Era
un cavallo magnifico, dalla criniera e dal manto nero e lucido,
giovane e con zampe possenti e muscolose. I suoi occhi, neri come
tutto il resto, trasmettevano intelligenza e dolcezza a dispetto del
suo aspetto che pareva, a prima vista, furioso.
Elke
gli accarezzò il muso, lentamente, affinché
l'animale prendesse
confidenza con lei, pensando a quanto sarebbe stato magnifico
cavalcarlo nel viaggio che si apprestava a compiere. Aveva imparato a
cavalcare da bambina, in montagna, montando sui cavalli selvatici che
popolavano le vette e la passione per il galoppo non si era mai
sopita in lei, con lo scorrere degli anni.
Più
guardava quel cavallo e più era stupita, non
avrebbe mai creduto
che
suor Faustine le avrebbe donato un animale del genere.
Il
sole caldo della primavera le baciava la pelle e le infondeva un
senso di benessere profondo;
il cielo
era azzurro, terso, un leggero vento le scuoteva i capelli e il sole
dava una luce vitale a Bozen. Osservò le case, i vicoli, le
botteghe
che per più di tre anni erano state il suo mondo e
provò uno strano
senso di malinconia:
nonostante
tutto quel posto le sarebbe mancato, così come tante persone
lì
conosciute nel corso degli anni
come i senza
tetto della piazza, Helena ed Anna e le altre ragazze che avevano
condiviso con lei l'esperienza di lavorare al convento.
Helena
in quei mesi aveva imparato a leggere e scrivere e nonostante la sua
iniziale reticenza era riuscita ad imparare in fretta, dimostrandosi
una mente aperta e curiosa;
Suor Faustine
le aveva trovato lavoro come sarta in una bottega poco lontana dal
convento ed Helena, con la figlia, si era trasferita in un piccolo
appartamento di proprietà dei suoi datori di lavoro. Era
stata dura
salutarla la sera prima, dire addio a lei e alla piccola Anna,
rendendosi conto che da quel momento le loro vite, con tutta
probabilità, non si sarebbero più incrociate,
solo una certezza la
rasserenava: entrambe se la sarebbero cavata egregiamente. Si
guardò
l'abito che le aveva cucito Helena:
uno
splendido vestito della tradizione tirolese composto da una camicia
con maniche a sbuffo e uno smanicato blu legato in vita da un
nastrino rosso come quello che aveva fra i capelli, che legava la
piccola treccia che si era fatta di lato.
"Devi
essere carina per il tuo futuro marito, non puoi presentarti a lui
dopo cinque mesi vestita di stracci. Gli uomini si innamorano e si
disinnamorano in fretta, se noi donne non sappiamo tenerci come si
deve".
Montò
sul cavallo, decisa a mettersi in viaggio,
mancavano
solo due settimane al solstizio d'estate e se non
faceva in fretta sarebbe
arrivata tardi da Mattheus e non avrebbe potuto mantenere la sua
promessa. C'era molta strada da percorrere per arrivare a Pennes e
aveva ancora una tappa da fare prima di tornare dal suo futuro
marito. Accarezzò la criniera del cavallo, stringendo le
redini.
"Dovrò trovarti un nome" – commentò
divertita,
immaginando quanto avrebbe borbottato Mattheus per questa cosa.
"Parti
ora?".
Presa
alla sprovvista, si voltò verso la fonte della voce alla sue
spalle.
"Suor Faustine...". Strinse ancora di più le redini,
mentre lo stomaco le si contorceva. In quegli ultimi mesi il suo
rapporto con la suora era stato strano e inspiegabilmente stretto,
non le aveva più torto un capello e se questo, all'inizio,
era
dovuto al fatto che suor Faustine temeva Mattheus, poi le cose erano
cambiate. Aveva iniziato a guardarla più attentamente,
con la curiosità con cui a volte si osserva qualche creatura
strana
e sconosciuta da studiare, sospettosa e al contempo incuriosita. Per
i primi mesi aveva permesso a lei e ad Helena, come promesso, di
lavorare e passare tutto il tempo libero insieme ma poi, con sua
somma sorpresa, un giorno l'aveva chiamata nel suo studio,
mostrandole i libri contabili del convento.
"Sai
leggere, scrivere e fare di conto, giusto? Se non erano bugie,
suppongo che una mente giovane come la tua potrebbe aiutarmi a
gestire spese e contabilità del convento, fintanto che
rimarrai qui.
Credi di poterlo fare? Io ormai non sono più molto giovane,
i miei
occhi cominciano a darmi problemi e mi è spesso difficile
scrivere
al lume di candela".
A
quella proposta per un attimo aveva tremato, poi, spinta dalla
curiosità di tentare ed imparare qualcosa di nuovo, aveva
accettato
di provare a fare quanto le veniva richiesto. Da allora, per molte
ore al giorno, era stata insieme a suor Faustine ad annotare spese ed
entrate, a tentare di ottimizzare costi e benefici e a sistemare
archivi e scartoffie. Questo le aveva permesso di leggere i tomi
antichi che la suora teneva nella sua stanza, libri sulla Chiesa,
sulla storia di quel territorio, sulla geografia, di diritto e
qualsiasi altra cosa le capitasse per mano. Suor Faustine, in
silenzio, l'aveva lasciata fare, guardandola di sottecchi con
interesse. Le aveva chiesto di provare a trovare, fra le varie spese
ed entrate, un modo per poter pagare un maestro che potesse aprire
una scuola nel convento per i bambini che ospitavano e anche per le
ragazze come lei ed Helena che desideravano imparare. Questo l'aveva
sorpresa, vista la reticenza con cui inizialmente aveva scoperto che
lei sapeva già fare tutte queste cose,
ma l'aveva
accontentata con piacere giudicandola un'ottima idea ed era riuscita,
fra cifre e conti, a trovare il modo di aprire una piccola aula
all'interno del convento ed i fondi con cui pagare un insegnate e
quanto poteva servire per gli allievi.
