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Tante cose erano
cambiate, nel corso di quei dieci lunghi anni. Anni difficili, anni in
cui il peso delle sue scelte le era sembrato insostenibile; ma anni
anche ricchi di gioia e significati.
La sua vita era stata stravolta quello stesso giorno di dieci anni
prima, quando aveva ripescato il leggendario re Artù dal
lago di Avalon, eppure se ne avesse avuto la possibilità non
avrebbe fatto nulla di diverso.
«Alex?».
La donna dai corti capelli biondi si voltò verso quella voce
familiare e provò una piacevole stretta al petto nel
realizzare che no, non si era sbagliata. Un ragazzo allampanato sui
venticinque anni, con una zazzera di ricci scuri e un paio di occhi
castani incastonati in un viso un po' spigoloso ma bello, la stava
fissando con un misto di incredulità e divertimento. Fu quel
sorriso sbilenco, infatti, a farle capire che era proprio lui, dedito e
leale come il primo giorno.
«Sì Mark, sono io».
Il ragazzo, conosciuto una vita fa tra i corridoi del reparto di
oncologia infantile, abbassò il mazzo di fiori che aveva tra
le mani e le corse incontro per stringerla in un abbraccio soffocante.
Mettendosi sulle punte dei piedi Alexandra riusciva a malapena a vedere
oltre la sua spalla.
«Sei diventato un gigante», gli disse, sfregandogli
una mano sulla schiena.
«Lo prendo come un complimento».
Si guardarono negli occhi e l'ex-infermiera gli sorrise teneramente.
«Lo è».
Mark ricambiò, ma ben presto l'euforia di averla rivista
dopo così tanto tempo scemò per fare spazio ad un
altro sentimento: la preoccupazione.
«Ma che cosa ti è successo?», gli
chiese. «Perché sei sparita così
all'improvviso?».
«Cathleen non ti ha dato la tua lettera?».
«Sì, l'ha fatto. L'ho letta e riletta centinaia di
volte e non sono mai riuscito a capire. Dove sei stata per tutti questi
anni?».
Alex sospirò e tornò a guardare i raggi del sole
del mattino che brillavano sulla superficie di Avalon: l'isola al
centro del lago non era mai stata così nitida, la sua torre
era tornata allo splendore originale e la magia che percepiva sulla
pelle e nelle ossa, sotto forma di lievi scosse elettriche, era come un
balsamo per la sua anima tormentata. Le sue rinunce non erano state
vane.
«Sei sicuro di volerlo sapere?», gli
domandò alla fine. «Il tuo appuntamento con
Abby...».
Mark sorrise mestamente, abbassando gli occhi sul mazzo di fiori.
«Abby non va da nessuna parte, lo sai».
Alexandra diede un'occhiata alle sue spalle, verso i sedili posteriori
della propria auto, e trovando sua figlia ancora addormentata cedette:
infilò il braccio sotto quello che il ragazzo le aveva
offerto e andarono a sedersi sulla panchina più vicina.
***
«E così è arrivato il grande
giorno».
Artù non si voltò, ma abbozzò un
sorriso quando Cathleen gli avvolse le braccia intorno al torace e
posò il capo contro la sua spalla. Riusciva a vedere il loro
riflesso sul vetro della finestra davanti alla quale era rimasto per
ore, ad osservare il mare e a pensare a quei dieci lunghi anni.
Quant'erano cresciuti e cambiati... insieme.
Se qualcuno gli avesse mai detto che sarebbe andata a finire
così, che avrebbe avuto una seconda possibilità,
una seconda vita, non ci avrebbe mai creduto. Nonostante le
difficoltà, i rimpianti e i dolori che inevitabilmente ogni
tanto tornavano a galla, il tempo trascorso al fianco di Cathleen e
della famiglia che si erano costruiti era stato il più bello
e felice di tutta la sua esistenza.
«Dove sono i bambini?».
«In piscina con le gemelle».
Artù si voltò, senza sciogliere l'abbraccio della
moglie, e posò le mani sui suoi fianchi mentre accostava la
fronte alla sua e le sussurrava dolcemente: «Ti amo, lo
sai?».
«Certo che lo so. E tu lo sai che se c'è qualcosa
che ti preoccupa puoi parlarmene, vero?».
