SOLDATI
BLU
Capitolo 1
Il soldato Halloran si sistemò
la giubba dell'uniforme da fatica, poi immerse la redazza nel secchio
di liscivia diluita, la strizzò e cominciò con grande impegno a
strofinare il pavimento della camerata. Il suo intento era quello di
fare buona impressione: quella corvè era una delle meno pesanti,
perlomeno si stava all'ombra e relativamente al fresco, e magari, se
l'avesse svolta a regola d'arte, il sergente Keane avrebbe deciso di
assegnargliela ancora.
Ripassò lo spazzolone su una
macchia, insistendo fino a che non riuscì a scrostarla via, poi lo
immerse di nuovo nel secchio, lo lasciò gocciolare e si piegò per
spingerlo sotto la prima delle brande. Lavò con cura dappertutto,
poi sollevò per una delle maniglie la cassetta azzurra degli effetti
personali che si trovava ai piedi del letto e passò la redazza anche
lì sotto.
Stava lavorando da un po' quando
una voce lo fece sussultare: “Te la cavi bene a leccare i
pavimenti, Bonnie.”
Halloran si girò di scatto e si
trovò di fronte il soldato Perkins, sei piedi e otto pollici, famoso
per riuscire a sollevare l'incudine del fabbro con un braccio solo.
Fece un passo indietro.
L'altro gli rivolse un sorrisetto
e disse: “Se lecchi così bene lì sotto, chissà cosa saresti in
grado di fare con il mio uccello.”
Halloran si limitò ad arretrare
di un altro passo. Fece guizzare lo sguardo tutt'intorno, ma erano
soli e in un'area lontana da porte e finestre.
“Non dici niente, Bonnie?”
“Non... non chiamarmi così.”
Un altro passo indietro.
Perkins lo incalzò, tranquillo
come un cacciatore che ormai ha la preda nel mirino. Gli prese di
mano lo spazzolone con un gesto quasi premuroso, e poi lo lasciò
cadere da una parte. “E perché? Sei carino come una ragazza.” Si
avvicinò ancora. “Una bella ragazza, naturalmente. Di quelle che
piacciono a me, biondine e delicate. A Fort Tadlock almeno qualche
puttana si rimediava, ma in questo posto di merda non ci sono da
fottere neanche le squaw. Ho pensato che potremmo arrangiarci fra di
noi.”
Halloran arretrò ancora, finendo
con le spalle contro il muro. “Non sono una ragazza,” si limitò
a balbettare. Deglutì a fatica, cercando di non ansimare troppo
vistosamente. “E non... lecco proprio nulla,” mormorò poi.
L'altro avanzò fino a che non fu
a un palmo da lui. “E invece so che lo fai,” sussurrò. Gli pose
due dita sotto il mento e gli fece alzare il viso. “Lo sanno tutti
perché sei qui. Gira voce che tu sia un piccolo esperto, in certe
cose.” Aderì a lui col corpo. Halloran sussultò sentendo la sua
erezione contro l'addome, e tentò di sgusciare via, ma Perkins fu
lesto ad appoggiare la mano sul muro, accanto alla sua testa. “Dove
vuoi andare, Bonnie?” lo canzonò. “Vuoi scappare via, hai
paura?”
“Per favore...”
“Per favore,” ripeté
l'altro, imitando il suo tono di voce. “Per favore... Così mi fai
eccitare ancora di più. Così mi viene voglia di sbatterti su quella
branda e strapparti i vestiti a uno a uno, e poi scoparti fino a che
non mi chiedi pietà.”
Di nuovo, Halloran cercò di
sottrarsi, ma Perkins gli appoggiò la mano libera sulla spalla. “Non
così in fretta, Bonnie,” ghignò. “È da maleducati andarsene in
questo modo, non ti pare?”
“Lasciami!”
Lo sguardo di Perkins si fece
minaccioso. “Allora vuoi farmi innervosire, Bonnie? Vuoi che
diventi cattivo? Ti piace così?”
“Lasciami stare, ti ho detto!”
rispose angosciato l'altro, puntandogli le mani contro il petto in un
infruttuoso tentativo allontanarlo.
In quel momento echeggiò una
voce imperiosa: “Halloran! Dannato moccioso scansafatiche, dove
accidenti ti sei imboscato?”
Perkins si irrigidì, poi
brontolò un'imprecazione. “Non finisce qui,” gli promise, ma
l'altro non rispose nemmeno: in un attimo si sottrasse alla sua
presa, poi corse fuori rapido come un coniglio che è riuscito a
liberarsi da una trappola.
La luce forte dell'esterno gli
fece sbattere le palpebre. Con il sole che c'era, guardare le mura
imbiancate a calce di Fort Hope faceva addirittura male agli occhi.
“Che accidenti combinavi, là
dentro? Dormivi?” lo apostrofò Keane. “È un po' che non sento
strofinare.”
Il ragazzo si mise sull'attenti.
“No, sergente.”
“Hai finito, almeno?”
Halloran deglutì. “No,
sergente.”
Keane lo fissò come se avesse
voluto incenerirlo. “Pezzo di impiastro buono a nulla,” ringhiò,
“Credi di essere venuto qui in villeggiatura? Magari per fare i
bagni di sole come certi damerini di Boston?”
“No, sergente.”
“Fila fuori, specie di idiota.
Alla torretta est hanno giusto bisogno di un paio di braccia in più.”
Il ragazzo corse via senza
farselo ripetere. Non sapeva se Keane fosse intervenuto perché aveva
sentito qualcosa o se fosse semplicemente passato di lì per caso,
tuttavia persino un servizio massacrante come la torretta, ovvero
scarrozzare travi di legno e secchi di malta sotto il sole a picco,
gli parve un sollievo, paragonato a quello che aveva appena
rischiato.