Suor
Faustine nei mesi aveva mantenuto con lei un tono distaccato,
distante, mai nelle loro conversazioni aveva avuto l'impressione che
l'apprezzasse, eccetto per il fatto che le chiedeva spesso consiglio
sul da farsi, quasi che avesse imparato a fidarsi di lei.
Lei
annuì. "Sì, oggi è una buona giornata
per partire, il cielo è
limpido e la temperatura fantastica. Sarà un piacere
viaggiare con
questo meraviglioso cavallo. A proposito, grazie! Non ambivo certo a
un animale tanto maestoso".
La
suora scosse la testa. "Sei sprecata per passare la tua vita a
servire un uomo, saresti molto più utile qui. Pensaci bene,
Elke".
Spalancò
gli occhi, sorpresa. "Volete che resti?".
"Le
donne banali si sposano e tu non lo sei. Smetterai di studiare se vai
a Pennes e ti ritroverai, come tutte, a badare a una casa e a una
miriade di figli" – ammise.
A
quella frase, Elke rise. "Dubito che smetterò di studiare,
il
mio futuro marito non me lo permetterebbe. E per quanto riguarda
badare alla casa, lui è molto più bravo di me a
farlo, state
tranquilla. Non mi sposo con un uomo banale e con lui non
potrò far
altro che crescere e migliorarmi sempre di più. Mattheus non
è mai
stato un mio
limite, ma al
contrario, la mia più grande ricchezza. Lo amo e mi manca,
non ho
aspettato per mesi che questo giorno".
La
suora sospirò. "Se ne sei sicura...".
"Lo
sono" – rispose, con tono fermo. Era stranita dalle parole di
suor Faustine, non si aspettava quella conversazione ed era sempre
stata sicura che non vedesse l'ora che lei partisse. Ma... "Per
tanto avete creduto che fossi la figlia del diavolo... Avete cambiato
idea a riguardo?".
Suor
Faustine scosse la testa. "Non posso affermare che tu non lo
sia. Ma di certo posso dire che sei molto intelligente e che impari
in fretta. E che con le tue capacità, qui ci saresti stata
utile".
Quelle
parole le fecero piacere. "Questo non è il mio posto, io
appartengo alle montagne".
"Le
montagne sanno essere crudeli ed implacabili, feroci. Come puoi
appartenervi,
Elke?".
La
ragazza sospirò, accarezzando il manto liscio del cavallo.
"Sapete
suor Faustine, io non ho mai avuto dei genitori che si siano occupati
di me. La mia mamma e il mio papà sono stati le montagne.
Loro mi
hanno protetta, sostenuta, mi hanno fatto da guida e da maestro e io
sono quel che sono oggi anche grazie a loro. So che Bozen offre tante
possibilità ma ogni posto ne può dare, se lo si
sa conoscere e
capire bene. I monti sono posti magici, non potete nemmeno immaginare
quanto". Le venne da ridere ma si trattenne. Se suor Faustine
avesse saputo di elfi, fate e gnomi, probabilmente sarebbe svenuta
all'istante.
Accarezzò
la criniera del cavallo, stringendo poi le redini fra le mani. "Devo
andare ora, buona fortuna suor Faustine".
La
donna la fissò in viso, intensamente. Poi annuì,
allontanandosi da
lei. "Se hai deciso, non mi resta che salutarti e farti gli
auguri per il tuo imminente matrimonio".
"Grazie".
La guardò per un'ultima volta, assieme al convento e alle
strade
lastricate del centro che erano state il suo mondo. Poi diede un
colpetto leggero al cavallo e partì, senza voltarsi
più indietro.
Al
passo, percorse le vie del centro e poi via via quelle di periferia,
fino a trovarsi su una strada sterrata che portava alle valli
circostanti. E a quel punto, senza più nessuno in giro,
spronò il
cavallo a partire al galoppo. Sentì il vento sui capelli,
sul viso,
una sensazione di libertà che non provava da tanto. Era
così
diversa dalla ragazza che era stata al suo arrivo in quella
città,
era come se si fosse evoluta mille e più volte, giorno dopo
giorno,
scoprendo lati di se stessa che mai avrebbe pensato di possedere. Era
cambiata tanto da allora e si sentiva cambiata anche rispetto alla
notte di Natale in cui era stata con Mattheus, come se in quei mesi
fosse cresciuta talmente tanto da sentirsi finalmente e completamente
adulta e padrona di se stessa. Conosceva ogni lato di se, sia nei
pregi che nei difetti, conosceva il suo valore e sapeva cosa volere
dalla vita e non avrebbe più permesso a nessuno di
giudicarla senza
conoscerla.
Aveva
una voglia pazza di abbracciare Mattheus, ma sapeva anche che c'era
ancora un posto dove aveva tanti conti in sospeso: Tires. Era
scappata da lì una notte d'estate di quattro anni prima,
senza nulla
con sé se non un arco di legno e dei nastri colorati per i
capelli,
senza conoscere il mondo, senza la minima istruzione e con la
convinzione di essere sbagliata e non degna delle altre persone. Ora
sarebbe tornata laggiù, non per vendetta, ma per dimostrare
a coloro
che avrebbero dovuto amarla e proteggerla che ce l'aveva fatta a
sopravvivere e a crescere senza di loro,
o meglio, nonostante
loro.
