ringhiando e gemendo di dolore, colpendosi come forsennati.
Poi lo scontro
si fermò. Il capitano della milizia emise un ultimo
lamento, poi si afflosciò come uno straccio vecchio e rimase supino,
con gli occhi vitrei fissi al soffitto.
Fratello
Roland, abbandonato prono su di lui, ansava pesantemente.
Gwenel si
sollevò in ginocchio alla meglio, lo raggiunse, lo rivoltò
sulla schiena e a fatica trattenne un grido d’orrore: il suo
confratello aveva un pugnale piantato nel petto fino all’elsa.
Subito lo afferrò per estrarlo, ma l’altro lo fermò. “Lascia...”
gli disse con voce incerta.
“Ma
Roland,” protestò il ragazzo, e già sentiva le lacrime pungergli
gli occhi, “Devo curarti, e poi dobbiamo andare via.” Deglutì.
“Devo tamponare la ferita.”
“È
troppo tardi,” mormorò l’altro. “Devi andare tu, io non potrei
seguirti. Prendi il libro che è nella cassapanca, e portalo al
sicuro, non deve cadere nelle mani degli inquisitori.”
“Ma
io...” Gwenel si rese conto di avere la voce rotta e le lacrime che
gli scorrevano lungo le guance. “Ma io non posso… senza di te.”
“Devi
andare. Sei un cavaliere del Tempio, e questo è l’ultimo ordine
che ti do.”
L’altro si
asciugò gli occhi con la manica, poi tentò di farlo
alzare. “Roland, per favore,” lo implorò.
Il maggiore
sollevò con fatica la mano e la pose sulla sua, poi
strinse debolmente la presa. “Va’,” mormorò, “porta al
sicuro il libro, mettilo dove nessuno possa trovarlo. Ho fiducia in
te.”
“Roland...”
ripeté il ragazzo, ma non gli giunse più alcuna risposta.
Si alzò
malfermo, stremato, attraversato da fitte di dolore
lancinante. Come in sogno andò alla cassapanca, e ne estrasse
l’involto bianco. Si girò un’ultima volta verso fratello Roland:
il cavaliere giaceva immobile, e già il pallore della morte si era
diffuso sul suo volto severo. La sua espressione indomita si era
fatta nella morte remota e carica di dignità.
“Addio,
Roland,” singhiozzò, poi corse fuori.
Si allontanò
nel buio, dolorante, sanguinante, accecato dalle
lacrime. Si tenne lontano dal bagliore delle fiaccole e nessuno lo
vide, forse perché Dio, consapevole del suo strazio, aveva steso una
mano pietosa su di lui. Fuggì verso la campagna brulla. Corse
malfermo fino a che le luci di Sainte-Ruffine non scomparvero, e a
quel punto, ormai sul fare dell’alba, si lasciò cadere nel letto
di un canale secco, dove si nascose tra le radici dei salici.
§
Fratello
Adalbert fissò perplesso fratello Friedrich. “Dove vai?”
gli chiese.
“A
Vaux,” rispose l’altro. Controllò il sottopancia del destriero
da guerra bardato di tutto punto, con tanto di gualdrappa.
Il primo lo
fissò poco convinto. “Il priore ti ha dato il
permesso?”
“Ha
detto che posso accertarmi di come stanno le cose.”
“Di
persona?”
Fratello
Friedrich alzò le spalle. “Non l’ha specificato.”
“Fritz,
sta attento,” lo ammonì fratello Adalbert. “È la volta che
fratello Luitpold ti manda davvero a badare i polli.”
L’altro si
voltò a fissarlo negli occhi e in tono grave rispose:
“Voglio andare a controllare, ho un brutto presentimento.”
“E
ci vai in armi?”
“Così
non c’è rischio che mi scambino per un Templare.” Montò in
sella.
Fratello
Adalbert prese il cavallo per le redini. “Fritz, senti...”
“Sì?”
“Aspettami,
vengo anch’io.”
§
Gwenel riaprì
gli occhi tremante di freddo e torturato da una sete
atroce. Il cielo era di nuovo coperto, per cui faceva fatica a
rendersi conto dell’orario. Provò a muoversi, e il suo corpo gli
rimandò fitte di dolore talmente intense che gli fecero correre dei
brividi sottopelle.
Abbassò gli
occhi sull’involto di tela bianca che stringeva ancora
fra le braccia, e le lacrime minacciarono di ricominciare a
scendergli lungo le guance.