Raggiunse un gruppo di soldati
che si affaccendavano a torso nudo intorno a un'impalcatura allestita
contro una delle torri di vedetta. Il tetto era parzialmente
crollato, e da esso spuntavano i monconi anneriti di travi consumate
dal fuoco.
“Ehi, ragazzi, c'è Bonnie!”
esclamò uno di essi vedendolo arrivare.
Gli altri risposero con una
risata.
“Vieni qua, Bonnie, abbiamo
giusto bisogno di due mani delicate per fare la malta!”
Il ragazzo si avvicinò in
silenzio, sapeva già per esperienza che se avesse provato a far
presente che il suo nome non era Bonnie sarebbe stato seppellito di
lazzi e risate. Andò presso la buca della calce, e il soldato Hayner
gli passò un badile. “Impasta bene,” gli raccomandò. “Falla
liscia e compatta come la merda di Big Joe. Non vogliamo che la
prossima volta quei musi rossi bastardi ci tirino giù anche i muri.”
“Apache figli di puttana,”
giunse dall'alto dell'impalcatura. “Sai dove gliele ficcherei, le
loro frecce incendiarie del cazzo? Però accese!”
Ci fu qualche risata.
Halloran cominciò a rivoltare la
malta, che era grumosa e pesante, e si attaccava con tenacia al
badile. Ben presto fu in un bagno di sudore, la tela ruvida
dell'uniforme gli graffiava la pelle, e il sole cocente lo
costringeva a tenere lo sguardo rivolto a terra. Si asciugò la
fronte con la manica, e per non pensare ai suoi guai cominciò a
prestare orecchio alle chiacchiere degli altri.
“Se ti beccano, quei bastardi
ti tagliano a pezzi ancora vivo,” disse Tacker. Calò con fare
significativo l'accetta su una trave, creandovi una profonda
intaccatura.
“Ehi, sta' attento,” grugnì
Hayner, “con quel legno ci dobbiamo fare il tetto.”
“Per tua norma e regola, io
tagliavo tronchi quando tu ancora andavi a scuola.”
“E per tua
norma e regola, io a scuola non ci sono mai andato.”
“Dev'essere per quello che
anche Big Joe legge meglio di te!”
Seguì una salva di risate.
“Ehi, Bonnie!” giunse dopo un
po' dall'alto del ponteggio, “Hai finito con quella malta? Sembra
che stai rimestando lo stufato della domenica!”
Il ragazzo emise un sospiro.
“Sissignore.”
“Beh, allora porta su un
secchio, datti una mossa!”
Sotto lo sguardo critico di
Hayner, Halloran riempì un mastello con parte dell'impasto che era
riuscito faticosamente a ottenere, poi andò all'impalcatura e
cominciò a salire adagio, tenendosi con una mano e reggendo il
pesante contenitore con l'altra.
Quando raggiunse la piattaforma
della torretta, trovò il soldato Rosat in piedi su una cassa
rovesciata, intento a sistemare una delle quattro colonne in muratura
che sostenevano il tetto. “Muoviti,” gli disse questi.
“Vengo.”
L'altro fece una risatina. “Eh,
verrei volentieri anch'io. Dentro una bella figa, magari.”
Il ragazzo lo fissò incerto,
temendo che stesse per ripetersi la scena della camerata, ma dopo la
battuta Rosat sembrava di nuovo concentrato nel suo lavoro.
Gli lasciò il secchio di calce
vicino alla cassa e se ne tornò giù più rapidamente possibile.
Fu solo a pomeriggio inoltrato
che il caporale Maybrey, al comando della squadra addetta al
ripristino della torre est, ordinò una pausa.
Tutti i soldati abbandonarono
l'impalcatura e si raccolsero all'ombra del muro di cinta, sedendosi
chi per terra e chi su un abbeveratoio rovesciato. Quelli che
l'avevano ancora addosso si tolsero la giubba, e lasciarono che
l'aria li rinfrescasse.
Girò un secchio d’acqua con
dentro un mestolo, e a turno tutti bevvero.
“Che caldo,” si lamentò
Rosat, che si stava togliendo di dosso gli schizzi di calce con uno
straccio umido. “Non lo sentono quegli stronzi dei musi rossi?”
“Quelli vengono dall’inferno,”
replicò Tacker, “è normale che non lo sentono.” Fece una pausa,
poi in tono cupo proseguì: “Lo sapete cos’hanno fatto nella zona
di Fort Davis?”
Gli altri si scambiarono
un’occhiata. “No, che cosa?” volle sapere Hayner.
“Hanno catturato una ragazza,
se la sono tenuta al campo per qualche giorno, dandole da mangiare e
facendole credere che erano tutti grandi amiconi, poi a un certo
punto l’hanno presa, l’hanno spogliata, l’hanno appesa per le
braccia e sotto i piedi le hanno acceso un fuoco. Intanto, la
colpivano con le lance e con dei rami incendiati.” Fece girare lo
sguardo sull’allibita platea, poi concluse: “L’hanno fatta
durare un bel po’, prima di ammazzarla, e più urlava, più si
divertivano.”
Al racconto seguì un lungo
silenzio. Infine, il caporale Maybrey commentò: “Selvaggi senza
Dio. Ha ragione il generale Sheridan: gli unici indiani buoni sono
quelli morti.” Si alzò in piedi, poi ammonì: “Ricordatevelo
sempre, ragazzi: tenete l’ultimo colpo per voi, se non volete fare
la stessa fine. E ora forza, tornate al lavoro.”
Rispose un coro di grugniti di
disappunto, ma i soldati si alzarono e tornarono intorno alle
impalcature.