Man
mano che si avvicinava al suo paese natale riconobbe i boschi, i
prati, le baite che aveva visto da bambina. Tutto sembrava
così
incredibilmente uguale, immutato, come se quegli anni di lontananza
non fossero mai esistiti.
Si
sentiva strana, una spiacevole ansia le attanagliava lo stomaco man
mano che
andava avanti e per
un attimo si sentì schiacciata dalla stessa paura sorda che
la
sorprendeva da bambina quando qualcuno le si avvicinava. Per un
attimo fu tentata di cedere alla voglia di andare dritto, di non
fermarsi, di convincersi che non era importante e che in fondo non
aveva nulla da dimostrare a nessuno, ma alla fine non fermò
la corsa
del cavallo finché non si trovò davanti ai campi
che circondavano
Tires. Erano le prime ore del pomeriggio, tutta la campagna era
deserta e probabilmente non avrebbe incrociato quasi nessuno fino
alla casa dei suoi genitori,
era ora di pranzo e di riposo.
Fece
per imboccare il sentiero che portava al villaggio quando la sua
attenzione fu catturata dalla figura di una giovane ragazza che, semi
nascosta dalla vegetazione dei campi, era intenta a legare delle
fascine di fieno. Sembrava poco avvezza a quel lavoro e nello
svolgerlo, probabilmente per la fretta di finire, si stava
incaponendo senza successo a racchiudere tutto il fieno in fascine
enormi che non riusciva a legare
invece che dividerlo
in parti più piccole e maneggevoli.
C'era
qualcosa di familiare in quella ragazzina, tanto che, vinta la sua
ritrosia, scese da cavallo e le si avvicinò. E quando fu a
pochi
passi da lei, capì perché avesse catturato la sua
attenzione.
"Inge".
Rimase
a bocca aperta, che ci faceva sua sorella lì? Il lavoro nei
campi
era sempre stato uno dei compiti di suo padre e mai aveva permesso a
sua madre e alle sue sorelle di aiutarlo. Inge era la più
piccola
della famiglia, aveva quattordici anni quando lei se n'era andata e
ora doveva averne circa diciotto. Aveva sempre avuto guance rosse e
piene, era la meno esile della famiglia, aveva un viso che ispirava
simpatia, puntellato da qualche lentiggine sul naso e i capelli
biondissimi e ondulati, che teneva sempre raccolti in due lunghe
trecce. Di carattere era docile e poco combattiva e spesso finiva per
accodarsi alle decisioni dell'altra loro sorella, Annelies, di tre
anni più grande, e di indole molto più dominante.
Inge,
vedendola arrivare, spalancò gli occhi, smettendo di
lavorare.
"Ma...
ma tu sei... Sei tornata?" - balbettò, a bocca aperta,
lasciando cadere a terra il fieno che teneva fra le mani.
Elke
sospirò, ma
del resto non
poteva aspettarsi che le gettasse le braccia al collo... "No,
non sono tornata, sono solo di passaggio, sta tranquilla".
Osservò
il montone di fieno accanto alla sorella, ammucchiato al bordo del
campo. Si avvicinò e ne prese un po’ fra le
braccia, legandolo coi
fili di fieno più lunghi.
"Se
ti incaponisci e prenderne troppo per finire prima, otterrai il
risultato contrario: ti spaccherai le braccia e non otterrai nulla.
Prendine
meno, fai delle fascine più piccole, sarà meno
faticoso e più
veloce". Finì di legare la fascina fra le sue mani,
agilmente,
poi la gettò a terra, accanto alla sorella.
"Visto?".
"Visto".
Inge deglutì, imbarazzata. "Perché sei
quì? Credevo fossi
morta".
"Ti
sarebbe piaciuto?".
Si
stupì di essere tanto diretta nei confronti della sorella,
soprattutto ricordando quanto, un tempo, temesse qualsiasi confronto
coi membri della sua famiglia.
Inge
alzò le spalle. "No... Non lo so, non ci ho mai pensato
troppo.
In fondo non ci parlavamo mai, non è che mi sei mancata...".
"Immagino...".
Elke si guardò attorno, accigliata. "Sei qui sola?
Dov'è
nostro padre?".
L'espressione
di Inge si incupì.
"Sono
qui sola, sono abbastanza grande per lavorare ormai. Mamma e Annelies
invece sono a casa, in questo momento. Se vuoi vederle, le trovi
lì".
Elke
si accigliò. Inge non aveva risposto alla sua domanda, non
del tutto
almeno. Si chiese dove fosse suo padre, ma supponeva che lo avrebbe
scoperto una volta arrivata a casa.
"Credo
che le raggiungerò. Buon lavoro, Inge".
La
ragazzina guardò, sconsolata, l'enorme montone di fieno
ancora da
legare.
"Già...
Buon lavoro a me". Poi la fissò per un attimo, pensierosa.
"Elke?".
Sussultò,
stupita. Inge non l'aveva mai chiamata per nome.
"Dimmi".
"Sei
sicura che non resti?".
"Vorresti
che lo facessi?". Era strano ma da sempre aveva avuto la
sensazione che, se le circostanze fossero state diverse, sarebbe
andata d'accordo con Inge.
