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Autore: Old Fashioned    15/04/2018    14 recensioni
Grandi pianure dell'Ovest, circa dieci anni dopo la fine della Guerra di Secessione. Al di là dell'immagine patinata che un certo cinema ci ha dato di loro, i cosiddetti soldati blu, ovvero la US Plains Cavalry, erano più che altro l'ultimo approdo di reduci, stranieri in cerca di una collocazione e uomini cui veniva prospettato il servizio sotto le armi come alternativa al carcere. Sistemazioni pericolose, cibo cattivo, poco sonno e una paga di tredici dollari al mese erano tutto ciò che uno di questi soldati si poteva aspettare di ricevere nel corso del suo periodo sotto le armi.
Se ne hai voglia, inclito lettore, segui con me la vicenda di due di loro.
Prima classificata al contest "Solo Cenere" indetto da molang sul forum di Efp.
Genere: Angst, Guerra, Malinconico | Stato: completa
Tipo di coppia: Slash
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno | Contesto: L'Ottocento
Capitoli:
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SOLDATI BLU



Capitolo 1

Il soldato Halloran si sistemò la giubba dell'uniforme da fatica, poi immerse la redazza nel secchio di liscivia diluita, la strizzò e cominciò con grande impegno a strofinare il pavimento della camerata. Il suo intento era quello di fare buona impressione: quella corvè era una delle meno pesanti, perlomeno si stava all'ombra e relativamente al fresco, e magari, se l'avesse svolta a regola d'arte, il sergente Keane avrebbe deciso di assegnargliela ancora.
Ripassò lo spazzolone su una macchia, insistendo fino a che non riuscì a scrostarla via, poi lo immerse di nuovo nel secchio, lo lasciò gocciolare e si piegò per spingerlo sotto la prima delle brande. Lavò con cura dappertutto, poi sollevò per una delle maniglie la cassetta azzurra degli effetti personali che si trovava ai piedi del letto e passò la redazza anche lì sotto.
Stava lavorando da un po' quando una voce lo fece sussultare: “Te la cavi bene a leccare i pavimenti, Bonnie.”
Halloran si girò di scatto e si trovò di fronte il soldato Perkins, sei piedi e otto pollici, famoso per riuscire a sollevare l'incudine del fabbro con un braccio solo. Fece un passo indietro.
L'altro gli rivolse un sorrisetto e disse: “Se lecchi così bene lì sotto, chissà cosa saresti in grado di fare con il mio uccello.”
Halloran si limitò ad arretrare di un altro passo. Fece guizzare lo sguardo tutt'intorno, ma erano soli e in un'area lontana da porte e finestre.
Non dici niente, Bonnie?”
Non... non chiamarmi così.” Un altro passo indietro.
Perkins lo incalzò, tranquillo come un cacciatore che ormai ha la preda nel mirino. Gli prese di mano lo spazzolone con un gesto quasi premuroso, e poi lo lasciò cadere da una parte. “E perché? Sei carino come una ragazza.” Si avvicinò ancora. “Una bella ragazza, naturalmente. Di quelle che piacciono a me, biondine e delicate. A Fort Tadlock almeno qualche puttana si rimediava, ma in questo posto di merda non ci sono da fottere neanche le squaw. Ho pensato che potremmo arrangiarci fra di noi.”
Halloran arretrò ancora, finendo con le spalle contro il muro. “Non sono una ragazza,” si limitò a balbettare. Deglutì a fatica, cercando di non ansimare troppo vistosamente. “E non... lecco proprio nulla,” mormorò poi.
L'altro avanzò fino a che non fu a un palmo da lui. “E invece so che lo fai,” sussurrò. Gli pose due dita sotto il mento e gli fece alzare il viso. “Lo sanno tutti perché sei qui. Gira voce che tu sia un piccolo esperto, in certe cose.” Aderì a lui col corpo. Halloran sussultò sentendo la sua erezione contro l'addome, e tentò di sgusciare via, ma Perkins fu lesto ad appoggiare la mano sul muro, accanto alla sua testa. “Dove vuoi andare, Bonnie?” lo canzonò. “Vuoi scappare via, hai paura?”
Per favore...”
Per favore,” ripeté l'altro, imitando il suo tono di voce. “Per favore... Così mi fai eccitare ancora di più. Così mi viene voglia di sbatterti su quella branda e strapparti i vestiti a uno a uno, e poi scoparti fino a che non mi chiedi pietà.”
Di nuovo, Halloran cercò di sottrarsi, ma Perkins gli appoggiò la mano libera sulla spalla. “Non così in fretta, Bonnie,” ghignò. “È da maleducati andarsene in questo modo, non ti pare?”
Lasciami!”
Lo sguardo di Perkins si fece minaccioso. “Allora vuoi farmi innervosire, Bonnie? Vuoi che diventi cattivo? Ti piace così?”
Lasciami stare, ti ho detto!” rispose angosciato l'altro, puntandogli le mani contro il petto in un infruttuoso tentativo allontanarlo.
In quel momento echeggiò una voce imperiosa: “Halloran! Dannato moccioso scansafatiche, dove accidenti ti sei imboscato?”
Perkins si irrigidì, poi brontolò un'imprecazione. “Non finisce qui,” gli promise, ma l'altro non rispose nemmeno: in un attimo si sottrasse alla sua presa, poi corse fuori rapido come un coniglio che è riuscito a liberarsi da una trappola.