Rosat andò su, e dopo un po’
Halloran riempì un altro secchio di malta e a sua volta si arrampicò
sulla malferma scaletta che portava alla torre. Trovò il commilitone
intento a scrutare l’orizzonte. Guardò a sua volta: con il sole
calante, le alture che circondavano il forte prendevano una tonalità
livida, mentre gli arbusti che le ricoprivano diventavano grovigli
neri. Sui crinali, dove arrivavano gli ultimi raggi, le pietre
avevano un caldo colore rossastro, screziato di miele e oro. Il cielo
aveva perso il bianco da vecchio lenzuolo che assumeva nella calura
del meriggio per diventare una sontuosa cappa di turchese cupo,
punteggiata qua e là delle prime stelle.
L’aria finalmente era fresca e
profumata di erbe selvatiche.
Rosat si voltò verso di lui e
disse: “Ancora non rientrano.”
“Dove sono andati?” chiese il
ragazzo.
L’altro si strinse nelle
spalle. “Giro largo. Dopo quello che è successo, bisogna far
vedere ai musi rossi che non scherziamo.”
“Vuoi dire fino al Sand Creek?”
“Anche oltre, penso. Secondo
me, torneranno che fa buio.” Fece una pausa, poi in tono lugubre
soggiunse: “Se tornano.”
Il ragazzo non rispose. Che con
gli Apache non fosse il caso di scherzare l’aveva imparato il primo
giorno della sua assegnazione a Fort Hope: era stato aggregato a una
pattuglia addetta al recupero di tre cadaveri. Sulle prime era
rimasto abbastanza tranquillo: aveva già visto qualche cadavere
nella sua vita, e non lo avevano particolarmente impressionato. Gente
che sembrava addormentata, più che altro, oppure corpi avvolti nei
sudari, mere sagome bianche che gli avevano suscitato solo una vaga,
triste curiosità.
La pattuglia era stata
un’esperienza del tutto diversa.
Non riusciva a ricordare se in
quell’occasione aveva più pianto o vomitato. Sapeva solo che aveva
fatto entrambe le cose fin quasi a soffocarsi.
Aveva visto corpi straziati, con
mutilazioni inimmaginabili. Sulle prime aveva addirittura fatto
fatica a capire che si trattava di esseri umani, poi aveva
riconosciuto qualche brandello insanguinato dei pantaloni azzurri con
la banda gialla, l’unica parte dell’equipaggiamento che gli
indiani non si erano portati via.
Ricordava solo che a un certo
punto qualcuno lo aveva spinto su un cavallo, e quando era tornato in
grado di capire cosa stava succedendo era già tra le mura bianche di
Fort Hope.
La voce di Rosat lo distrasse dai
suoi pensieri: “Eccoli là. E sembra che ci siano tutti.”
Il ragazzo guardò a sua volta e
vide stagliarsi contro il cielo che andava scurendosi una lunga fila
di cavalieri. “Meno male,” sospirò.
Dal basso giunse la voce di
Maybrey: “Cosa vedi, Rosat?”
“Ci sono tutti, caporale.”
Prima che il graduato avesse modo
di rispondere, qualcuno disse: “Allora si vede che si sono tenuti
lontani dagli Apache.” Seguì qualche risata.
Dopo un po’ arrivò un’altra
domanda: “C’è anche il Dixie?”
“Stanno rientrando tutti,
quindi sì, c’è anche
lui.”
Ci furono delle imprecazioni.
“Mai che i musi rossi ammazzino quello giusto,” grugnì qualcuno.
“Silenzio!” ordinò il
caporale.
Halloran corse giù e si diresse
verso il piazzale. “Dove vai, Bonnie?” gli gridò dietro
qualcuno, ma lui non ci fece nemmeno caso. Arrivò che stavano
aprendo il portone.
Il primo a entrare fu il sergente
Burt. Era coperto di polvere dalla testa ai piedi, tanto che
l’uniforme sembrava più grigiastra che blu. Il suo cavallo
trascinava gli zoccoli come se avesse avuto dei ferri fatti di
piombo. Dietro di lui, il resto della pattuglia non era in condizioni
migliori.
Solo l’ultimo della fila si
teneva dritto in sella, con la testa alta e lo sguardo fisso in
avanti. La cosa non lo stupì: conosceva quel soldato praticamente
solo di vista, ma sapeva dalle chiacchiere dei commilitoni che
nemmeno il sergente O’Rourke, che era il terrore di Fort Hope, era
mai riuscito a coglierlo in fallo una volta.
Lui non dava confidenza a
nessuno, riservando a chiunque solo una distaccata cortesia, e gli
altri di sicuro non lo amavano.
“Qualcuno gli tolga quel
fottuto bastone dal culo,” brontolò infatti un soldato alle spalle
del ragazzo.
“Sempre con quel merdoso
atteggiamento da primo della classe,” replicò un altro. “Io
vorrei sapere chi cazzo crede di essere.”
“Ah, lascia perdere. Quello
stronzo pensa di stare ancora con il generale Lee.”
A voce più alta, un altro lo
apostrofò: “Ehi, Dixie, da quella parte per Gettysburg!”
Seguirono delle risate.
Halloran fissò l’oggetto di
quei lazzi. Inquadrato nei ranghi, il soldato non poteva ovviamente
reagire, tuttavia notò che aveva irrigidito ulteriormente la postura
e stretto le dita sulle redini.
“Che c’è, Dixie, ti mancano
i campi di cotone?” lo provocò qualcun altro.
Di nuovo, tutti risero.
“Silenzio!” sbraitò a quel
punto il sergente Burt. “Sembra di stare al circo, nella gabbia
delle scimmie!”
Le risate si affievolirono fino a
cessare, e gli unici rumori rimasero lo scalpiccio degli zoccoli e lo
scricchiolio dei finimenti di cuoio.