L'ex-sovrano di Camelot abbozzò un sorriso intriso di
malinconia. «Merlino», rispose semplicemente.
Cathleen sospirò e si allontanò per fare qualche
passo in quella che un tempo era stata la biblioteca di suo padre e che
col passare degli anni era stata trasformata in un'aula: decine di
tavoli rotondi erano disseminati per l'ampia stanza e sulle pareti non
occupate dai libri erano appese mappe geografiche, tavole periodiche,
schemi di anatomia e poster che spiegavano la forza degli elementi. Sul
lato nord, come in ogni aula che si rispettasse, c'era una grande
lavagna nera su cui c'era ancora il brainstorming dell'ultima lezione,
scritto nella grafia striminzita e frettolosa di Elijah.
Tra quelle quattro pareti erano cresciuti tantissimi maghi e streghe
provenienti da tutti gli angoli del globo, condotti lì dallo
stesso druido - capace di individuarli con i suoi poteri di Vate -
oppure con una lettera di raccomandazione di Alexandra.
Ogni volta che ci pensava, l'ex-paramedico non poteva fare a meno di
paragonare la Residenza Shaw ad un misto tra Hogwarts e la scuola per
giovani dotati degli X-Men. Lì i ragazzi che dopo il ritorno
della magia si erano scoperti possessori del dono potevano vivere in
pace, in un ambiente protetto, e cosa più importante
imparavano a controllare i loro poteri, così da non esserne
spaventati.
La maggior parte di loro poi tornava a casa e riprendeva in mano la
propria vita, o almeno ci provava, ma c'era anche chi decideva di
rimanere, come avevano fatto Maureen e Doreen, Hanna e il
già citato Elijah, diventato professore e custode della
Residenza.
«E se non dovesse tornare?», aggiunse
Artù. «Se... se la Triplice Dea ci avesse
ingannati, divertendosi alle nostre spalle per tutti questi
anni?».
«No, non può essere», rispose finalmente
Cathleen, stringendo forte i pugni lungo i fianchi.
«Elijah...».
«Elijah ha solo visto che Alexandra sarà
là. Non ha mai predetto nulla sulle sorti di
Merlino».
La rossa si voltò e lo guardò col cuore spezzato:
da quando era tornato indietro dal limbo, risvegliandosi dal coma, e
aveva scoperto del patto stretto tra la Triplice Dea e Alex, non era
più stato lo stesso nei confronti dell'infermiera; era come
se il legame che avevano sempre avuto si fosse spezzato. Da allora
raramente aveva pronunciato il suo nome e nonostante Cath avesse
provato più e più volte a farlo ragionare, a
spiegargli che non aveva avuto alternative, Artù non aveva
mai cambiato atteggiamento.
Cathleen incrociò le braccia al petto, più per
confortarsi che come atteggiamento di chiusura, ed esclamò:
«Suppongo che tu non verrai, allora».
«Che cosa?».
«Se ce l'hai tanto a morte con Alex perché ha
cercato di salvarvi entrambi, allora non venire. Lei soffre
già abbastanza, non ha bisogno che tu la faccia sentire
peggio».
Artù ricambiò il suo sguardo con una nuova
determinazione, i pugni tanto stretti lungo i fianchi da farsi
sbiancare le nocche.
«Pensi che per me non sia stato doloroso far finta che non
esistesse?», gridò. «Sono stato
arrabbiato con lei per un paio di giorni, per ciò che aveva
fatto. Ma allontanarsi, andarsene lasciandomi una semplice lettera...
è questo che mi ha fatto più male. E lo so che
non poteva fare altrimenti, ma avrei preferito che mi affrontasse, che
mi dicesse addio».
«Addio? Era proprio quello che Alex sperava di non dover
fare! Noi ci siamo sempre tenute in contatto, e lo sai! Le cartoline
che mi ha inviato da ogni parte del mondo, le foto sue e di Enid... ho
provato a fartele vedere centinaia di volte, ma non hai mai voluto! E
anche quando riusciva a chiamarmi non hai mai voluto
parlarle!».
Ormai la rabbia la scuoteva come una foglia autunnale, pronta a
staccarsi dal suo ramo, ma il sorriso umido di lacrime di
Artù la colpì come un pugno dritto nello stomaco,
così forte e così inaspettato che fu costretta a
sedersi.