La luce forte dell'esterno gli fece sbattere le palpebre. Con il sole che c'era, guardare le mura imbiancate a calce di Fort Hope faceva addirittura male agli occhi.
Che accidenti combinavi, là dentro? Dormivi?” lo apostrofò Keane. “È un po' che non sento strofinare.”
Il ragazzo si mise sull'attenti. “No, sergente.”
Hai finito, almeno?”
Halloran deglutì. “No, sergente.”
Keane lo fissò come se avesse voluto incenerirlo. “Pezzo di impiastro buono a nulla,” ringhiò, “Credi di essere venuto qui in villeggiatura? Magari per fare i bagni di sole come certi damerini di Boston?”
No, sergente.”
Fila fuori, specie di idiota. Alla torretta est hanno giusto bisogno di un paio di braccia in più.”
Il ragazzo corse via senza farselo ripetere. Non sapeva se Keane fosse intervenuto perché aveva sentito qualcosa o se fosse semplicemente passato di lì per caso, tuttavia persino un servizio massacrante come la torretta, ovvero scarrozzare travi di legno e secchi di malta sotto il sole a picco, gli parve un sollievo, paragonato a quello che aveva appena rischiato.
Raggiunse un gruppo di soldati che si affaccendavano a torso nudo intorno a un'impalcatura allestita contro una delle torri di vedetta. Il tetto era parzialmente crollato, e da esso spuntavano i monconi anneriti di travi consumate dal fuoco.
Ehi, ragazzi, c'è Bonnie!” esclamò uno di essi vedendolo arrivare.
Gli altri risposero con una risata.
Vieni qua, Bonnie, abbiamo giusto bisogno di due mani delicate per fare la malta!”
Il ragazzo si avvicinò in silenzio, sapeva già per esperienza che se avesse provato a far presente che il suo nome non era Bonnie sarebbe stato seppellito di lazzi e risate. Andò presso la buca della calce, e il soldato Hayner gli passò un badile. “Impasta bene,” gli raccomandò. “Falla liscia e compatta come la merda di Big Joe. Non vogliamo che la prossima volta quei musi rossi bastardi ci tirino giù anche i muri.”
Apache figli di puttana,” giunse dall'alto dell'impalcatura. “Sai dove gliele ficcherei, le loro frecce incendiarie del cazzo? Però accese!”
Ci fu qualche risata.
Halloran cominciò a rivoltare la malta, che era grumosa e pesante, e si attaccava con tenacia al badile. Ben presto fu in un bagno di sudore, la tela ruvida dell'uniforme gli graffiava la pelle, e il sole cocente lo costringeva a tenere lo sguardo rivolto a terra. Si asciugò la fronte con la manica, e per non pensare ai suoi guai cominciò a prestare orecchio alle chiacchiere degli altri.
Se ti beccano, quei bastardi ti tagliano a pezzi ancora vivo,” disse Tacker. Calò con fare significativo l'accetta su una trave, creandovi una profonda intaccatura.
Ehi, sta' attento,” grugnì Hayner, “con quel legno ci dobbiamo fare il tetto.”
Per tua norma e regola, io tagliavo tronchi quando tu ancora andavi a scuola.”
E per tua norma e regola, io a scuola non ci sono mai andato.”
Dev'essere per quello che anche Big Joe legge meglio di te!”
Seguì una salva di risate.
Ehi, Bonnie!” giunse dopo un po' dall'alto del ponteggio, “Hai finito con quella malta? Sembra che stai rimestando lo stufato della domenica!”
Il ragazzo emise un sospiro. “Sissignore.”
Beh, allora porta su un secchio, datti una mossa!”
Sotto lo sguardo critico di Hayner, Halloran riempì un mastello con parte dell'impasto che era riuscito faticosamente a ottenere, poi andò all'impalcatura e cominciò a salire adagio, tenendosi con una mano e reggendo il pesante contenitore con l'altra.
Quando raggiunse la piattaforma della torretta, trovò il soldato Rosat in piedi su una cassa rovesciata, intento a sistemare una delle quattro colonne in muratura che sostenevano il tetto. “Muoviti,” gli disse questi.
Vengo.”
L'altro fece una risatina. “Eh, verrei volentieri anch'io. Dentro una bella figa, magari.”
Il ragazzo lo fissò incerto, temendo che stesse per ripetersi la scena della camerata, ma dopo la battuta Rosat sembrava di nuovo concentrato nel suo lavoro.
Gli lasciò il secchio di calce vicino alla cassa e se ne tornò giù più rapidamente possibile.