Halloran rimase fermo a seguire
con lo sguardo la colonna che si allontanava. Anche nella luce ormai
scarsa, si notava la differenza di postura tra il soldato che
chiamavano Dixie e gli altri. Considerò che non sapeva nemmeno il
suo vero nome, dal momento che anche i graduati si rivolgevano a lui
in quel modo.
In quel momento, una voce lo
riscosse: “Bonnie! Datti una mossa e vieni qui!”
Si voltò: il soldato Tacker lo
stava chiamando con ampi gesti. “Credi di aver finito? C’è da
sistemare la roba prima del rancio.”
Halloran lanciò un’ultima
occhiata alla colonna, poi corse via.
§
Il ragazzo sollevò il coperchio
della propria cassetta e ne estrasse la scatola di latta che
conteneva il lucido, la spazzola e uno straccio, poi si sedette sulla
branda, si sfilò gli stivali e cominciò a lucidarli.
Si sentiva tranquillo, perché
nessuno faceva caso a lui, e nessuno lo prendeva in giro chiamandolo
con l’umiliante soprannome di Bonnie, o lo provocava con allusioni
oscene.
I quattro veterani del plotone,
che in virtù della loro anzianità di servizio avevano diritto
all’uso del tavolino, stavano facendo una partita a poker. Altri
sistemavano il proprio equipaggiamento, chi sapeva farlo scriveva
lettere, per sé o per i commilitoni. Seduto sull’ultima branda
della fila, la faccia rivolta alla parete, il soldato che chiamavano
Dixie aveva steso sulla sua cassetta un telo più bianco di una
tovaglia da tè. Accanto a sé, sulla branda, aveva un flacone di
olio per armi, uno scovolo e uno straccio.
Prese la sua carabina, e per
prima cosa controllò che non avesse il colpo in canna.
Successivamente sbloccò il fermo sul calcio ed estrasse il
caricatore tubolare, che posò sul telo. Poi vi appoggiò anche
l’arma, prese lo straccio, lo spiegò, lo scosse, lo ripiegò
meticolosamente in quattro e lo imbevette di olio per armi. Mise
anche quello sulla cassa, la parte con l’olio verso l’alto, con
l’aria di chi posiziona un dessert particolarmente gustoso accanto
al proprio coperto.
“Ehi, Dixie!” urlò qualcuno
a questo punto. “Che fai con quell’altarino, vuoi dire messa?”
L’uomo rimase impassibile.
Prese la carabina, infilò lo scovolo nella canna e cominciò a farlo
andare su e giù.
“Sarà il suo modo di scopare,”
commentò qualcun altro, di nuovo senza ottenere la più piccola
reazione.
Il soldato continuò a pulire
l’arma come se i commilitoni semplicemente non esistessero. Oliò
accuratamente tutte le parti metalliche, le ripassò con un panno
pulito, quindi provò due o tre volte il meccanismo di estrazione,
fino a che esso non funzionò in modo perfettamente fluido.
Fatto questo riabbassò con
cautela il cane, inserì nuovamente il caricatore e la appese al
gancio accanto alla branda.
Quando la carabina fu al suo
posto, Halloran ebbe l’impressione di essere un bambino al quale di
colpo era stata sottratta la lanterna magica. Aveva visto pulire una
Spencer 1865 migliaia di volte, ma mai con quella solennità quasi
mistica.
Sbatté gli occhi e si accorse di
avere ancora lo stesso stivale fra le mani, ormai lucidissimo. Lo
posò e si alzò dalla branda, poi mosse qualche esitante passo verso
il commilitone. Si fermò occhieggiandolo speranzoso, ma l’altro
non diede segno di essersi accorto di lui.
Il ragazzo allora fece qualche
altro passo.
A quel punto il soldato alzò la
testa e lo fissò serio. Halloran lo fissò a sua volta, rendendosi
conto che non l'aveva mai fatto così da vicino: poteva avere sui
trentacinque anni, aveva la fronte alta e gli occhi chiari, e in
generale lineamenti fini, che gli parvero fuori posto in quella
camerata chiassosa. Lo sguardo era freddo, vagamente malinconico.
Il ragazzo si schiarì la gola,
di colpo stranamente intimidito, e disse: “Salve, io sono...”
“Halloran,” lo interruppe
l’altro con distacco. “So chi sei.”
Il più giovane si sentì
avvampare come se avesse appena fatto qualcosa di molto sconveniente.
Si schiarì di nuovo la gola e proseguì: “E… e tu sei…?”
“Finch.”
“Oh, ehm…” Halloran prese
il coraggio a quattro mani. “Finch, e poi?”
L’altro lo fissò dritto negli
occhi, poi rispose: “Non devi finire di lucidare gli stivali,
Halloran?” Il tono era quieto, distaccato.
Nonostante la pacatezza della
replica, il ragazzo arretrò come se avesse appena ricevuto un pugno.
Boccheggiò in cerca di una risposta, ma non riuscì a trovarla.
In quel momento, Hayner annunciò:
“Ragazzi, tra un po’ è il quindici.”
A quelle parole, Adams alzò la
testa dal mazzo di carte e brontolò: “Il solito uccellaccio del
malaugurio.”
“Prenditela con il calendario,
non con me,” replicò l’altro, stringendosi nelle spalle.
“Vaffanculo, mi stavo godendo
la partita, stavo anche spennando Hartwood. Ti sembra il caso di
tirare fuori certi argomenti?”
“Comunque il quindici arriva,”
replicò Hayner imperterrito, “E a qualcuno toccherà la corvè.”
“Ah, merda,” imprecò Rosat
dalla sua branda, sollevando lo sguardo da una consunta collezione di
fotografie osé. “A me non tocca di sicuro, io me la sono già
beccata il mese scorso.”