Si rialzò
adagio, serrando i denti per trattenere i gemiti. La
manica destra dell’abito era dura di sangue secco, e così il
fianco sinistro. Con gesti esitanti prese un lembo del mantello e lo
strappò per confezionare bende di fortuna, che poi strinse sulle
ferite.
Fatto questo,
sporse cauto la testa dal letto del canale: la campagna
era deserta, gli alberi ormai spogli protendevano rami neri verso il
cielo. I lunghi solchi paralleli dei campi arati si perdevano in un
orizzonte nebbioso.
Dove portare il
libro?
Non aveva
soldi, era ferito, era esausto, indossava abiti che
potevano comportare il suo arresto immediato, che cosa poteva fare?
Si sedette di
nuovo. Scartò subito l’idea di raggiungere Jussy:
forse ce l’avrebbe fatta, in fondo non era lontano, ma non voleva
esporre la sua famiglia a inutili rischi. Tutti sapevano che il
figlio minore del barone de Jussy era entrato nell’Ordine del
Tempio, e quello era il primo posto dove le milizie del re sarebbero
andate a cercarlo, una volta accertato che non era fra i Templari
arrestati a Vaux.
“Le
milizie del re,” ripeté a mezza voce.
Il re di
Francia non aveva alcun potere sui tedeschi.
Guardò di nuovo
fuori dal canalone, e rimase a scrutare fino a che
non fu certo che non ci fosse nessuno. Dopo di che si inerpicò fuori
a fatica, e con il libro stretto al petto prese a camminare in
direzione di Metz.
Era quasi grato
alla stanchezza e al dolore fisico, perché essi lo
distoglievano al pensiero di fratello Roland.
Raggiunse
finalmente la strada per Metz. Aveva fatto larghi giri per
evitare masserie e villaggi, perché temeva che i contadini,
riconoscendo la sua croce scarlatta, l’avrebbero denunciato agli
sbirri. Aveva anche pensato di indossare la tunica alla rovescia, in
modo che il simbolo dell’Ordine non si vedesse, ma non era sicuro
di riuscire, ferito e dolorante com’era, a togliersela, rovesciarla
e indossarla di nuovo. Senza contare che andando in giro sporco,
insanguinato e con gli abiti a brandelli avrebbe in ogni caso
attirato l’attenzione.
Si nascose in
una macchia sul ciglio della strada e per un po’
rimase immobile in ascolto, poi, quando fu certo che non ci fosse
nessuno, riprese la marcia in direzione della città.
Guardò il
cielo: ormai doveva essere primo pomeriggio. Avrebbe
dovuto trovare un nascondiglio nei dintorni della città, per
entrarvi verso sera, protetto dalla luce fioca del crepuscolo.
In quel
momento, cominciò a sentire alle sue spalle un abbaiare di
grossi cani.
Si irrigidì in
ascolto, i muscoli già tesi e pronti alla fuga, e
dopo un po’ si sovrapposero ai latrati delle urla di incitamento.
“Hanno trovato la pista!” gridò qualcuno.
Cominciò a
correre con tutta la velocità che le sue gambe doloranti
gli consentivano.
L’abbaiare
aumentò.
“Eccolo
là!” sentì urlare alle sue spalle.
“Deve
avere un libro!” disse qualcun altro. “Non rovinate il libro!”
Gwenel continuò
a correre senza voltarsi indietro, ansante, con il
cuore che sembrava volergli balzare fuori dalla gola a ogni battito.
Qualcuno lo
afferrò per il mantello e lo fece cadere all’indietro,
il ragazzo rotolò via, si rialzò e riprese la fuga, solo per
vedersi correre incontro altri due armigeri. Tutt’intorno c’era
il latrare furioso dei mastini, che tiravano le catene bramosi di
avventarglisi addosso.
Riuscì a
riguadagnare la strada, ma un dolore lancinante alla
schiena gli strappò un grido di dolore. Crollò in avanti, si
sollevò sui gomiti in un ultimo tentativo di trascinarsi via, ma
ecco che a un tratto le grida di incitamento e trionfo dei suoi
aguzzini cessarono per lasciare il posto a un silenzio attonito, nel
quale si udì poi poderoso galoppo.
Incapace di
alzarsi, Gwenel sentiva vibrare il terreno come percosso
da qualcosa di molto pesante.