Fu solo a pomeriggio inoltrato che il caporale Maybrey, al comando della squadra addetta al ripristino della torre est, ordinò una pausa.
Tutti i soldati abbandonarono l'impalcatura e si raccolsero all'ombra del muro di cinta, sedendosi chi per terra e chi su un abbeveratoio rovesciato. Quelli che l'avevano ancora addosso si tolsero la giubba, e lasciarono che l'aria li rinfrescasse.
Girò un secchio d’acqua con dentro un mestolo, e a turno tutti bevvero.
Che caldo,” si lamentò Rosat, che si stava togliendo di dosso gli schizzi di calce con uno straccio umido. “Non lo sentono quegli stronzi dei musi rossi?”
Quelli vengono dall’inferno,” replicò Tacker, “è normale che non lo sentono.” Fece una pausa, poi in tono cupo proseguì: “Lo sapete cos’hanno fatto nella zona di Fort Davis?”
Gli altri si scambiarono un’occhiata. “No, che cosa?” volle sapere Hayner.
Hanno catturato una ragazza, se la sono tenuta al campo per qualche giorno, dandole da mangiare e facendole credere che erano tutti grandi amiconi, poi a un certo punto l’hanno presa, l’hanno spogliata, l’hanno appesa per le braccia e sotto i piedi le hanno acceso un fuoco. Intanto, la colpivano con le lance e con dei rami incendiati.” Fece girare lo sguardo sull’allibita platea, poi concluse: “L’hanno fatta durare un bel po’, prima di ammazzarla, e più urlava, più si divertivano.”
Al racconto seguì un lungo silenzio. Infine, il caporale Maybrey commentò: “Selvaggi senza Dio. Ha ragione il generale Sheridan: gli unici indiani buoni sono quelli morti.” Si alzò in piedi, poi ammonì: “Ricordatevelo sempre, ragazzi: tenete l’ultimo colpo per voi, se non volete fare la stessa fine. E ora forza, tornate al lavoro.”
Rispose un coro di grugniti di disappunto, ma i soldati si alzarono e tornarono intorno alle impalcature.
Rosat andò su, e dopo un po’ Halloran riempì un altro secchio di malta e a sua volta si arrampicò sulla malferma scaletta che portava alla torre. Trovò il commilitone intento a scrutare l’orizzonte. Guardò a sua volta: con il sole calante, le alture che circondavano il forte prendevano una tonalità livida, mentre gli arbusti che le ricoprivano diventavano grovigli neri. Sui crinali, dove arrivavano gli ultimi raggi, le pietre avevano un caldo colore rossastro, screziato di miele e oro. Il cielo aveva perso il bianco da vecchio lenzuolo che assumeva nella calura del meriggio per diventare una sontuosa cappa di turchese cupo, punteggiata qua e là delle prime stelle.
L’aria finalmente era fresca e profumata di erbe selvatiche.
Rosat si voltò verso di lui e disse: “Ancora non rientrano.”
Dove sono andati?” chiese il ragazzo.
L’altro si strinse nelle spalle. “Giro largo. Dopo quello che è successo, bisogna far vedere ai musi rossi che non scherziamo.”
Vuoi dire fino al Sand Creek?”
Anche oltre, penso. Secondo me, torneranno che fa buio.” Fece una pausa, poi in tono lugubre soggiunse: “Se tornano.”
Il ragazzo non rispose. Che con gli Apache non fosse il caso di scherzare l’aveva imparato il primo giorno della sua assegnazione a Fort Hope: era stato aggregato a una pattuglia addetta al recupero di tre cadaveri. Sulle prime era rimasto abbastanza tranquillo: aveva già visto qualche cadavere nella sua vita, e non lo avevano particolarmente impressionato. Gente che sembrava addormentata, più che altro, oppure corpi avvolti nei sudari, mere sagome bianche che gli avevano suscitato solo una vaga, triste curiosità.
La pattuglia era stata un’esperienza del tutto diversa.
Non riusciva a ricordare se in quell’occasione aveva più pianto o vomitato. Sapeva solo che aveva fatto entrambe le cose fin quasi a soffocarsi.
Aveva visto corpi straziati, con mutilazioni inimmaginabili. Sulle prime aveva addirittura fatto fatica a capire che si trattava di esseri umani, poi aveva riconosciuto qualche brandello insanguinato dei pantaloni azzurri con la banda gialla, l’unica parte dell’equipaggiamento che gli indiani non si erano portati via.
Ricordava solo che a un certo punto qualcuno lo aveva spinto su un cavallo, e quando era tornato in grado di capire cosa stava succedendo era già tra le mura bianche di Fort Hope.
La voce di Rosat lo distrasse dai suoi pensieri: “Eccoli là. E sembra che ci siano tutti.”
Il ragazzo guardò a sua volta e vide stagliarsi contro il cielo che andava scurendosi una lunga fila di cavalieri. “Meno male,” sospirò.
Dal basso giunse la voce di Maybrey: “Cosa vedi, Rosat?”
Ci sono tutti, caporale.”
Prima che il graduato avesse modo di rispondere, qualcuno disse: “Allora si vede che si sono tenuti lontani dagli Apache.” Seguì qualche risata.
Dopo un po’ arrivò un’altra domanda: “C’è anche il Dixie?”
Stanno rientrando tutti, quindi sì, c’è anche lui.”
Ci furono delle imprecazioni. “Mai che i musi rossi ammazzino quello giusto,” grugnì qualcuno.
Silenzio!” ordinò il caporale.

Halloran corse giù e si diresse verso il piazzale. “Dove vai, Bonnie?” gli gridò dietro qualcuno, ma lui non ci fece nemmeno caso. Arrivò che stavano aprendo il portone.
Il primo a entrare fu il sergente Burt. Era coperto di polvere dalla testa ai piedi, tanto che l’uniforme sembrava più grigiastra che blu. Il suo cavallo trascinava gli zoccoli come se avesse avuto dei ferri fatti di piombo. Dietro di lui, il resto della pattuglia non era in condizioni migliori.
Solo l’ultimo della fila si teneva dritto in sella, con la testa alta e lo sguardo fisso in avanti. La cosa non lo stupì: conosceva quel soldato praticamente solo di vista, ma sapeva dalle chiacchiere dei commilitoni che nemmeno il sergente O’Rourke, che era il terrore di Fort Hope, era mai riuscito a coglierlo in fallo una volta.
Lui non dava confidenza a nessuno, riservando a chiunque solo una distaccata cortesia, e gli altri di sicuro non lo amavano.
Qualcuno gli tolga quel fottuto bastone dal culo,” brontolò infatti un soldato alle spalle del ragazzo.
Sempre con quel merdoso atteggiamento da primo della classe,” replicò un altro. “Io vorrei sapere chi cazzo crede di essere.”
Ah, lascia perdere. Quello stronzo pensa di stare ancora con il generale Lee.”
A voce più alta, un altro lo apostrofò: “Ehi, Dixie, da quella parte per Gettysburg!”
Seguirono delle risate.
Halloran fissò l’oggetto di quei lazzi. Inquadrato nei ranghi, il soldato non poteva ovviamente reagire, tuttavia notò che aveva irrigidito ulteriormente la postura e stretto le dita sulle redini.
Che c’è, Dixie, ti mancano i campi di cotone?” lo provocò qualcun altro.
Di nuovo, tutti risero.
Silenzio!” sbraitò a quel punto il sergente Burt. “Sembra di stare al circo, nella gabbia delle scimmie!”
Le risate si affievolirono fino a cessare, e gli unici rumori rimasero lo scalpiccio degli zoccoli e lo scricchiolio dei finimenti di cuoio.
Halloran rimase fermo a seguire con lo sguardo la colonna che si allontanava. Anche nella luce ormai scarsa, si notava la differenza di postura tra il soldato che chiamavano Dixie e gli altri. Considerò che non sapeva nemmeno il suo vero nome, dal momento che anche i graduati si rivolgevano a lui in quel modo.
In quel momento, una voce lo riscosse: “Bonnie! Datti una mossa e vieni qui!”
Si voltò: il soldato Tacker lo stava chiamando con ampi gesti. “Credi di aver finito? C’è da sistemare la roba prima del rancio.”
Halloran lanciò un’ultima occhiata alla colonna, poi corse via.