Tacker ghignò. “Ma certo, il
signore ha già dato. Dipende da quello che decide O’Rourke,
idiota. C’è gente che se l’è fatta tre volte di seguito.”
“Tre volte?” chiese qualcuno
dal fondo della camerata. “E ha portato a casa la pelle?”
“Puoi chiederglielo: è Charles
Maize del Plotone B. Vacci piano però, perché dopo l'ultima gli si
è un po' squinternata la testa.”
L’argomento riscuoteva il
generale interesse e dopo un po’ tutto il plotone, a parte Halloran
e Finch, era riunito intorno al tavolo da gioco. Le carte vennero
abbandonate.
“Io dico che quell’avamposto
andrebbe lasciato agli avvoltoi,” proclamò Hartwood con tono da
rivoluzionario. “È in mezzo al territorio degli Apache, non puoi
neanche andare a cagare senza portarti dietro il fucile, e devi
guardare anche sotto i sassi per vedere se c’è un muso rosso
nascosto. Ma che cazzo lo tengono a fare, dico io!”
“Per far vedere agli Indiani
che abbiamo le palle,” fu la risposta di Tacker. “Se no quei
bastardi ci pisciano in testa.”
“Veramente ci pisciano già in
testa,” brontolò Rosat.
La discussione andò avanti per
un po’. Alla fine Hayner impose il silenzio con un gesto, quindi in
tono solenne concluse: “E comunque, la faccenda è sempre la
solita: tra un po’ è il quindici. Parte la roba per Coyote Point,
e qualcuno dovrà andare a scortare il carico. Ma la domanda è: chi
sceglierà O'Rourke?”
“'Fanculo, me no di sicuro,”
brontolò Adams.
“E perché no? Chi sei, il più
bello?” Gli altri risero.
“Non ho preso punizioni.”
Raccolse le carte e le fissò intensamente, come a far capire che
desiderava riprendere la partita.
Hayner, imperterrito, disse: “Ah,
se bastasse non prendere punizioni, sarebbe facile. Anche se fossimo
tutti angioletti scesi dal cielo, in quindici una ventina di noi
dovrà partire.”
“Vaffanculo, Hayner,”
brontolò Rosat dalla sua branda, “Non si possono neanche guardare
le fotografie in pace, quando ci sei tu in giro.”
“Fatti delle seghe finché
puoi,” lo rimbeccò l'altro, “perché se gli Apache ti beccano,
la prima cosa che ti tagliano è il cazzo.”
§
Appoggiato al parapetto della
torre est, la carabina sulla spalla, Halloran scrutava nel buio. Era
una notte senza luna, e guardare fuori dava l’impressione di
fissare un sipario di velluto nero: non si vedeva niente, e si
immaginavano un sacco di cose.
Tese l’orecchio, ma l’unico
suono che si udiva era il frinire monotono di qualche insetto.
L’aria era immobile, come in
attesa di qualcosa.
Mosse qualche passo su e giù,
facendo scricchiolare le assi del pavimento. Nonostante i recenti
lavori di ripristino, nella postazione era rimasto un vago odore di
bruciato, che si mescolava con quello di resina e vernice delle travi
nuove.
Si sistemò meglio la cinghia del
fucile sulla spalla e si passò un dito nel colletto dell’uniforme,
che gli grattava la pelle delicata del collo. Di nuovo rivolse lo
sguardo al deserto, ma non percepì altro che quiete.
Alle sue spalle, la vita del
forte si svolgeva ordinata. Udì il richiamo di Adams dalla torre
nord, e girandosi verso l'edificio del comando scorse attraverso la
finestra aperta il maggiore Lane, che approfittando del fresco
lavorava nel suo studio.
Tornò ad appoggiarsi al
parapetto, sistemandosi come aveva visto fare ai veterani, in modo
che il fucile sulla spalla non gli pesasse troppo, e per un po'
rimase fermo, con lo sguardo che galleggiava nel velluto nero come
una barca alla deriva.
Ripensò al soldato Finch. Anche
lui in un certo senso era un sipario, dietro cui si indovinava
l'esistenza di molto altro. Nessuno a Fort Hope poteva vantare un
passato limpido, fare il soldato normalmente era l'unica alternativa
alla fame o alla galera, ma quel Finch gli dava un'impressione
strana: era come se al tempo stesso fosse nel suo elemento e fuori
posto, come un libro nello scaffale sbagliato.
Non riuscì ad andare oltre nei
suoi ragionamenti: udì dei passi pesanti sulle scale, e un attimo
dopo la voce di Adams annunciò: “Ti do il cambio, Bonnie.”
Il più giovane si limitò a uno
scarno: “Niente da segnalare.” Raccolse il cappello, si sistemò
per l'ennesima volta la cinghia della carabina sulla spalla e scese
per tornare in camerata.
Arrivò al piazzale, lo
attraversò e si diresse verso l'edificio delle camerate, già
pregustando il momento in cui avrebbe finalmente appeso al gancio
quel maledetto fucile e si sarebbe infilato sotto le coperte, per
godersi almeno qualche ora di sonno.
Era ancora immerso nei suoi
pensieri quando si sentì afferrare e trascinare indietro.
Istintivamente si divincolò, ma prima che potesse chiamare aiuto,
una mano pesante gli tappò la bocca. “Non ti agitare, Bonnie,”
gli sussurrò all'orecchio la voce di Perkins, “o dovrò farti
male.”
Il ragazzo si tese per cercare di
liberarsi, ma la presa dell'altro gli mozzava in respiro. Mugolò
come poteva.
“Sta' zitto,” ringhiò il
commilitone, stringendolo così forte che Halloran sentì le costole
scricchiolare, “non ci metto niente a tirarti il collo.”