«Le ho viste tutte, Cathleen», confessò
con voce pacata. «Mentre dormivi, o ti occupavi dei bambini.
Le ho guardate e riguardate. E le ho anche parlato, una volta. Il
giorno del suo compleanno, nove anni fa».
Cathleen era talmente scioccata da non riuscire ad articolare una frase
di senso compiuto. Perché si era comportato in quel modo?
Perché fingere che Alex fosse morta, quando in
realtà...? All'improvviso le tornò alla mente suo
padre, il quale per venire a patti col dolore della sua assenza aveva
preferito raccontarsi la stessa bugia. Possibile che anche
Artù...?
Il marito le si avvicinò e prese una delle sedie intorno al
tavolo per sedercisi a cavalcioni, le braccia incrociate sullo
schienale e gli occhi fissi nei suoi.
«Ti sei mai chiesta perché ti chiamasse
così di rado?», le domandò gentilmente.
«Io... Pensavo fosse per via dei suoi spostamenti, o del suo
piano telefonico...».
Artù apprezzò la sua battuta con un altro
sorriso. «La verità è che sentire la
tua voce le ha sempre ricordato ciò che ha fatto, la vita a
cui ha rinunciato e quella che è stata costretta a fare per
colpa della magia. Se si è sforzata di portare avanti quelle
conversazioni è stato solo per te, perché sapeva
che tu ne avevi bisogno».
La verità le fece contrarre lo stomaco e Cathleen dovette
sforzarsi per non rimettere la colazione. Il solo ed unico re le
posò una mano sulla schiena e la invitò a posare
il capo sulla sua spalla.
«In quell'unica telefonata, nove anni fa, le ho detto che non
la odiavo per quello che aveva fatto e che, se mai avesse avuto bisogno
di me, io ci sarei stato», concluse Artù.
«Dopodiché abbiamo giurato di non sentirci
più, per non farci altro male».
Cathleen non aveva mai capito nulla, per questo si ritrovò a
singhiozzare senza ritegno, le mani strette sulle sue spalle.
Artù non disse niente, la consolò e basta,
baciandole i capelli.
Alla fine fu Elijah ad interromperli, bussando alla porta e sporgendosi
all'interno della biblioteca con metà del corpo. Indossava
un completo grigio elegante - pantaloni con la piega, camicia bianca e
panciotto - e i lunghi capelli color biondo slavato erano raccolti in
una coda sulla nuca. La barba ben curata, della stessa
tonalità dei capelli, lo faceva sembrare più
vecchio e saggio di ciò che era; bastava però
guardarlo negli occhi, vitali e sorridenti anche quando era serissimo,
per rendersi conto della sua vera età.
«È ora di andare», esclamò.
Artù lo ringraziò con un cenno del capo.
«Arriviamo».
Il druido socchiuse di nuovo la porta e quando si fu allontanato
Artù si alzò in piedi per prendere le mani della
moglie ed aiutarla a fare lo stesso.
Cathleen gli portò le mani sul viso, accarezzandogli le
guance ispide per via della barba che si era lasciato crescere negli
ultimi giorni, e raccogliendo la voce mormorò: «Mi
dispiace tanto. Ho sempre pensato di aver fallito...».
Artù le spazzò via le lacrime e le
posò un bacio sulla fronte. «Mai, amore
mio».
Trovarono Elijah vicino all'ingresso principale, accanto a Freddie,
l'immortale domestico a servizio della famiglia Shaw, a cui stava
dicendo che aveva affidato la sicurezza della Residenza ad Hanna.
Era vero che la vasta proprietà della famiglia di Cathleen
era abbastanza isolata - da una parte c'erano ettari di bosco,
dall'altro una scogliera a picco sul mare - ma non potevano rischiare
che qualcuno scoprisse la vera natura dei ragazzi molto speciali che le
numerose stanze ospitavano. Per questo in concomitanza con le mura e i
confini naturali era stata innalzata una barriera con le stesse
proprietà di un
glamour,
in grado cioè di illudere ed allontanare chiunque non
possedesse i requisiti necessari a vedere la realtà. Inoltre
il ritorno della magia nel mondo non aveva solo risvegliato i poteri
dormienti dei maghi e delle streghe, ma anche tutta una serie di
creature date per estinte che avrebbero potuto creare il panico nel
mondo degli esseri umani. Non a caso avevano costruito, vicino al
bosco, una grande dépandance in cui nel corso degli ultimi
anni avevano ospitato un esemplare di grifone, un paio di goblin e
delle pixie.