§

Il ragazzo sollevò il coperchio della propria cassetta e ne estrasse la scatola di latta che conteneva il lucido, la spazzola e uno straccio, poi si sedette sulla branda, si sfilò gli stivali e cominciò a lucidarli.
Si sentiva tranquillo, perché nessuno faceva caso a lui, e nessuno lo prendeva in giro chiamandolo con l’umiliante soprannome di Bonnie, o lo provocava con allusioni oscene.
I quattro veterani del plotone, che in virtù della loro anzianità di servizio avevano diritto all’uso del tavolino, stavano facendo una partita a poker. Altri sistemavano il proprio equipaggiamento, chi sapeva farlo scriveva lettere, per sé o per i commilitoni. Seduto sull’ultima branda della fila, la faccia rivolta alla parete, il soldato che chiamavano Dixie aveva steso sulla sua cassetta un telo più bianco di una tovaglia da tè. Accanto a sé, sulla branda, aveva un flacone di olio per armi, uno scovolo e uno straccio.
Prese la sua carabina, e per prima cosa controllò che non avesse il colpo in canna. Successivamente sbloccò il fermo sul calcio ed estrasse il caricatore tubolare, che posò sul telo. Poi vi appoggiò anche l’arma, prese lo straccio, lo spiegò, lo scosse, lo ripiegò meticolosamente in quattro e lo imbevette di olio per armi. Mise anche quello sulla cassa, la parte con l’olio verso l’alto, con l’aria di chi posiziona un dessert particolarmente gustoso accanto al proprio coperto.
Ehi, Dixie!” urlò qualcuno a questo punto. “Che fai con quell’altarino, vuoi dire messa?”
L’uomo rimase impassibile. Prese la carabina, infilò lo scovolo nella canna e cominciò a farlo andare su e giù.
Sarà il suo modo di scopare,” commentò qualcun altro, di nuovo senza ottenere la più piccola reazione.
Il soldato continuò a pulire l’arma come se i commilitoni semplicemente non esistessero. Oliò accuratamente tutte le parti metalliche, le ripassò con un panno pulito, quindi provò due o tre volte il meccanismo di estrazione, fino a che esso non funzionò in modo perfettamente fluido.
Fatto questo riabbassò con cautela il cane, inserì nuovamente il caricatore e la appese al gancio accanto alla branda.
Quando la carabina fu al suo posto, Halloran ebbe l’impressione di essere un bambino al quale di colpo era stata sottratta la lanterna magica. Aveva visto pulire una Spencer 1865 migliaia di volte, ma mai con quella solennità quasi mistica.
Sbatté gli occhi e si accorse di avere ancora lo stesso stivale fra le mani, ormai lucidissimo. Lo posò e si alzò dalla branda, poi mosse qualche esitante passo verso il commilitone. Si fermò occhieggiandolo speranzoso, ma l’altro non diede segno di essersi accorto di lui.
Il ragazzo allora fece qualche altro passo.
A quel punto il soldato alzò la testa e lo fissò serio. Halloran lo fissò a sua volta, rendendosi conto che non l'aveva mai fatto così da vicino: poteva avere sui trentacinque anni, aveva la fronte alta e gli occhi chiari, e in generale lineamenti fini, che gli parvero fuori posto in quella camerata chiassosa. Lo sguardo era freddo, vagamente malinconico.
Il ragazzo si schiarì la gola, di colpo stranamente intimidito, e disse: “Salve, io sono...”
Halloran,” lo interruppe l’altro con distacco. “So chi sei.”
Il più giovane si sentì avvampare come se avesse appena fatto qualcosa di molto sconveniente. Si schiarì di nuovo la gola e proseguì: “E… e tu sei…?”
Finch.”
Oh, ehm…” Halloran prese il coraggio a quattro mani. “Finch, e poi?”
L’altro lo fissò dritto negli occhi, poi rispose: “Non devi finire di lucidare gli stivali, Halloran?” Il tono era quieto, distaccato.
Nonostante la pacatezza della replica, il ragazzo arretrò come se avesse appena ricevuto un pugno. Boccheggiò in cerca di una risposta, ma non riuscì a trovarla.
In quel momento, Hayner annunciò: “Ragazzi, tra un po’ è il quindici.”
A quelle parole, Adams alzò la testa dal mazzo di carte e brontolò: “Il solito uccellaccio del malaugurio.”
Prenditela con il calendario, non con me,” replicò l’altro, stringendosi nelle spalle.
Vaffanculo, mi stavo godendo la partita, stavo anche spennando Hartwood. Ti sembra il caso di tirare fuori certi argomenti?”
Comunque il quindici arriva,” replicò Hayner imperterrito, “E a qualcuno toccherà la corvè.”
Ah, merda,” imprecò Rosat dalla sua branda, sollevando lo sguardo da una consunta collezione di fotografie osé. “A me non tocca di sicuro, io me la sono già beccata il mese scorso.”
Tacker ghignò. “Ma certo, il signore ha già dato. Dipende da quello che decide O’Rourke, idiota. C’è gente che se l’è fatta tre volte di seguito.”
Tre volte?” chiese qualcuno dal fondo della camerata. “E ha portato a casa la pelle?”
Puoi chiederglielo: è Charles Maize del Plotone B. Vacci piano però, perché dopo l'ultima gli si è un po' squinternata la testa.”
L’argomento riscuoteva il generale interesse e dopo un po’ tutto il plotone, a parte Halloran e Finch, era riunito intorno al tavolo da gioco. Le carte vennero abbandonate.
Io dico che quell’avamposto andrebbe lasciato agli avvoltoi,” proclamò Hartwood con tono da rivoluzionario. “È in mezzo al territorio degli Apache, non puoi neanche andare a cagare senza portarti dietro il fucile, e devi guardare anche sotto i sassi per vedere se c’è un muso rosso nascosto. Ma che cazzo lo tengono a fare, dico io!”
Per far vedere agli Indiani che abbiamo le palle,” fu la risposta di Tacker. “Se no quei bastardi ci pisciano in testa.”
Veramente ci pisciano già in testa,” brontolò Rosat.
La discussione andò avanti per un po’. Alla fine Hayner impose il silenzio con un gesto, quindi in tono solenne concluse: “E comunque, la faccenda è sempre la solita: tra un po’ è il quindici. Parte la roba per Coyote Point, e qualcuno dovrà andare a scortare il carico. Ma la domanda è: chi sceglierà O'Rourke?”
'Fanculo, me no di sicuro,” brontolò Adams.
E perché no? Chi sei, il più bello?” Gli altri risero.
Non ho preso punizioni.” Raccolse le carte e le fissò intensamente, come a far capire che desiderava riprendere la partita.
Hayner, imperterrito, disse: “Ah, se bastasse non prendere punizioni, sarebbe facile. Anche se fossimo tutti angioletti scesi dal cielo, in quindici una ventina di noi dovrà partire.”
Vaffanculo, Hayner,” brontolò Rosat dalla sua branda, “Non si possono neanche guardare le fotografie in pace, quando ci sei tu in giro.”
Fatti delle seghe finché puoi,” lo rimbeccò l'altro, “perché se gli Apache ti beccano, la prima cosa che ti tagliano è il cazzo.”