Lo sbatté con le spalle contro
una parete e in un attimo gli fu addosso. “Ora farai il bravo con
me,” ansimò contro di lui, “farai quello che ti dico, e poi te
ne portai tornare dentro come se niente fosse.” Fece una breve
risata, poi soggiunse: “Non è quello che hai sempre fatto,
Bonnie?”
Spaventato e disgustato, Halloran
si divincolò di nuovo. “Lasciami!” inveì.
“Avanti, lo sappiamo tutti cosa
facevi prima di venire qui. Magari dopo ti do anche un quarto di
dollaro, eh? Così ti sembrerà di ritornare ai vecchi tempi.”
“Lasciami stare!” protestò
il ragazzo, ma prima che potesse aggiungere altro, un pugno
all'addome gli mozzò il respiro.
“Ti avevo detto di stare
zitto,” disse Perkins con il tono di un maestro che sgrida un
allievo un po' tardo. “Ora sarò costretto a farti davvero male.”
Il ragazzo sentì la sua grossa
mano circondargli il collo. La presa cominciò a stringersi, lenta e
inesorabile come una morsa. Gli afferrò il polso, ma era come
cercare di spostare una sbarra di ferro.
Aprì la bocca per gridare, ma
riuscì solo a emettere un specie di rantolo. Davanti agli occhi
cominciarono a comparirgli puntini luminosi.
A quel punto, qualcuno disse:
“Lascialo.” Era una voce distaccata, quasi cortese, nella quale
si indovinava però un'imperiosità inflessibile.
Senza abbandonare la presa,
Perkins si girò in quella direzione. In tono minaccioso chiese: “E
tu che cazzo vuoi, Dixie?”
Pacata, giunse la risposta:
“Voglio che tu lasci stare il ragazzo.”
L'altro sogghignò. “E se io
decidessi che non mi va?”
“Sarò costretto a farti male.”
Ci fu qualche secondo di silenzio
teso, poi Perkins emise una breve risata e si erse in tutta la sua
rispettabile mole. “Voglio proprio vedere come farai,” disse in
tono di scherno.
Un istante dopo, Halloran percepì
il rumore secco di carne che colpiva altra carne, e poi un gemito
soffocato. La mano che gli stava stingendo il collo scomparve, ed
egli si ritrovò seduto per terra ad ansimare a bocca aperta, con una
mano sulla gola e il corpo scosso da tremiti.
Il tramestio proseguì per un
po', infine udì la voce di Perkins che in tono minaccioso ammoniva:
“Non finisce qui.”
I suoi passi pesanti si
allontanarono nel buio.
Poi silenzio. Il ragazzo si
guardò intorno, ma non c'era più nessuno. “Finch?” chiamò con
voce sommessa.
Non gli giunse risposta.
Si alzò adagio, puntellandosi
alla parete, e di nuovo si passò la mano sul collo indolenzito.
“Finch, sei qui?” chiese. Attese quasi mezzo minuto, infine
avvilito mormorò: “Se n'è andato.”
Raccolse la sua carabina, che nel
trambusto era caduta per terra, e si incamminò a testa bassa verso
le camerate.
§
Il poligono di tiro si trovava
appena fuori dal muro di cinta del forte, in un avvallamento naturale
delimitato da irregolari creste di roccia.
Nel fondo di quel catino
arroventato dal sole era stata ricavata una linea di tiro, con le
piazzole contrassegnate da piramidi di sassi poste a intervalli
regolari. A una distanza di circa cinquanta iarde da esse era stata
scavata una trincea che tagliava trasversalmente lo spiazzo, e oltre
quella si trovavano i bersagli, ovvero tavole di legno su cui erano
stati dipinti dei disegni a cerchi concentrici rossi e bianchi,
oppure delle rozze sagome di cavalieri in nero.
Un ginocchio nella polvere,
rintronato dall'eco degli spari contro le pareti della conca,
Halloran cercò di imbracciare la carabina più strettamente
possibile. Inquadrò il bersaglio nel mirino, inspirò lentamente,
trattenne il fiato per un paio di secondi e tirò il grilletto
cercando di non strappare. Il crepitare secco dello sparo gli fece
fischiare l'orecchio, e il rinculo dell'arma contro la spalla lo fece
mugolare di disappunto.
Dalla trincea si alzò lentamente
una bandierina rossa.
“Guarda nel mirino, idiota!”
abbaiò la voce di Keane alle sue spalle.
“Sì, sergente,” rispose
meccanicamente il ragazzo, quindi azionò la leva di eiezione e mise
un altro colpo in canna.
Sparò, e di nuovo si alzò la
bandierina rossa.
Halloran emise un sospiro, posò
l'arma accanto a sé e si asciugò il sudore dalla fronte con la
manica dell'uniforme.
La voce del sergente lo fece
letteralmente sussultare: “Che cazzo stai facendo? Raccogli subito
quella carabina.”
Il ragazzo si affrettò a
eseguire l'ordine. Si posizionò di nuovo l'arma contro la spalla,
mise il colpo in canna e cercò di rilassare i muscoli intorpiditi.
Inspirò ed espirò un paio di volte, facendo del suo meglio per
ignorare il caldo, il rumore e la scomodità, poi tirò il grilletto
più lentamente che poté.
Finalmente si alzò una
bandierina bianca.
Continuò a sparare fino a che il
sergente non gli ordinò di abbandonare la postazione. A quel punto
scaricò l'arma, se la mise a spall'arm e arretrò fino a una zona
all'ombra. Lì si sedette su un sasso e rimase a osservare gli altri.
Cercò con lo sguardo Finch: il
soldato era in una piazzola poco distante da quella che aveva
occupato lui. Teneva una posizione impeccabile, e imbracciava il
fucile come se non avesse mai fatto altro nella vita. Sparava con
calma, un colpo dopo l'altro, ripetendo sempre gli stessi misurati
movimenti, e ogni volta si alzava dal fossato la bandierina bianca.