Esseri magici e oggetti ritenuti tali erano la specialità di
Jake, il primo e più convinto soldato di Freya, il quale poi
aveva deciso di dedicare la propria vita allo studio e, dopo solo un
paio di anni dalla seconda battaglia di Camlann, si era presentato alla
loro porta con tantissime storie da raccontare. Da quel momento, ogni
sei mesi o giù di lì, tornava alla Residenza per
riposarsi e condividere le sue scoperte. Non era una sorpresa che le
sue "lezioni" fossero le più seguite dai giovani maghi.
Freddie doveva essere stato fermato mentre portava un paio di cocktail
ai signori Shaw, sotto il gazebo di ferro in giardino.
Non era stato facile introdurre Trisha e Roger, soprattutto, nel mondo
magico, ma tutto il via vai di ragazzi aveva ridato vita a quella
vecchia casa e incredibilmente aveva giovato anche all'agorafobia di
suo padre, il quale ormai riusciva ad avvicinarsi persino al cancello
d'ingresso senza avere attacchi di panico.
Il vassoio d'argento in mano al maggiordomo rischiò di
rovesciarsi sul pavimento al passaggio irruento di uno dei ragazzi
più piccoli, il quale aveva appena imparato l'arte
dell'animazione e si divertiva un mondo a dare vita agli oggetti
più improbabili, poggiapiedi imbottiti inclusi.
Cathleen chiuse gli occhi, prevedendo il disastro, ma non udendo il
rumore di vetri infranti li riaprì giusto in tempo per
vedere un Elijah con le iridi dorate che con un movimento fluido della
mano faceva tornare nei bicchieri il liquido arancione, il ghiaccio e
le rispettive cannucce.
Non avrebbe mai smesso di meravigliarsi di fronte alla magia.
Poi il druido alzò gli occhi verso di loro e la sua bocca si
piegò in un sorriso. «Possiamo andare?».
Senza aspettare una vera risposta aprì la porta d'ingresso e
scese i gradini fino a fare il giro della jeep che aveva già
tirato fuori dal garage per portarsi avanti. Una voce alle sue spalle
però lo fermò prima che potesse mettersi al
volante.
«Ehi, dove pensavi di andare senza salutarmi?»,
esclamò il ragazzo davanti alla porta.
Ash, il fratello adottivo di Cathleen, si passò una mano tra
i capelli neri, lucenti e scompigliati dal vento, e sorridendo in
direzione di Elijah scese i gradini.
«Quando sei tornato?», domandò il
druido, confuso.
Ash, il quale era stato tanto colpito dall'improvvisa morte di Zachary
da aver iniziato a pensare che non valesse la pena di cercare il
proprio posto nel mondo, sembrava che alla fine lo avesse davvero
trovato: da un giorno all'altro aveva informato la famiglia che si
sarebbe iscritto al Britannia Royal Naval College per diventare un
soldato della Marina Militare Inglese e non aveva dato troppe
spiegazioni in merito. Al momento era un ufficiale assegnato ad una
delle portaerei della flotta di superficie e sembrava soddisfatto della
sua vita, felice. E questo era tutto ciò che importava.
«Questa notte, ma non ho voluto svegliarti», gli
chiese divertito, posando le mani sul suo panciotto. «Sono
riuscito a sorprenderti?».
«Sì, direi di sì».
Ash alzò gli occhi in quelli verdi di Elijah e
corrugò la fronte, scostandosi un poco. «Che
accoglienza! Se vuoi che ritorni in mare basta che tu me lo dica
e...».
Il druido lo interruppe prendendolo per la nuca e posando le labbra
sulle sue, in un bacio dapprima casto che ben presto si
trasformò in qualcosa di più urgente e
passionale. Erano mesi, dopotutto, che non si sfioravano.