La
ragazzina alzò le spalle. "A volte Annelies è
così
intrattabile. Tu mi sei sempre sembrata più gentile, anche
se papà
diceva che eri pericolosa e quindi avevo paura di te. Ma magari come
sorella non saresti male, mi hai anche insegnato come si lega il
fieno. Annelies non lo sa proprio fare!".
A
dispetto di tutto, Elke le sorrise. "Non resterò, ma mi fa
piacere esserti stata utile in qualcosa. Buona fortuna Inge".
Era
tardi per diventare sorelle pensò, salendo sul cavallo, ma
era stato
comunque piacevole quello scambio di battute fra di loro.
Si
allontanò al galoppo, percorrendo il sentiero principale. Il
sole
era molto caldo e non incrociò più nessuno
finché non giunse al
villaggio.
Tires
era piccola, ancora più di Pennes, composta da un gruppo di
povere
baite che, disordinatamente, si adagiavano sul versante della
montagna. La casa dei suoi genitori era in periferia, vicinissima a
quel bosco dove si rifugiava da bambina per nascondersi al mondo e
raggiungere le vette.
La
ricordava come una baita molto modesta, povera, costruita in legno e
pietre incastrati fra loro alla meglio, circondata da sterpaglie e
con piccolo pozzo sul retro, unica comodità della sua
famiglia.
Guardandola,
a distanza di quattro anni, la baita le sembrò ancora
più malmessa:
le imposte di legno erano cadenti e scrostate, l’erba che la
circondava incolta e piena di sterpaglie e in generale la casa pareva
in uno stato di completo abbandono. Questo la incuriosì
perché, per
quanto suo padre fosse stato un pessimo genitore per lei, era una
persona che si era sempre premurata di far vivere dignitosamente sua
madre
e le sue sorelle.
Sospirando
scese da cavallo avvicinandosi alla staccionata. Si guardò
attorno,
lanciando una veloce occhiata alla piccola stalla a lato della casa,
il suo unico rifugio dal freddo quando era bambina. Le sembravano
passati secoli da allora e si trovò a chiedersi come avesse
potuto
permettere a suo padre di trattarla a quel modo: come sarebbero state
diverse le cose se allora avesse posseduto la consapevolezza di
sé
stessa che aveva conquistato negli ultimi anni…
Improvvisamente
però quei pensieri furono interrotti da una figura che,
svelta, uscì
dall’uscio di casa con una montagna di lenzuola da stendere
fra le
mani.
La
riconobbe subito, com’era successo poco prima con Inge.
“Annelies”.
Eccola,
sua sorella, la secondogenita, più piccola di lei di tre
anni; la
figlia più bella, dai capelli biondi e lisci come seta,
dagli occhi
color del ghiaccio, dotata di un portamento nobile ed elegante. La
cocca del loro padre, il suo orgoglio. In quegli anni, notò,
sembrava essersi fatta ancora più bella e probabilmente
erano molti
i pretendenti alla sua mano, a Tires.
Appena
la vide, Annelies si bloccò, stringendo a se il bucato
bagnato che
teneva fra le mani.
“La
strega…” – mormorò, non
staccandole gli occhi di dosso.
Elke
le sorrise freddamente. Sarebbe stato divertente fingere di lanciarle
una maledizione, giusto per vederla ancora più terrorizzata,
come di
solito amava fare Mattheus con chi riteneva molesto. Sarebbe stato un
esperimento interessante, soprattutto in relazione del fatto che, in
passato, Annelies si era dimostrata crudele con lei quanto suo padre.
Decise tuttavia di tacere e di non abbassarsi al suo livello, ormai
erano entrambe adulte e il tempo dello scherno e degli scherzi era
finito.
“Ho
bisogno di parlare coi nostri genitori” – disse,
senza un saluto,
in tono fermo, senza stare a girarci troppo intorno.
Annelies
si voltò verso la porta di casa.
“Mamma,
corri! La strega, c’è la strega! E’
tornata!”.
Poi
si abbassò, raccogliendo da terra un sasso.
Elke
si incupì: sapeva cosa voleva fare, la conosceva fin troppo
bene
dato che quando erano piccole aveva subito
di tutto da lei senza trovare il coraggio di ribellarsi. Ora
però le
cose erano ben diverse.
“Provaci
anche solo col pensiero, a tirarmelo, e io farò altrettanto!
E ti
assicuro che ho un’ottima mira, sorellina!”.
“Mammaaaa”.
Stavolta
Annelies urlò e sua madre, affannosamente, comparve
sull’uscio di
casa.
Ad
Elke sembrò che le stomaco le si contorcesse quando la vide.
In un
certo senso era stato facile affrontare Inge ed Annelies ma sua madre
era colei
che, complice con suo padre, l’aveva costretta a vivere
un’infanzia
ai margini, senza amore e sicurezze, completamente sola e indifesa
davanti alle difficoltà della vita.
Ricordò
quanto, da bambina e anche subito dopo aver conosciuto Mattheus,
l’avesse giustificata e difesa dalle sue colpe e si
trovò irritata
verso sé stessa a quel pensiero. Non c’erano
giustificazioni, non
c’era alcun perdono da dare, se era sopravvissuta ed era
diventata
adulta lo doveva solo a se stessa, alla sua tenacia e alle poche
persone che aveva incontrato e le avevano voluto bene. E sua madre
non faceva parte di questo gruppo di persone!
La
guardò in silenzio, le sembrava invecchiata di colpo:
i suoi
capelli erano grigi e spettinati, gli abiti che indossava erano
logori e le sembrava piccola e fragile, come sul punto di spezzarsi.