Alzò gli occhi
ormai annebbiati: contro il cielo si stagliava un
cavaliere in armi. Questi montava un destriero dalla gualdrappa
bianca, e portava un Grande Elmo ornato di ali bianche e nere.
Si sentì
invadere da una sensazione di sollievo. “Dio, ti
ringrazio,” mormorò, e poi perse la cognizione delle cose.
§
Vestito di una semplice tunica
lunga e di una sopraveste pesante, Gwenel sedeva nel piccolo cortile
sull’acqua. In piedi accanto a lui, Fratello Friedrich reggeva un
involto di tela un tempo bianca, incrostato di sangue secco e
sporcizia. “Era questo che volevate?” gli chiese.
Il ragazzo annuì. Era ancora
smagrito e pallido, ma ormai, dopo alcun settimane trascorse
nell’ospedale teutonico, stava cominciando a riprendersi. “Sono
felice che l’abbiate salvato.”
L’altro sorrise. “Non avrei
potuto fare altrimenti: anche nell’incoscienza continuavate a
stringerlo così forte che hanno faticato a togliervelo quando è
stato il momento di medicarvi.” Lo appoggiò sulla panca.
“Mi
dispiace,” rispose Gwenel. Fece scorrere le dita sull’involto
come se lo stesse accarezzando. Un velo di malinconia gli incupì i
lineamenti.
“L’importante
è che ora stiate meglio,” rispose il tedesco, mettendogli una mano
sulla spalla.
Il ragazzo si limitò a emettere
un sospiro.
“Lo
so,” assentì l’altro, stringendo appena la presa, “Perdere
fratello Roland è stato un duro colpo per tutti. Ma almeno è caduto
da eroe, prima che trascinassero nel fango l’Ordine che aveva
giurato di servire.”
Gwenel deglutì, faticando a
trattenere le lacrime come ogni volta che si parlava di lui, poi
disse: “Non credo che avrebbe voluto vedere quello che sta
succedendo adesso.”
Fratello Friedrich stava per
rispondere quando sopraggiunse fratello Adalbert.
I tre si scambiarono alcuni
convenevoli, poi il nuovo arrivato adocchiò l’involto di tela e
chiese: “Finalmente possiamo sapere cosa c’è dentro?”
Il più giovane abbassò lo
sguardo. “È un libro.”
“Un
libro?” fece eco l’altro, subito interessato.
“Sì,
un libro che fratello Roland mi ha ordinato di proteggere a costo
della vita.”
“Cosa
che peraltro stavate per fare,” rispose fratello Adalbert. Poi,
dopo una pausa: “Possiamo vederlo?”
Il ragazzo spostò
alternativamente lo sguardo dall’uno all’altro dei due Teutonici.
Doveva a loro se era vivo, in salute e al sicuro. Ricordava la stima
che entrambi avevano per fratello Roland, e quella che il suo mentore
aveva sempre nutrito nei loro confronti.
Sollevò l’involto e lo porse a
fratello Adalbert.
Questi lo prese e ne estrasse un
libro dalla semplice rilegatura di pelle marrone. “Non ha titolo,”
disse perplesso, rigirandoselo fra le mani. Lo appoggiò sulla panca,
e con fratello Friedrich che guardava da sopra la sua spalla, lo aprì
a caso e cominciò a sfogliarlo. Comparvero strane figure di corpi
umani con fiori dai molti petali lungo la spina dorsale, simboli
alchemici, testi scritti con alfabeti sconosciuti, l'Albero
Sefirotico, principi ermetici e gnostici.
“Che
cos’è?” chiese fratello Adalbert. Teneva la voce bassa, come se
non volesse farsi sentire.
“Fratello
Roland ha detto di nasconderlo e non farlo vedere mai più a
nessuno,” disse Gwenel per tutta risposta.
“Lo
credo bene,” intervenne fratello Friedrich. Sfogliò anche lui
qualche pagina del misterioso libro, e si fermò sull’immagine del
vessillo bianco e nero dell’Ordine. “Qui parla del Beauceant,”
disse rivolto a Gwenel, poi lesse: “Il dualismo espresso da questo
emblema rappresenta le due forze cosmiche opposte e complementari, la
lotta tra il Bene e il Male, il costante dinamismo dei due principi
fondamentali che muove e governa il mondo.” Richiuse il volume, lo
scrutò per un po’ con le sopracciglia aggrottate, infine disse:
“Lo metteremo nella biblioteca, lì sarà al sicuro. Nessuno può
cercare qualcosa di cui non conosce l’esistenza.”