Artù distolse lo sguardo, imbarazzato, e aprì la
portiera per far salire Cathleen, poi si accomodò sul sedile
del passeggero e diede un colpetto al clacson. Né Ash
né Elijah parvero sentirlo, esplorandosi a vicenda con mani
impazienti, tanto da chiedersi quante braccia avessero.
Alla fine fu Cathleen a sporgersi e ad attaccarsi al clacson, gridando:
«Mi dispiace piccioncini, ma dobbiamo andare!».
A quel punto Elijah non poté più ignorarli e si
scostò dolcemente dal fidanzato per sussurrargli qualcosa
all'orecchio. Dal sorriso malizioso di Ash e dalla pacca che gli diede
sul sedere quando si voltò, Artù e Cathleen non
ebbero difficoltà ad immaginare ciò che avevano
in programma per la serata.
Elijah si sedette dietro il volante e sospirando mise in moto,
dopodiché guidò la jeep fuori dalla residenza
Shaw, in direzione della vecchia casa di Merlino.
***
«Mamma, chi era il ragazzo con cui stavi parlando
prima?».
Alex guardò la figlia con la coda dell'occhio: si era
spostata sul sedile del passeggero e stava mangiando un pacchetto di
biscotti con le gocce di cioccolato, anche se la maggior parte finivano
in briciole sul fazzoletto rosso che portava legato al collo e sulle
sue gambe.
«Pensavo dormissi».
La bambina le rivolse un sorriso malandrino che era tale e quale a
quello che aveva lei alla sua età - parole di suo padre.
Nonno Greenwood... sarebbero dovute andare a trovare anche lui, una
volta portata a termine quella faccenda.
Alex strinse forte le dita intorno al volante, infastidita dal suo
stesso comportamento. Da quando aveva smesso di sperare? Sia lei che
Enid - così piccola eppure molto più potente di
lei - avevano avuto lo stesso sogno premonitore riguardo al risveglio
di Merlino, ma non riusciva a crederci. O meglio, non voleva crederci
per non soffrire nel caso in cui...
«Mamma?».
Alex si riscosse e senza distogliere lo sguardo dalla strada
allungò una mano per scompigliarle la frangetta di capelli
neri che spesso e volentieri le copriva gli occhi azzurri come il
cielo, gli stessi occhi di suo padre.
«Si chiama Mark, è un ragazzo che ho conosciuto
quando lavoravo in ospedale», rispose.
Enid si scostò infastidita e si portò alla bocca
la cannuccia del succo di frutta che teneva tra le ginocchia. Bevve
avidamente fino a finirlo e Alex non la rimproverò quando si
sentì il risucchio delle ultime gocce.
«Era un tuo paziente, vero?», le chiese poi,
appiattendo il cartone del succo.
«Sì, esatto. Ma come fai a...?».
«La sua aura era di un colore strano, come quello delle
persone che hanno subìto dei trattamenti medici invasivi. Ti
conosce ed è giovane, perciò ho ipotizzato che
fosse stata la chemioterapia a renderla di quel colore».
Nove anni ancora da compiere, era questa l'età di sua
figlia. Tutti però, sua madre compresa, non se ne
capacitavano: la sua intelligenza era fuori dal comune e nonostante ne
andasse orgogliosa, in certi momenti ne aveva anche paura. Quanto era
dovuto dai geni e quanto dalla magia? E come sarebbe diventata da
grande a causa del suo quoziente intellettivo superiore alla media?
«Ottima deduzione», esclamò Alex,
dimostrandosi orgogliosa di lei.
La bambina ricambiò il sorriso e spostò lo
sguardo fuori dal finestrino. Rimase in silenzio per un po' e la madre
avrebbe pagato oro per sapere che cosa le stesse passando per la testa
in quel momento. Si stavano dirigendo verso il luogo di cui aveva tanto
sentito parlare, il luogo in cui suo padre si era sacrificato per il
bene del mondo intero. La visione che avevano avuto aveva mostrato loro
solo che si sarebbero ritrovate davanti a quell'albero, in compagnia
anche di Artù, Cathleen ed Elijah, ma non che cosa sarebbe
effettivamente successo. Possibile che il futuro di Merlino non fosse
stato ancora deciso?