§

Appoggiato al parapetto della torre est, la carabina sulla spalla, Halloran scrutava nel buio. Era una notte senza luna, e guardare fuori dava l’impressione di fissare un sipario di velluto nero: non si vedeva niente, e si immaginavano un sacco di cose.
Tese l’orecchio, ma l’unico suono che si udiva era il frinire monotono di qualche insetto.
L’aria era immobile, come in attesa di qualcosa.
Mosse qualche passo su e giù, facendo scricchiolare le assi del pavimento. Nonostante i recenti lavori di ripristino, nella postazione era rimasto un vago odore di bruciato, che si mescolava con quello di resina e vernice delle travi nuove.
Si sistemò meglio la cinghia del fucile sulla spalla e si passò un dito nel colletto dell’uniforme, che gli grattava la pelle delicata del collo. Di nuovo rivolse lo sguardo al deserto, ma non percepì altro che quiete.
Alle sue spalle, la vita del forte si svolgeva ordinata. Udì il richiamo di Adams dalla torre nord, e girandosi verso l'edificio del comando scorse attraverso la finestra aperta il maggiore Lane, che approfittando del fresco lavorava nel suo studio.
Tornò ad appoggiarsi al parapetto, sistemandosi come aveva visto fare ai veterani, in modo che il fucile sulla spalla non gli pesasse troppo, e per un po' rimase fermo, con lo sguardo che galleggiava nel velluto nero come una barca alla deriva.
Ripensò al soldato Finch. Anche lui in un certo senso era un sipario, dietro cui si indovinava l'esistenza di molto altro. Nessuno a Fort Hope poteva vantare un passato limpido, fare il soldato normalmente era l'unica alternativa alla fame o alla galera, ma quel Finch gli dava un'impressione strana: era come se al tempo stesso fosse nel suo elemento e fuori posto, come un libro nello scaffale sbagliato.
Non riuscì ad andare oltre nei suoi ragionamenti: udì dei passi pesanti sulle scale, e un attimo dopo la voce di Adams annunciò: “Ti do il cambio, Bonnie.”
Il più giovane si limitò a uno scarno: “Niente da segnalare.” Raccolse il cappello, si sistemò per l'ennesima volta la cinghia della carabina sulla spalla e scese per tornare in camerata.