“Vi
ringrazio, fratello Friedrich,” rispose Gwenel.
“Fratello
Roland è morto per difenderlo,” commentò l’altro, come per
sottolineare l’importanza del volume, ma il più giovane con
voce pacata rispose:
“Io credo che fratello Roland sia morto per difendere la sua idea
di Tempio, in realtà.”
Fratello Friedrich si voltò a
fissarlo. “Che intendete dire?”
“Avrebbe
potuto lasciare il libro a Sainte-Ruffine e far perdere le sue tracce
senza alcuna fatica, ma ha preferito sacrificare la vita per portarlo
in salvo a tutti i costi.” Fece una pausa, durante la quale si
passò una mano sugli occhi, poi proseguì: “Io credo che lui abbia
voluto dimostrare che nonostante il fango e le accuse infamanti, gli
ideali di eroismo e sacrificio del Tempio sono
rimasti
puri.”
Nessuno rispose, e sul gruppetto
calò un silenzio solenne.
Soffiò a quel punto un refolo di
vento freddo, che sibilò tra i rami ormai spogli dei salici. Ancora
debole per le ferite ricevute, il ragazzo rabbrividì.
Il Teutonico si tolse il mantello
e glielo pose sulle spalle. “Ecco, va meglio così?”
L’altro lo fissò stupefatto.
“Ma… fratello Friedrich...”
“Puoi
tenerlo. Sei uno di noi, ora.”
[1]
Testo originale dell’ordine di arresto dei Templari, probabilmente
redatto da Guillaume de Nogaret.
[2]
Nell’Ordine Teutonico c’erano anche delle sorelle, che avevano
principalmente il compito di assistere i malati negli ospedali.
[3]
Perdere l’abito (ovvero perdere il diritto di portare il mantello
bianco con la croce dell’Ordine) era una pena che veniva applicata
per gravi infrazioni della Regola, e di solito durava per un periodo
limitato di tempo, durante il quale il fratello decaduto subiva varie
umiliazioni, come ad esempio quella di mangiare per terra e non a
tavola con gli altri. Perdere l’abito per sempre significava essere
espulsi dall’Ordine (e trascorrere il resto della propria vita in
convento, o nei casi gravi imprigionato).
[4]
Preghiera che viene recitata verso le 06.00 del mattino.
[5]
Il testo che raccoglieva tutte le regole e le usanze del Tempio era
posseduto solo dal Gran Maestro e da alcuni alti dignitari, per
evitare che potesse essere letto da estranei. Tutte le norme di
comportamento all’interno delle commende e delle magioni erano
tramandate oralmente.
[6]
Nelle camerate dei Templari era d'uso tenere una lanterna accesa
tutta la notte.
[7]
Poco più di una cordicella che tutti i Templari portavano sotto i
vestiti. Aveva la funzione di impedire che durante la notte la
camicia si arrotolasse lasciando il torso scoperto. Nel corso dei
processi fu considerata un simbolo di idolatria e stregoneria.
[8]
Lc. 12:8-9
PICCOLO
ANGOLO DELL’AUTORE: lo so, non pago di avervi trifolato le gonadi
con questa storia praticamente infinita, ho anche la pretesa di
scrivervi un pensierino di chiusura. Non odiatemi, giuro che sarò
breve.
Questa
è la mia versione del “mito” dei Templari. Mito che nella realtà
non è mai esistito, ma è stato essenzialmente creato ad arte
dall’Inquisizione quando le circostanze storico-politiche hanno
reso necessaria l’eliminazione dell’Ordine.
I
riferimenti al Tempio Nero e al Codice Ombra prendono spunto da dati
storici, ma la forza mitopoietica dell’Ordine è tale che non
sapremo mai con quali e quante discipline misteriose i Templari
vennero in contatto, e cosa effettivamente acquisirono da esse.
Tutti
questi segreti – che forse segreti non sono mai stati – sono
perduti per sempre, e rimane a colmare i vuoti solo la fantasia degli
scrittori (o degli scribacchini, come nel mio caso).
Detto
ciò, io vi ringrazio di nuovo, perché sono i lettori che rendono le
storie vive, e voi avete fatto vivere la mia storia.
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