Spostò la mano dal cambio e la posò sul ginocchio
della bambina, stringendolo con delicatezza.
«Qualsiasi cosa accada, voglio che tu sappia che
io...».
«Lo so, mamma», la interruppe Enid, posando una
manina sulla sua. «Ti voglio bene anche io».
Alex sorrise commossa e sospirò, tornando a concentrarsi
interamente sulla strada davanti a loro. Non poteva fare di
più.
Alex fermò l'auto sulla strada sterrata davanti all'ingresso
della villetta e Enid aprì la portiera del passeggero ancor
prima che la polvere potesse essere spazzata via dal vento primaverile.
Fece il giro del veicolo sgangherato e si fermò di fronte al
vialetto nascosto dalle erbacce di quella grande casa sporca di
graffiti, con le imposte sverniciate se non addirittura scardinate e
persino un grande buco tra le tegole della torre di destra.
«Tu e papà vivevate qui?»,
domandò con semplicità, continuando ad osservare
quel piccolo castello col naso all'insù e la bocca dischiusa
per lo stupore.
«Sì, tesoro», rispose piano,
ripercorrendo i ricordi legati a quelle mura ed avvertendo degli spilli
pungolarle il cuore.
Era passato davvero tanto tempo, non poteva pretendere che tutto
rimanesse come se lo ricordava.
«Che cosa facciamo adesso?», chiese ancora la
bambina, voltandosi per guardare la madre.
Alex le accarezzò il volto da folletto, le orecchie un po' a
sventola e poi le tirò indietro la frangetta nera.
«Zio Artù e zia Cathleen saranno qui presto,
perciò...».
«Vado in esplorazione!», esclamò prima
di allontanarle le mani e correre verso la casa abbandonata.
«Enid!», gridò la madre, per poi
scuotere il capo con un sorriso sulle labbra e le mani sui fianchi.
"Stai attenta, okay?",
le disse col pensiero.
"Sono la figlia del mago
più potente che questa Terra abbia mai visto, posso
cavarmela", rispose la bambina.
Alex la guardò sparire sul retro della villetta e solo
allora si lasciò sfuggire un sospiro tremante, permettendo
persino alle lacrime di accarezzarle le ciglia. Non ne versò
nemmeno una, consapevole che se si fosse abbandonata al pianto non si
sarebbe fermata presto. Quindi si fece forza, come d'altronde aveva
fatto negli ultimi dieci anni, e percorse il vialetto per raggiungere
la porta d'ingresso. Ripescò le chiavi dalla borsa, ma non
ce ne fu bisogno: la serratura era stata fatta saltare via e i cardini
cigolarono quando Alex posò la mano sul legno per sbirciare
all'interno.
Artù e Cathleen non avevano potuto vendere la casa, credendo
fortemente che un giorno Merlino sarebbe tornato, ma le loro visite col
passare degli anni dovevano essere diminuite fino a terminare del
tutto. Per questo la casa era stata vandalizzata in quel modo da
ragazzini di passaggio, usata come rifugio dai vagabondi e come tana
dai gatti selvatici. C'era un odore tremendo - un misto di muffa,
polvere e urina - e Alex si costrinse a raggiungere i bovindi per
aprire le finestre e lasciar entrare dell'aria fresca.
Alla luce del sole del mattino, la visione del salotto fu ancora
più desolante: era stato portato via tutto, fatta eccezione
per il divano e le poltrone, una volta ricoperti dal cellophane e ora
macchiati, graffiati e con le molle che spuntavano dai cuscini insieme
alle imbottiture rigurgitate. Sul pavimento sporco c'erano stracci,
immondizia e candele sciolte.
Alex procedette verso la cucina e trovò anch'essa in
condizioni rivoltanti, perciò non si soffermò ed
aprì la porta finestra che conduceva alla veranda del
giardino sul retro. Rimase senza parole quando lo trovò
esattamente come se lo ricordava. Si guardò alle spalle,
chiedendosi se non fosse tutto un sogno o se magari fosse passata
dentro un varco temporale - non si sarebbe sorpresa - ma era tutto
vero: quel luogo era rimasto immutato; nessuno aveva osato profanarne
la sacralità, protetto proprio come il lago di Avalon, dalla
magia oppure da...