In quel momento si accorse di qualcosa che era irrimediabilmente
cambiato in sé stessa rispetto al passato:
una volta, guardando i suoi genitori e le sue sorelle, tutti loro le
apparivano come giganti mentre lei si sentiva minuscola e irrilevante
al loro confronto. Ora invece era il contrario, lei si sentiva
grande, cresciuta e loro invece gli apparivano piccoli come formiche.
Sua
madre, impallidendo, le si avvicinò.
“Elke… Non è possibile,
non dopo tutto questo tempo…”.
“Cacciala
via!” – urlò Annelies, con gli occhi
fuori dalle
orbite.
Sua
madre si voltò verso di lei, lanciandole uno sguardo carico
di
rimprovero. “In casa Annelies, subito!”.
“Ma...”.
“Ti
ho detto di andare in casa”.
Annelies
stavolta ubbidì ed Elke dovette faticare per non ridere. Per
la
prima volta da quando era nata, era stato dato un ordine perentorio a
sua sorella invece che a lei. Non che la cosa ormai la riguardasse,
ma di certo la divertiva.
Quando
Annelies scomparve dietro l’uscio, sua madre le si
avvicinò. “Sei
proprio tu…” – mormorò,
stupita.
“Credevi
che fossi morta?”.
“No”.
La
donna scosse
la testa, non smettendo di osservarla. “Sei diventata grande,
stento a riconoscerti”.
“Stenti
a riconoscermi perché non mi conosci affatto, non
credi?”.
Sua
madre spalancò gli occhi davanti a quella risposta tanto
secca che
doveva apparirgli estremamente inusuale da parte sua.
“Dov’è
mio padre?”.
Sua
madre sospirò. “Manchi da così tanto
tempo, Elke, sono successe
tante cose”.
“Dov’è
mio padre?” – chiese, di nuovo. Non aveva voglia di
perdersi in
inutili conversazioni con lei.
“E’
morto alcuni mesi dopo che te ne sei andata”.
“Cosa?”.
Un brivido le percorse le braccia e la schiena. Suo padre…
morto?
Non riusciva a credere a quello che aveva appena sentito, anche se lo
stato di abbandono della casa e sua sorella costretta a lavorare nei
campi avrebbero dovuto suggerirglielo! Suo padre, dalle braccia
forti, instancabile, che comandava tutto e tutti con
arroganza… era
morto?
Non sapeva cosa provava, non in quei primi istanti. Dolore? No, in un
certo senso.
Frustrazione forse e poi rabbia. Sì, era arrabbiata, con sua
madre e
con suo padre perché era morto senza lasciarle la
possibilità di un
confronto fra loro. Poteva essere una reazione sbagliata, cattiva,
insensibile ed egoista,
ma era
quello che provava in quel momento.
Indietreggiò,
raggiungendo il suo cavallo e senza dire nulla montò in
sella. Partì
al galoppo, incurante della voce di sua madre che chiamava il
suo nome. Suo padre era morto, non contava altro ora! Non poteva
parlargli,
ma di certo c’era un posto dove essere, in un certo senso,
faccia a
faccia con lui.
Raggiunse
il piccolo cimitero di Tires, legò il cavallo ad una
staccionata e,
fuori di se, raccolse una manciata di fiori dal prato. Non voleva
essere un gesto gentile verso il padre, il suo, quella visita non
aveva nulla di amorevole e nemmeno quei fiori raccolti alla buona
erano un regalo per lui.
Entrò
nel cimitero e, tomba dopo tomba, lesse i nomi sulle croci di legno
finché non incontrò quella di suo padre.
Per
un attimo rimase ferma, zitta, senza provare nulla...
Rolf
Windegger
Rilesse
quel nome più volte, quasi a convincersi che fosse vero.
Windegger...
In teoria era anche il suo cognome, ma non lo aveva mai usato, non
l’aveva mai rivelato
nemmeno a Mattheus; non lo sentiva suo, come non sentiva sua la
famiglia che l'aveva messa al mondo. Era sempre stata solo Elke,
senza nessun riferimento al cognome paterno perché, da
bambina,
sapeva che suo padre si sarebbe infuriato se avesse saputo che si
presentava anche col suo cognome.
E, una volta cresciuta, una volta divenuta adulta, perché
non le
importava più.
Si
inginocchiò, stringendo a se il mazzo di fiori che aveva
raccolto
poco prima. Poi li gettò lontano dalla tomba, in un gesto
stizzito.
"Sai
papà" – disse, parlando al vento – "li
avevo raccolti
per te, per farti dispetto. Perché so che ti infurieresti e
mi
puniresti, se ne avessi ancora l'opportunità, per il fatto
di essere
qui davanti alla
tua tomba con dei fiori per te, in mano. Ma alla fine, a cosa
servirebbe farti un dispetto, adesso? Non mi hai mai voluta, non mi
hai mai amata e suppongo di dovermene fare una ragione. Mi sarebbe
solo piaciuto, per una volta, parlarti, anche semplicemente per
sentirti urlare e per litigare perché avrebbe significato,
per me,
essere visibile ai tuoi occhi. E invece sei morto e io non provo
niente... E so che, se anche fossi vivo, non proverei niente
comunque. Avevo solo bisogno di vedere la tua tomba per capirlo, non
sei mai stato niente e non sarai mai niente per me. Non volevi che
usassi il tuo cognome, ti vergognavi di me, ma sai, io il tuo cognome
non lo voglio, ora sono io che mi vergogno di te, per il piccolo uomo
insignificante che sei stato. E' finito il tempo in cui mi sentivo in
colpa per il fatto di esistere e di non essere come tu volevi che
fossi e spero che, ovunque tu sia, ora sia arrivato il tuo turno e
che tu abbia l'eternità per capire i tuoi mille errori".