Arrivò al piazzale, lo attraversò e si diresse verso l'edificio delle camerate, già pregustando il momento in cui avrebbe finalmente appeso al gancio quel maledetto fucile e si sarebbe infilato sotto le coperte, per godersi almeno qualche ora di sonno.
Era ancora immerso nei suoi pensieri quando si sentì afferrare e trascinare indietro. Istintivamente si divincolò, ma prima che potesse chiamare aiuto, una mano pesante gli tappò la bocca. “Non ti agitare, Bonnie,” gli sussurrò all'orecchio la voce di Perkins, “o dovrò farti male.”
Il ragazzo si tese per cercare di liberarsi, ma la presa dell'altro gli mozzava in respiro. Mugolò come poteva.
Sta' zitto,” ringhiò il commilitone, stringendolo così forte che Halloran sentì le costole scricchiolare, “non ci metto niente a tirarti il collo.”
Lo sbatté con le spalle contro una parete e in un attimo gli fu addosso. “Ora farai il bravo con me,” ansimò contro di lui, “farai quello che ti dico, e poi te ne portai tornare dentro come se niente fosse.” Fece una breve risata, poi soggiunse: “Non è quello che hai sempre fatto, Bonnie?”
Spaventato e disgustato, Halloran si divincolò di nuovo. “Lasciami!” inveì.
Avanti, lo sappiamo tutti cosa facevi prima di venire qui. Magari dopo ti do anche un quarto di dollaro, eh? Così ti sembrerà di ritornare ai vecchi tempi.”
Lasciami stare!” protestò il ragazzo, ma prima che potesse aggiungere altro, un pugno all'addome gli mozzò il respiro.
Ti avevo detto di stare zitto,” disse Perkins con il tono di un maestro che sgrida un allievo un po' tardo. “Ora sarò costretto a farti davvero male.”
Il ragazzo sentì la sua grossa mano circondargli il collo. La presa cominciò a stringersi, lenta e inesorabile come una morsa. Gli afferrò il polso, ma era come cercare di spostare una sbarra di ferro.
Aprì la bocca per gridare, ma riuscì solo a emettere un specie di rantolo. Davanti agli occhi cominciarono a comparirgli puntini luminosi.
A quel punto, qualcuno disse: “Lascialo.” Era una voce distaccata, quasi cortese, nella quale si indovinava però un'imperiosità inflessibile.
Senza abbandonare la presa, Perkins si girò in quella direzione. In tono minaccioso chiese: “E tu che cazzo vuoi, Dixie?”
Pacata, giunse la risposta: “Voglio che tu lasci stare il ragazzo.”
L'altro sogghignò. “E se io decidessi che non mi va?”
Sarò costretto a farti male.”
Ci fu qualche secondo di silenzio teso, poi Perkins emise una breve risata e si erse in tutta la sua rispettabile mole. “Voglio proprio vedere come farai,” disse in tono di scherno.
Un istante dopo, Halloran percepì il rumore secco di carne che colpiva altra carne, e poi un gemito soffocato. La mano che gli stava stingendo il collo scomparve, ed egli si ritrovò seduto per terra ad ansimare a bocca aperta, con una mano sulla gola e il corpo scosso da tremiti.
Il tramestio proseguì per un po', infine udì la voce di Perkins che in tono minaccioso ammoniva: “Non finisce qui.”
I suoi passi pesanti si allontanarono nel buio.
Poi silenzio. Il ragazzo si guardò intorno, ma non c'era più nessuno. “Finch?” chiamò con voce sommessa.
Non gli giunse risposta.
Si alzò adagio, puntellandosi alla parete, e di nuovo si passò la mano sul collo indolenzito. “Finch, sei qui?” chiese. Attese quasi mezzo minuto, infine avvilito mormorò: “Se n'è andato.”
Raccolse la sua carabina, che nel trambusto era caduta per terra, e si incamminò a testa bassa verso le camerate.