Alex mise i piedi nell'erba - curata come quella di un giardino reale -
e sorrise in direzione dell'albero. «Grazie per averlo
protetto, Morgana».
Per un attimo, uno solo, l'ex-infermiera scorse la Sacerdotessa seduta
tra le radici del pino, col capo posato contro il possente tronco, gli
occhi chiusi e un sorriso sereno tra le labbra.
***
«Eccoci qua», esclamò Elijah fermando la
jeep dietro una monovolume sporca e con diverse ammaccature qua e
là.
«Sono già qui», disse invece
Artù, indeciso se esserne contento o spaventato. Rivedere
Alex dopo tutti quegli anni non sarebbe stato facile e anche se ormai
non aveva più nulla da temere, si chiese come avrebbe
reagito il suo cuore.
I tre scesero dal mezzo e Cathleen si mise subito in testa al loro
piccolo gruppo: attraversò il vialetto invaso d'erbacce,
sentendosi in colpa per non essere più riuscita a curare
quella casa come un tempo, e raggiunse la porta, trovandola aperta.
Non indugiò molto nel salotto, preferendo andare dritta alla
meta: il giardino sul retro. Anche la portafinestra che dava sulla
veranda era aperta e le bastò avvicinarsi alla soglia per
scorgere la figura di Alex in piedi a pochi metri dal maestoso albero
in cui riposava Merlino.
Aprì la bocca per chiamarla, ma non un suono le
uscì dalla gola. Il cuore le batteva nei timpani e dei
brividi le correvano su per le braccia, nonostante il sole primaverile
donasse un piacevole tepore.
I sentimenti provati dieci anni prima, in particolare i sensi di colpa
per come fossero andate le cose, le avevano tolto la voce e la
sicurezza. Quel giorno avrebbe dovuto essere una festa in cui la sua
famiglia sarebbe tornata al completo, eppure non riusciva a scrollarsi
di dosso il peso della terribile scelta che Alex era stata costretta a
prendere anche per colpa sua e del suo egoismo.
Artù le strinse forte la mano destra, trovandola fredda e
tremante, e si chinò su di lei per posarle la labbra tra i
capelli e sussurrare: «Nulla di ciò che
è successo è colpa tua».
Provò a convincersene, come faceva da ormai dieci anni nelle
notti in cui proprio non riusciva ad addormentarsi, ma una lacrime le
cadde comunque sulla guancia. Nello stesso momento Alex si
voltò ed incrociò il suo sguardo.
Cathleen trattenne il respiro e si aggrappò anche con
l'altra mano al braccio di Artù, sentendo le gambe cederle.
L'ex-infermiera però le sorrise dolcemente mentre si portava
dietro l'orecchio una ciocca dei corti capelli biondi che una folata di
vento le aveva scompigliato. Quindi si diresse verso di loro ed Elijah
le andò incontro, scendendo i tre gradini che portavano al
giardino.
«È bello porterti finalmente
abbracciare», esclamò il druido, circondandola con
le lunghe braccia.
Alex sorrise contro la sua spalla e gli diede delle pacche sulla
schiena. «L'abbiamo fatto molte volte nel mondo
onirico».
«Lo sai che non è lo stesso».
«Sì, lo so», sospirò
lasciandosi cullare.
Quando la lasciò andare, Elijah si spostò per
lasciare il giusto spazio ad Artù e Cathleen. Alex
respirò profondamente e con i pugni stretti nervosamente
lungo i fianchi salì quei pochi gradini che li separavano,
poi si piegò su un ginocchio per un inchino reverenziale.
Artù la fissò per diversi secondi, cercando di
risultare impassibile. Presto però le forze gli vennero meno
e cadde in ginocchio a sua volta, le braccia strette intorno alla
schiena della sua discendente.
Alex, sconvolta, rimase a bocca aperta fino a quando non
sentì il sapore salato delle lacrime. Solo allora
ricambiò la stretta, stringendo i pugni tra le sue scapole e
singhiozzando contro la sua spalla.
Di fronte a quella scena anche Cathleen crollò a terra e si
unì all'abbraccio, baciando i capelli dei Pendragon senza
dire una parola. Non ce n'era bisogno.
Ci volle un po' prima che si ricomponessero.