Un'ombra,
improvvisamente comparve dietro di lei. Elke si voltò di
scatto,
spaventata, trovandosi dietro sua madre che, evidentemente, l'aveva
seguita.
"Sapevo
di trovarti
qui Elke.
Come hai fatto a trovare la sua tomba?".
Alzò
le spalle, con noncuranza, vagamente irritata dalla sua presenza.
"Semplice, ho letto i nomi incisi sulle croci".
Sua
madre spalancò gli occhi, sicuramente stupita per quanto
aveva
appena udito. Non aveva più davanti una bambina selvatica ed
ignorante, cresciuta da sola nei boschi di montagna, ma una donna
indipendente che sapeva leggere. Nonostante fosse sorpresa, la donna
non commentò, limitandosi a lanciare un'occhiata alla tomba
del
marito. "Perché sei voluta venire qui?".
Elke
scosse la testa.
"Non
lo so, forse avevo bisogno di vederlo coi miei occhi. Mio padre mi ha
sempre voltato le spalle e per molto tempo ho pregato, sperato che un
giorno mi volesse bene. Ho smesso di desiderarlo da tanto, non credo
più alle favole in cui i cattivi si redimono ma... volevo
almeno un
confronto con lui, che vedesse che esistevo e che ero una persona
degna di rispetto come le altre sue figlie. Mi ha fregata di nuovo e
ha chiuso a suo modo la partita fra di noi, togliendomi ogni speranza
che un giorno cambiasse idea, anche solo un poco, nei miei
confronti".
La
donna sospirò. "Lo sai bene che non l'avrebbe mai fatto".
Elke
annuì, tirandosi su. "Sì, sicuramente
è così, ma ora non ha
più importanza e non ho motivo di fermarmi oltre".
"Te
ne vai? E dove? Sei appena tornata dopo quattro anni di assenza".
La
ragazza sorrise. "Torno a casa, la mia vera casa".
"Non
è questa la tua casa?".
Elke
la guardò storto. Stava
per caso scherzando?
O si stava prendendo gioco di lei? "Questa
non è mai stata la mia casa, avete fatto in modo che non lo
fosse
mai. E questa è la conversazione più lunga che io
e te abbiamo mai
avuto dalla mia nascita, se non te ne fossi accorta. Come potrebbe
essere casa mia, questa? Come puoi pretendere che resti, dopo che per
tutta la vita non hai desiderato altro che me ne andassi? Come puoi
essere tanto ipocrita da parlarmi come se nulla fosse? Siamo onesti,
se ci fosse qui
mio
padre, tu tremeresti come una foglia e da brava mogliettina
obbediente quale sei sempre stata, seguiresti il suo volere e non mi
rivolgeresti la parola".
Sua
madre strinse fra le mani il grembiule che aveva legato in vita. "Elke,
non avevo scelta, come potevo fare, come potevo oppormi
al volere di tuo padre? Devi cercare di capire che...".
"C'è
sempre un'altra scelta, mamma. E mi dispiace, ma per una volta vorrei
che fossi tu a capire me!".
Sospirando
si appoggiò al tronco di una pianta, osservandola. Quella
era sua
madre, la donna che l'aveva messa al mondo. E le era totalmente
estranea... "Ti è sempre andata bene così, che me
ne stessi
lontana. Non ti è mai importato di me, non mi hai mai
difesa, non ti
sei mai preoccupata. Sono sicura che eri felice quando me ne sono
andata, quasi quattro anni fa".
La
donna abbassò lo sguardo. Sembrava trattenere le lacrime a
fatica.
"Ero preoccupata, terrorizzata dall'idea che ti fosse successo
qualcosa. Ma poi ho capito... Tu pensi che non ti abbia mai guardata,
che non ti abbia mai osservata. Ma sei mia figlia Elke e ti conosco
meglio di chiunque altro. Ho sempre saputo quanto sei in gamba, forte
ed intelligente. Fra le mie figlie, sei sempre stata la più
sveglia,
te la sei sempre cavata in tutto, da sola. Sei migliore di me, di tuo
padre e delle tue sorelle. Sapevo che stavi bene, sapevo che te n'eri
andata perché avevi scelto la tua strada. Che non so dove ti
porterà
ma so che, ovunque sia, sarà stata la scelta giusta".
Elke
sorrise. Una volta avrebbe fatto salti di gioia nel sentire quelle
parole,
ma ora era diverso:
Tires, la sua famiglia, il suo passato e i tristi ricordi che si
portava dietro le apparivano ormai lontani, quasi appartenessero a
un'altra persona. Eppure
si sentiva in dovere di dirle qualcosa che acquietasse l'anima di
entrambe e le permettesse di fare un po’ pace col suo
passato,
chiudendo i conti che aveva lasciato in sospeso.
"In
questi anni ho viaggiato, conosciuto posti e persone
che mai avrei potuto incontrare
rimanendo qui, sono cresciuta e ho imparato un sacco di cose nuove.
Sto andando in Val Sarentino
ora, sto tornando dall'uomo che amo. Una persona assolutamente fuori
dagli schemi, strana, scostante a volte e con un carattere
particolarmente
difficile da gestire, per chi non lo conosce. Ma lui... è
l'unico
che sappia farmi sentire a casa, amata, semplicemente abbracciandomi.