Halloran appoggiò i gomiti sulle
cosce e il mento tra le mani, poi emise un sospiro. Erano passati
ormai tre giorni da quando Finch l'aveva difeso, ma non era ancora
riuscito a ringraziarlo per il suo aiuto.
Non che le occasioni fossero
mancate: sembrava piuttosto che fosse l'ombroso commilitone a non
voler avere a che fare con lui.
Di nuovo il sergente diede un
ordine, e la squadra che stava sparando si preparò ad abbandonare le
postazioni. Finch si alzò in piedi, si spazzolò con le mani
l'uniforme imbiancata di polvere, si mise il fucile in spalla e si
diresse calmo verso la zona d'ombra. Una volta lì, si sedette su un
sasso e si tolse il cappello, poi si passò una mano fra i capelli
chiari.
Halloran prese la propria
borraccia e gli si avvicinò cauto. Aspettò che l'altro rivolgesse
lo sguardo su di lui, poi gliela porse. “Vuoi bere?” gli chiese.
Finch aggrottò appena le
sopracciglia, il ragazzo stabilì che sembrava stupito, più che
irritato. Continuò a tendergli la borraccia.
Alla fine l'altro allungò una
mano e prese il recipiente. “Grazie,” gli disse, poi lo portò
alle labbra e bevve.
In quel momento si levarono
scomposti clamori dalle linee di tiro. “Guardate qua!” stava
gridando il soldato Tacker, “Più stretta di una vergine!”
Halloran si girò a vedere cosa
stavano facendo, poi tornò a voltarsi verso Finch. “Parlano della
tua rosata,” disse. Si accorse di sentirsi quasi in imbarazzo per
la trivialità del paragone.
Il sergente Keane raggiunse il
chiassoso gruppo. Osservò il bersaglio e sollevò meravigliato le
sopracciglia. “Chi ha fatto una cosa del genere?” volle sapere.
Tacker si erse tronfio: “Io.”
Fece girare lo sguardo tutt'intorno, come sfidando i presenti a
contraddirlo, e infine lo fissò su Finch. Questi si limitò a
rivolgergli uno sguardo indifferente.
“Io!” ripeté allora il
primo. “Ve l'avevo detto che oggi ero in gran forma!” Si
allontanò seguito da una torma di militari acclamanti.
Senza parole per lo stupore,
Halloran rivolse lo sguardo al gruppetto, e poi di nuovo a Finch.
Questi si limitò a restituirgli la borraccia, poi gli girò
leggermente le spalle, tirò fuori dalla tasca interna della giacca
un piccolo portadocumenti di cuoio decorato con un monogramma dorato,
ne estrasse delle carte scritte a mano e cominciò a sfogliarle
adagio, con la cautela affettuosa di chi tocca un oggetto molto
fragile e molto prezioso.
§
Halloran buttò giù l'ultimo
boccone di manzo salato e cercò di masticarlo il minimo necessario
per non farselo rimanere incastrato in gola, poi ci bevve dietro una
tazza d'acqua, ma gli rimase in bocca il sapore di rancido della
carne mal conservata. Emise un sospiro: l'unica cosa che rimpiangeva
della sua vita precedente era il mangiare, anche se probabilmente
persino quello che mangiavano gli Apache era meglio del rancio di
Fort Hope.
A un certo punto sentì qualcuno
dire: “Ehi,
Dixie, chi cazzo sei, la regina d'Inghilterra?”
Guardò verso il fondo della
tavolata, e vide Finch che sedeva come al solito dritto e composto.
Teneva i gomiti aderenti al corpo, e le posate in punta di dita.
Aveva addirittura il tovagliolo sulle ginocchia.
Un altro soldato gli disse
qualcosa, ma lui rimase perfettamente impassibile. Si forbì anzi la
bocca con gesto elegante, quindi ripiegò il tovagliolo e se lo mise
in tasca, poi appoggiò le posate sul piatto di latta come un conte
avrebbe appoggiato l’argenteria su un piatto di porcellana
finissima.
Il ragazzo raccolse la scodella
ammaccata, vi aggiunse la tazza d’acciaio e consegnò tutto al
cuciniere, quindi uscì dalla mensa. Stava calando la sera, e il
plotone era sparso qua e là a gruppetti. Alcuni fumavano e giocavano
a carte, altri chiacchieravano dell'imminente missione a Coyote
Point, facendo pronostici su chi sarebbe stato scelto per far parte
della scorta.
Vide uscire Finch, che come al
solito evitò il contatto con gli altri, si sedette vicino alla
finestra della fureria per sfruttarne la luce, e tirò fuori le sue
carte.
Il ragazzo rimase per un po' a
guardarlo incuriosito: l'uomo stava leggendo un foglio un po'
macchiato, con gli angoli consumati. Quando ebbe finito lo ripiegò
con cura e lo rimise nel portadocumenti. Successivamente tirò fuori
alcune fotografie e le scorse adagio, soffermandosi per qualche
secondo su ognuna di esse.
A quel punto, Halloran si mosse
verso di lui. L'altro alzò la testa e gli rivolse uno sguardo
interrogativo.
“Io...” Il ragazzo deglutì
senza sapere bene cosa dire. Si mosse esitante da un piede all'altro.
“Io, ecco...”
Finch continuava a guardarlo
serio.
Halloran fece per dire qualcosa,
ma si accorse che l’espressione dell’altro si era fatta
d’improvviso tesa. Si guardò intorno e vide che il cortile era
stranamente deserto.
“Vattene,” sibilò Finch, ma
non fece in tempo ad aggiungere altro: una figura poderosa uscì
dalle tenebre e gli si lanciò addosso, facendolo crollare al suolo.