§

Il poligono di tiro si trovava appena fuori dal muro di cinta del forte, in un avvallamento naturale delimitato da irregolari creste di roccia.
Nel fondo di quel catino arroventato dal sole era stata ricavata una linea di tiro, con le piazzole contrassegnate da piramidi di sassi poste a intervalli regolari. A una distanza di circa cinquanta iarde da esse era stata scavata una trincea che tagliava trasversalmente lo spiazzo, e oltre quella si trovavano i bersagli, ovvero tavole di legno su cui erano stati dipinti dei disegni a cerchi concentrici rossi e bianchi, oppure delle rozze sagome di cavalieri in nero.
Un ginocchio nella polvere, rintronato dall'eco degli spari contro le pareti della conca, Halloran cercò di imbracciare la carabina più strettamente possibile. Inquadrò il bersaglio nel mirino, inspirò lentamente, trattenne il fiato per un paio di secondi e tirò il grilletto cercando di non strappare. Il crepitare secco dello sparo gli fece fischiare l'orecchio, e il rinculo dell'arma contro la spalla lo fece mugolare di disappunto.
Dalla trincea si alzò lentamente una bandierina rossa.
Guarda nel mirino, idiota!” abbaiò la voce di Keane alle sue spalle.
Sì, sergente,” rispose meccanicamente il ragazzo, quindi azionò la leva di eiezione e mise un altro colpo in canna.
Sparò, e di nuovo si alzò la bandierina rossa.
Halloran emise un sospiro, posò l'arma accanto a sé e si asciugò il sudore dalla fronte con la manica dell'uniforme.
La voce del sergente lo fece letteralmente sussultare: “Che cazzo stai facendo? Raccogli subito quella carabina.”
Il ragazzo si affrettò a eseguire l'ordine. Si posizionò di nuovo l'arma contro la spalla, mise il colpo in canna e cercò di rilassare i muscoli intorpiditi. Inspirò ed espirò un paio di volte, facendo del suo meglio per ignorare il caldo, il rumore e la scomodità, poi tirò il grilletto più lentamente che poté.
Finalmente si alzò una bandierina bianca.
Continuò a sparare fino a che il sergente non gli ordinò di abbandonare la postazione. A quel punto scaricò l'arma, se la mise a spall'arm e arretrò fino a una zona all'ombra. Lì si sedette su un sasso e rimase a osservare gli altri.
Cercò con lo sguardo Finch: il soldato era in una piazzola poco distante da quella che aveva occupato lui. Teneva una posizione impeccabile, e imbracciava il fucile come se non avesse mai fatto altro nella vita. Sparava con calma, un colpo dopo l'altro, ripetendo sempre gli stessi misurati movimenti, e ogni volta si alzava dal fossato la bandierina bianca.
Halloran appoggiò i gomiti sulle cosce e il mento tra le mani, poi emise un sospiro. Erano passati ormai tre giorni da quando Finch l'aveva difeso, ma non era ancora riuscito a ringraziarlo per il suo aiuto.
Non che le occasioni fossero mancate: sembrava piuttosto che fosse l'ombroso commilitone a non voler avere a che fare con lui.
Di nuovo il sergente diede un ordine, e la squadra che stava sparando si preparò ad abbandonare le postazioni. Finch si alzò in piedi, si spazzolò con le mani l'uniforme imbiancata di polvere, si mise il fucile in spalla e si diresse calmo verso la zona d'ombra. Una volta lì, si sedette su un sasso e si tolse il cappello, poi si passò una mano fra i capelli chiari.
Halloran prese la propria borraccia e gli si avvicinò cauto. Aspettò che l'altro rivolgesse lo sguardo su di lui, poi gliela porse. “Vuoi bere?” gli chiese.
Finch aggrottò appena le sopracciglia, il ragazzo stabilì che sembrava stupito, più che irritato. Continuò a tendergli la borraccia.
Alla fine l'altro allungò una mano e prese il recipiente. “Grazie,” gli disse, poi lo portò alle labbra e bevve.
In quel momento si levarono scomposti clamori dalle linee di tiro. “Guardate qua!” stava gridando il soldato Tacker, “Più stretta di una vergine!”
Halloran si girò a vedere cosa stavano facendo, poi tornò a voltarsi verso Finch. “Parlano della tua rosata,” disse. Si accorse di sentirsi quasi in imbarazzo per la trivialità del paragone.
Il sergente Keane raggiunse il chiassoso gruppo. Osservò il bersaglio e sollevò meravigliato le sopracciglia. “Chi ha fatto una cosa del genere?” volle sapere.
Tacker si erse tronfio: “Io.” Fece girare lo sguardo tutt'intorno, come sfidando i presenti a contraddirlo, e infine lo fissò su Finch. Questi si limitò a rivolgergli uno sguardo indifferente.
Io!” ripeté allora il primo. “Ve l'avevo detto che oggi ero in gran forma!” Si allontanò seguito da una torma di militari acclamanti.
Senza parole per lo stupore, Halloran rivolse lo sguardo al gruppetto, e poi di nuovo a Finch. Questi si limitò a restituirgli la borraccia, poi gli girò leggermente le spalle, tirò fuori dalla tasca interna della giacca un piccolo portadocumenti di cuoio decorato con un monogramma dorato, ne estrasse delle carte scritte a mano e cominciò a sfogliarle adagio, con la cautela affettuosa di chi tocca un oggetto molto fragile e molto prezioso.

§

Halloran buttò giù l'ultimo boccone di manzo salato e cercò di masticarlo il minimo necessario per non farselo rimanere incastrato in gola, poi ci bevve dietro una tazza d'acqua, ma gli rimase in bocca il sapore di rancido della carne mal conservata. Emise un sospiro: l'unica cosa che rimpiangeva della sua vita precedente era il mangiare, anche se probabilmente persino quello che mangiavano gli Apache era meglio del rancio di Fort Hope.
A un certo punto sentì qualcuno dire: Ehi, Dixie, chi cazzo sei, la regina d'Inghilterra?”
Guardò verso il fondo della tavolata, e vide Finch che sedeva come al solito dritto e composto. Teneva i gomiti aderenti al corpo, e le posate in punta di dita. Aveva addirittura il tovagliolo sulle ginocchia.
Un altro soldato gli disse qualcosa, ma lui rimase perfettamente impassibile. Si forbì anzi la bocca con gesto elegante, quindi ripiegò il tovagliolo e se lo mise in tasca, poi appoggiò le posate sul piatto di latta come un conte avrebbe appoggiato l’argenteria su un piatto di porcellana finissima.
Il ragazzo raccolse la scodella ammaccata, vi aggiunse la tazza d’acciaio e consegnò tutto al cuciniere, quindi uscì dalla mensa. Stava calando la sera, e il plotone era sparso qua e là a gruppetti. Alcuni fumavano e giocavano a carte, altri chiacchieravano dell'imminente missione a Coyote Point, facendo pronostici su chi sarebbe stato scelto per far parte della scorta.
Vide uscire Finch, che come al solito evitò il contatto con gli altri, si sedette vicino alla finestra della fureria per sfruttarne la luce, e tirò fuori le sue carte.
Il ragazzo rimase per un po' a guardarlo incuriosito: l'uomo stava leggendo un foglio un po' macchiato, con gli angoli consumati. Quando ebbe finito lo ripiegò con cura e lo rimise nel portadocumenti. Successivamente tirò fuori alcune fotografie e le scorse adagio, soffermandosi per qualche secondo su ognuna di esse.
A quel punto, Halloran si mosse verso di lui. L'altro alzò la testa e gli rivolse uno sguardo interrogativo.
Io...” Il ragazzo deglutì senza sapere bene cosa dire. Si mosse esitante da un piede all'altro. “Io, ecco...”
Finch continuava a guardarlo serio.
Halloran fece per dire qualcosa, ma si accorse che l’espressione dell’altro si era fatta d’improvviso tesa. Si guardò intorno e vide che il cortile era stranamente deserto.
Vattene,” sibilò Finch, ma non fece in tempo ad aggiungere altro: una figura poderosa uscì dalle tenebre e gli si lanciò addosso, facendolo crollare al suolo. Tutte le carte e le fotografie che aveva in mano si sparsero in giro.
I due rotolarono avvinghiati, poi si rialzarono, e Halloran vide che l’aggressore era Perkins. Dal buio però uscirono a dargli man forte altri due, della sua stessa taglia.
Finch si mise in guardia, l’altro si fece avanti con un diretto destro. Il primo riuscì a schivarlo, ma uno degli altri due lo afferrò da dietro e lo sbilanciò, costringendolo a rompere la sua posizione difensiva, cosa che permise a Perkins di colpirlo con un pugno all’addome. Egli emise un gemito soffocato, subito un altro gli fu addosso colpendolo con un gancio alla mascella. Finch però riuscì ad allontanare Perkins con un calcio, poi si scrollò di dosso il soldato che lo stava tenendo per le braccia, si girò e lo colpì al mento con un montante, poi balzò indietro, ma finì contro il terzo dei suoi aggressori, che gli passò le braccia sotto le ascelle e gliele intrecciò dietro la nuca, poi lo sbilanciò indietro con l’intenzione di bloccarlo. Finch si abbassò, scivolando via dalla presa, quindi si girò fulmineo e sferrò un gancio all’avversario, facendolo crollare al suolo.
Dopo il primo attimo di sorpresa, Halloran cercò di dare man forte al commilitone, ma immediatamente un pugno lo spedì gambe all’aria con la sensazione che gli fosse crollata addosso una casa.
Si rialzò incerto, scrollando la testa per cercare di recuperare la lucidità, e gli fu chiaro che la sua unica speranza di far cessare lo scontro era cercare un graduato.
Corse all'edificio del comando. “Sergente Keane!” cominciò a chiamare, prima ancora di averlo raggiunto, “Sergente, dovete venire subito!”
L'uomo comparve sulla soglia in maniche di camicia. “Che diavolo hai da sbraitare, Halloran?”
Si stanno picchiando!” ansò il ragazzo.
Chi si sta picchiando?”
Il soldato Finch è stato...” cominciò Halloran, ma l'altro in tono duro lo interruppe: “Sempre quel maledetto Dixie, dannazione a lui.”
Prima che l'altro potesse replicare, scomparve nella baracca, e ne uscì un attimo dopo col berretto in testa, abbottonandosi la giubba. “Andiamo,” disse conciso. “Portami da quel piantagrane.”