Conosce ogni cosa
di me, della mia anima e del mio corpo. A lui non è mai
importato
nulla dei miei capelli, mi ha semplicemente dato una
possibilità, mi
ha ascoltata, capita, conosciuta ed è diventato l'unica
famiglia che
abbia mai avuto. Sai, non è vero che non avete mai fatto
nulla per
me, ora che ci penso... Mi avete ignorata, esclusa e questo mi ha
permesso di andarmene e di conoscerlo. Di questo, suppongo, devo
esservi grata".
Lo
sguardo di sua madre parve ferito a quelle parole, ma
incassò il
colpo con dignità. "Spero sia davvero una brava persona come
dici tu, Elke".
"Lo
è. E fra pochi giorni lo sposerò".
La
vide spalancare gli occhi dalla sorpresa, come se si rendesse conto
solo in quel momento di quanto fosse cresciuta, di quanto fosse
lontana dalla bambina solitaria ed indifesa che era stata e che lei
ricordava. La donna fece per avvicinarsi, forse per abbracciarla, ma
lei si ritrasse. "No...".
"Ti
prego" – la implorò la donna.
Elke
scosse la testa. "Mi dispiace, ma adesso no, è troppo tardi.
Erano altri i momenti in cui avevo bisogno di un tuo abbraccio, mi
spiace mamma. Non me la sento".
Sua
madre la guardò, sembrava ferita. Ma con dignità
annuì, capendo
forse i suoi sentimenti. "Hai ragione, scusa".
Elke
strinse i pugni delle mani, indecisa. In un certo senso le spiaceva
ferirla, ma non poteva fare altrimenti. "Guarda il lato positivo
della cosa, se ci riesci... Stiamo parlando da cinque minuti, per la
prima volta da quando sono nata. E' già un successo, no?".
La
donna sorrise, amaramente. "Una conversazione fra madre e
figlia?".
"No,
una conversazione fra due donne che a malapena si conoscono. Ma pur
sempre una conversazione...". Elke abbassò lo sguardo, non
sapendo che altro dire. Si avvicinò al suo cavallo, montando
in
sella. "Devo andare ora. Credo che sia l'ultima volta che ci
vediamo, noi due. Ti auguro di star bene. Come vedi, io so cavarmela
benissimo da sola, non pensare più a me e concentrati
unicamente
sulle mie sorelle. Buona fortuna".
Con
un colpetto di redini fece muovere il cavallo, ma la voce di sua
madre, alle sue spalle, la frenò per alcuni istanti.
"Buona
fortuna Elke. Sono sicura che saprai essere una donna e una madre
migliore di me. Ti auguro di essere felice".
La
ragazza si morse il labbro, facendo violenza su se stessa per non
voltarsi verso di lei e non scoppiare a piangere. In fondo,
nonostante tutto, era difficile. Annuì, poi diede di redini
e partì
al galoppo.
Cavalcò
senza mai fermarsi, finché il cavallo non fu esausto. La
parte più
difficile se l'era lasciata alle spalle:
Suor
Faustine, la sua famiglia, Tires, aveva chiuso ogni conto in sospeso
col passato e le sue paure.
Nei
giorni seguenti viaggiò attraverso valichi e passi di
montagna,
lasciando il sentiero principale. Aveva voglia di tornare a respirare
la sensazione di libertà che solo le vette di alta montagna
sapevano
regalare, godere del silenzio assoluto delle vallate baciate dal sole
estivo, riappropriarsi di quei luoghi che erano suoi e che le erano
mancati quanto Mattheus negli anni di permanenza a Bozen.
La
notte dormiva in giacigli di fortuna, come faceva da bambina, di
giorno cavalcava senza sosta per raggiungere Pennes, fermandosi
solamente per mangiare e far prendere fiato al cavallo.
Aveva
solo un'altra tappa da fare, prima di tornare da Mattheus.
Quando
raggiunse il lago di Valdurna, per un attimo le mancò il
fiato. Era
stata tante volte in quel posto ma ora
le appariva
diverso, ne capiva appieno la storia e quanto valore avesse per
Mattheus. Quel posto e i suoi misteri avevano fatto di lui l'uomo che
era ora, l'uomo di cui era innamorata e che stava per prendere come
marito. Sulla riva di quel lago si era consumato un amore, si erano
combattute battaglie, si era vissuto e qualcuno si era accomiatato
dal mondo in modo eroico, difendendo un ragazzino e un amore.
Quell'acqua era la testimonianza di una promessa, di affetto, di un
rapporto che nemmeno la morte era riuscita a spezzare.
Si
chiese cosa provasse Mattheus ogni volta che rimetteva piede in quel
posto e come avesse fatto per tutto quel tempo, davanti a lei e ai
gemelli, a fingere indifferenza e tranquillità per custodire
il suo
segreto.
Fece
bere il cavallo, ormai esausto, accarezzandone la criniera, e la
bestia reagì strofinando il muso contro il suo petto. Ormai
avevano
stabilito un rapporto di fiducia e amicizia loro due, lei conosceva
lui e lui si era adattato perfettamente a lei.
"Che
bel cavallo, come si chiama?".
Elke
sussultò a quella domanda che, d'improvviso, ruppe il
silenzio che
la avvolgeva.