Tutte le carte e le fotografie che aveva in mano si sparsero in giro.
I due rotolarono avvinghiati, poi
si rialzarono, e Halloran vide che l’aggressore era Perkins. Dal
buio però uscirono a dargli man forte altri due, della sua stessa
taglia.
Finch si mise in guardia, l’altro
si fece avanti con un diretto destro. Il primo riuscì a schivarlo,
ma uno degli altri due lo afferrò da dietro e lo sbilanciò,
costringendolo a rompere la sua posizione difensiva, cosa che permise
a Perkins di colpirlo con un pugno all’addome. Egli emise un gemito
soffocato, subito un altro gli fu addosso colpendolo con un gancio
alla mascella. Finch però riuscì ad allontanare Perkins con un
calcio, poi si scrollò di dosso il soldato che lo stava tenendo per
le braccia, si girò e lo colpì al mento con un montante, poi balzò
indietro, ma finì contro il terzo dei suoi aggressori, che gli passò
le braccia sotto le ascelle e gliele intrecciò dietro la nuca, poi
lo sbilanciò indietro con l’intenzione di bloccarlo. Finch si
abbassò, scivolando via dalla presa, quindi si girò fulmineo e
sferrò un gancio all’avversario, facendolo crollare al suolo.
Dopo il primo attimo di sorpresa,
Halloran cercò di dare man forte al commilitone, ma immediatamente
un pugno lo spedì gambe all’aria con la sensazione che gli fosse
crollata addosso una casa.
Si rialzò incerto, scrollando la
testa per cercare di recuperare la lucidità, e gli fu chiaro che la
sua unica speranza di far cessare lo scontro era cercare un graduato.
Corse all'edificio del comando.
“Sergente Keane!” cominciò a chiamare, prima ancora di averlo
raggiunto, “Sergente, dovete venire subito!”
L'uomo comparve sulla soglia in
maniche di camicia. “Che diavolo hai da sbraitare, Halloran?”
“Si stanno picchiando!” ansò
il ragazzo.
“Chi si
sta picchiando?”
“Il soldato Finch è stato...”
cominciò Halloran, ma l'altro in tono duro lo interruppe: “Sempre
quel maledetto Dixie, dannazione a lui.”
Prima che l'altro potesse
replicare, scomparve nella baracca, e ne uscì un attimo dopo col
berretto in testa, abbottonandosi la giubba. “Andiamo,” disse
conciso. “Portami da quel piantagrane.”
I quattro stavano ancora lottando
furiosamente. Finch era addossato a un muro, e gli altri tre gli si
accanivano contro. Gli unici suoni che si udivano erano il tramestio
dei piedi e il rumore delle percosse, accompagnato di tanto in tanto
da qualche gemito soffocato.
Il sergente fissò per qualche
secondo i contendenti con i pugni puntati sui fianchi, poi sbraitò:
“Per tutti i diavoli! Cosa accidenti sta succedendo qui?” Avanzò
di un paio di passi, poi proseguì: “Dixie! Specie di idiota, che
cazzo ti credi di fare?”
Ansanti e sanguinanti, gli uomini
si immobilizzarono. Perkins fece un passo indietro, poi disse: “Mi
ha aggredito, sergente. Mi ha chiamato sporco Yankee e poi mi è
saltato addosso.”
Il sottufficiale si voltò verso
Finch. “È vero quello che dice?” lo apostrofò in tono rude. Il
soldato si limitò a far girare sugli aggressori uno sguardo
sprezzante.
“Non rispondi, brutto idiota?”
L’altro continuò a tacere.
Il graduato annuì con l’aria
di chi non si sarebbe aspettato niente di diverso. “Ma certo,”
disse, “dovevo immaginarlo. Tutti così, voialtri del sud,
altezzosi come puttane d'alto bordo. Credete di essere ancora in
mezzo ai vostri campi di cotone, con gli schiavi negri e il mint
julep [1] ghiacciato da bere.” Poi, a voce più alta: “Per questa
notte finite tutti in cella di rigore, poi domani sarà il maggiore
Lane a decidere cosa fare di voi.”
“Ma sergente!” protestò con
fare indignato Maize, uno dei due che avevano dato man forte a
Perkins, “Noi siamo stati provocati!”
“E allora avreste dovuto
chiamare me, invece di picchiarvi come selvaggi.”
“Ma...”
“Tutti in cella, marsch!”
Halloran rimase fermo a fissare i
soldati che venivano spinti via, e quando fu di nuovo solo si guardò
intorno: le carte di Finch erano sparse dappertutto. Alcune erano
state calpestate, ed erano spiegazzate e sporche.
Si chinò e cominciò a
raccoglierle, ripiegò i fogli e sistemò le fotografie. Per una
sorta di strano pudore cercò di guardarle il meno possibile mentre
lo faceva, ma intravide comunque delle figure femminili in vaporosi
abiti di tulle e una villa tutta bianca con la facciata ornata di
colonne. C’era anche un uomo in uniforme, ritratto sullo sfondo
della bandiera confederata.
Ripose tutto nel portadocumenti,
che era di marocchino fine, anche se ormai rovinato e stinto. Guardò
l’elegante monogramma, ancora dorato in alcuni punti: CFH. La F
doveva essere quella di Finch, ma per cosa stavano le altre due
lettere?
Si infilò la piccola cartella
nella tasca interna della giacca e richiuse accuratamente i bottoni.
Si guardò intorno dopo averlo fatto, come per accertarsi che nessuno
l’avesse visto appropriarsi di quello strano tesoro, poi si diresse
rapido in camerata.
[1] Cocktail bevuto negli Stati
del sud, tradizionalmente fatto con ghiaccio tritato, bourbon,
rametti di menta fresca e zucchero. Si serve in un’apposita coppa
d’argento.
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