I quattro stavano ancora lottando furiosamente. Finch era addossato a un muro, e gli altri tre gli si accanivano contro. Gli unici suoni che si udivano erano il tramestio dei piedi e il rumore delle percosse, accompagnato di tanto in tanto da qualche gemito soffocato.
Il sergente fissò per qualche secondo i contendenti con i pugni puntati sui fianchi, poi sbraitò: “Per tutti i diavoli! Cosa accidenti sta succedendo qui?” Avanzò di un paio di passi, poi proseguì: “Dixie! Specie di idiota, che cazzo ti credi di fare?”
Ansanti e sanguinanti, gli uomini si immobilizzarono. Perkins fece un passo indietro, poi disse: “Mi ha aggredito, sergente. Mi ha chiamato sporco Yankee e poi mi è saltato addosso.”
Il sottufficiale si voltò verso Finch. “È vero quello che dice?” lo apostrofò in tono rude. Il soldato si limitò a far girare sugli aggressori uno sguardo sprezzante.
Non rispondi, brutto idiota?”
L’altro continuò a tacere.
Il graduato annuì con l’aria di chi non si sarebbe aspettato niente di diverso. “Ma certo,” disse, “dovevo immaginarlo. Tutti così, voialtri del sud, altezzosi come puttane d'alto bordo. Credete di essere ancora in mezzo ai vostri campi di cotone, con gli schiavi negri e il mint julep [1] ghiacciato da bere.” Poi, a voce più alta: “Per questa notte finite tutti in cella di rigore, poi domani sarà il maggiore Lane a decidere cosa fare di voi.”
Ma sergente!” protestò con fare indignato Maize, uno dei due che avevano dato man forte a Perkins, “Noi siamo stati provocati!”
E allora avreste dovuto chiamare me, invece di picchiarvi come selvaggi.”
Ma...”
Tutti in cella, marsch!”
Halloran rimase fermo a fissare i soldati che venivano spinti via, e quando fu di nuovo solo si guardò intorno: le carte di Finch erano sparse dappertutto. Alcune erano state calpestate, ed erano spiegazzate e sporche.
Si chinò e cominciò a raccoglierle, ripiegò i fogli e sistemò le fotografie. Per una sorta di strano pudore cercò di guardarle il meno possibile mentre lo faceva, ma intravide comunque delle figure femminili in vaporosi abiti di tulle e una villa tutta bianca con la facciata ornata di colonne. C’era anche un uomo in uniforme, ritratto sullo sfondo della bandiera confederata.
Ripose tutto nel portadocumenti, che era di marocchino fine, anche se ormai rovinato e stinto. Guardò l’elegante monogramma, ancora dorato in alcuni punti: CFH. La F doveva essere quella di Finch, ma per cosa stavano le altre due lettere?
Si infilò la piccola cartella nella tasca interna della giacca e richiuse accuratamente i bottoni. Si guardò intorno dopo averlo fatto, come per accertarsi che nessuno l’avesse visto appropriarsi di quello strano tesoro, poi si diresse rapido in camerata.







[1] Cocktail bevuto negli Stati del sud, tradizionalmente fatto con ghiaccio tritato, bourbon, rametti di menta fresca e zucchero. Si serve in un’apposita coppa d’argento.

   
 
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