Si
voltò, trovandosi davanti una ragazza dai lunghi capelli
biondi, di
una bellezza talmente unica da non sembrare umana. Per un attimo
rimase in silenzio, attonita, poi il suo istinto le suggerì
che la
conosceva:
quegli
occhi azzurri vivaci e intelligenti le erano familiari, così
come il
modo elegante di muoversi. L'aveva vista in altre vesti, in altre
forme, ma ricordava quanto Mattheus le aveva raccontato a Bozen la
notte di Natale, di lei. "Non
ha ancora un nome, Jutta".
Era
la prima volta che la vedeva in versione umana,
ma era assolutamente sicura che fosse lei.
"Mi
hai riconosciuta, ne sono contenta".
Elke
sorrise, timidamente. "Sì, Mattheus mi ha raccontato molte
cose
di te".
"Lo
so".
Jutta
le si avvicinò e poi, a sorpresa, la abbracciò
talmente forte che
le mancò il fiato. "Elke... bentornata! Sono così
contenta che
tu sia quì".
"Oh
Jutta, anche io sono contenta di essere tornata". In quel
momento si rese conto che, per la prima volta da quando era partita,
ritrovando Jutta si era sentita a casa per davvero.
Si
guardarono negli occhi e poi, come due amiche qualsiasi che non si
vedevano da molto tempo, si sedettero una accanto all'altra sulla
riva del lago.
Elke
la guardò attentamente: era una fata graziosa, ma in
versione umana
aveva una bellezza talmente rara, perfetta, che nessun uomo avrebbe
potuto non notare. Anche se non lo conosceva, capiva il
perché Jakob
si fosse
innamorato
di lei e si stupiva che lo stesso non fosse avvenuto per Mattheus.
"Cosa
ci fai quì? Mattheus mi aveva detto che saresti tornata, ma
credevo
ti saresti diretta a Pennes".
"Dovevo
far riposare un po’ il cavallo e poi... volevo stare un po'
da sola
qui. Non ho mai saputo nulla di questo posto, della sua storia, di
quanto tu e Mattheus
siate legati a questo lago e...".
"Volevi
scoprirne qualcosa di più?".
"No,
volevo solo guardare, pensare... Per poter, forse, capire meglio
Mattheus".
Jutta
sorrise. "Lui aveva ragione, sei davvero cresciuta. Ho fatto
fatica a riconoscerti prima, sai? Sei così bella,
elegante... Una
vera signora. Se non sapessi chi sei, ti scambierei per un'elegante
donna di città".
Elke,
a quelle parole, scoppiò a ridere. "Non lo sarò
mai. Sono
posti come questo, la mia casa".
"Già.
Sono così contenta che tu sia tornata e per te e Mattheus,
so che vi
sposerete a breve".
"Sì".
"Sei
nervosa?".
Elke
scosse la testa. In realtà no, non lo era. Perché
era convinta
della sua scelta, certo, e perché di fatto lei e Mattheus
avevano
già passato una notte insieme, come due persone sposate.
"No,
non credo. Forse, sono solo un po' emozionata".
Jutta
sorrise. "E pensare che, quando voleva partire per Bozen a
Natale, non ero d'accordo. Era una fuga la sua, dalle sue scelte e
dalla solitudine. Non volevo passasse le feste da solo ma...
evidentemente era quello che lui sentiva di dover fare. Era alla
ricerca di qualcosa che, alla fine, ha trovato".
"Non
credo sia venuto a Bozen per cercare me. E' stato un caso essersi
incontrati".
Jutta
le prese la mano destra, stringendola fra le sue. "Non è
così,
sai? C'è una forza, una specie di magia che spinge le anime
gemelle
a rincontrarsi, nonostante la distanza e i problemi".
"Dici
davvero?".
"Mi
piace credere che sia così. Che foste destinati a
ritrovarvi,
qualunque cosa fosse successa. E se è successo a voi, forse
varrà
anche per me, un giorno".
"Te
lo auguro". Elke sorrise. Decise che quanto le aveva detto Jutta
le piaceva e che fosse una cosa bella
in cui credere. In fondo, Mattheus le aveva insegnato che esistevano
fate, unicorni
e folletti, perché quindi non credere anche a quanto le
aveva detto
Jutta?
"Anime
gemelle, eh? Speriamo che tu abbia ragione".
"Sarete
felici!" - rispose Jutta, alzandosi in piedi. "Ti devo solo
augurare buona fortuna, avere Mattheus per marito potrebbe rivelarsi
esasperante, in alcuni momenti. Ma tu saprai rimetterlo in riga, a te
dà ascolto!".
Imitandola,
anche Elke si alzò in piedi, avvicinandosi al cavallo.
"Già,
ma direi di non sfidare ulteriormente la sorte. Anzi, forse
è meglio
che non indugi ulteriormente oppure dovrò sentirmi i suoi
rimproveri
per essere arrivata in ritardo".
Jutta
scoppiò a ridere. “Direi che lo conosci
bene… Su, va da lui, sei
mancata per troppo tempo".
Elke
annuì e montò a cavallo, salutandola con un cenno
del capo. "Ci
vediamo presto, Jutta".
La
fata rispose con un sorriso. "Suppongo che, la prossima volta
che ci vedremo, tu sarai una donna sposata".
Elke
prese un profondo respiro per metabolizzare quanto le aveva appena
detto la fata. In effetti, a breve la sua vita sarebbe cambiata per
sempre. L'aveva aspettato a lungo quel momento e finalmente era
lì,
a portata di mano. Accarezzò il cavallo, salutò
Jutta e poi ripartì
velocemente al galoppo verso Pennes.
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