Una volta asciugate le lacrime si avvicinarono insieme al grande pino e
rimasero coi volti alzati a guardare le fronde sussurrare nel vento.
All'interno del tronco, cresciuto tanto che nemmeno se si fossero messi
in cerchio tenendosi per mano sarebbero riusciti a circondarlo del
tutto, c'erano il corpo e l'anima di Merlino.
Il mago più famoso e potente del mondo si era sacrificato
per ridistribuire nel mondo tutta la magia in suo possesso, diventando
una specie di batteria d'emergenza, a seguito del patto che l'ultima
discendente della dinastia Pendragon aveva stretto con la Triplice Dea,
la quale le aveva promesso che un giorno sarebbe tornato in vita. I
sogni che sia Alex che Elijah avevano avuto nelle ultime settimane
sembravano profetizzare finalmente il suo ritorno, ma nessuno aveva
idea di come sarebbe successo. Era la clausola nascosta nel contratto a
cui Alex, a corto di tempo ed alternative, non aveva prestato
attenzione.
«Allora, Elijah?».
Il veggente scosse il capo mentre staccava la mano dal tronco e faceva
qualche passo indietro. «Non vedo nulla».
«Che cosa facciamo adesso?», chiese Cathleen, gli
angoli degli occhi ancora arrossati per il pianto.
«Aspettiamo», rispose Alex, sedendosi sul prato.
Artù la guardò attentamente, realizzando che era
cambiata ben poco in quei dieci anni. I suoi capelli erano ancora
biondi e lucenti, anche se più corti; il suo viso,
nonostante fosse maturato, era rimasto bello e giovanile. Forse solo il
suo sguardo, quegli incredibili occhi verdi che avevano fatto
innamorare Merlino, si era un po' incupito, succube della tristezza.
All'improvviso si rese conto dell'assenza di una persona che aspettava
di incontrare da ben nove anni.
«Dov'è Enid?», le chiese senza giri di
parole.
Cathleen trasalì. «Caspita, mi ero completamente
scordata di lei!».
Alex sorrise e il suo volto si illuminò, occhi compresi.
Artù sospirò sollevato nel constatare che
l'oscurità che vi aveva notato non fosse permanente.
«Ha detto che sarebbe andata in esplorazione qui nei
dintorni».
«Che cosa? E tu l'hai lasciata andare? Da sola?».
Alex scrollò le spalle, quasi divertita dalla reazione di
Cathleen. «Capisco la tua preoccupazione. Anche io, che sono
sua madre e so di cosa è capace, sono sempre in pensiero per
lei quando la vedo allontanarsi. La verità però
è che Enid è una bambina in cui convivono la
forza dei Pendragon e la magia di Merlino; è forse l'essere
più potente che questo mondo abbia mai visto».
Alex guardò in direzione di Avalon, seguendo il corso del
ruscello, e concluse: «Non le succederà nulla di
male».
***
La magia in quella foresta era forte, tanto forte che poteva sentirla
scorrere nel terreno, tra le fronde degli alberi e nel vento che le
avrebbe scompigliato i capelli se non li avesse legati in un codino
sulla nuca. Ovviamente la chiamava, attirandola e spingendola nelle sue
profondità.
Enid aveva il cuore che le batteva veloce nel petto, ma non era
spaventata. Lei stessa era parte di quella magia, perché
avrebbe dovuto temerla?
Aveva camminato a lungo e quando finalmente sentì di essere
arrivata a destinazione realizzò che il sole stava quasi per
tramontare. Sua madre le avrebbe fatto una bella ramanzina, nonostante
non si fosse persa un bel niente. Sarebbe stata infatti la prima ad
avvertirlo se suo padre fosse tornato.
Si avvicinò ad una parete rocciosa coperta di piante
rampicanti, le strappò ed osservò la pesante
porta in ferro battuto, arrugginita dal tempo e dalle intemperie.
Bisognava risolvere una specie di puzzle ad incastri per aprirla, ma
Enid non aveva tempo da perdere e decise di usare una scorciatoia: vi
posò sopra il palmo e i suoi occhi si illuminarono d'oro
mentre la magia faceva per lei tutto il lavoro.
La porta si aprì cigolando ed Enid sbirciò
all'interno, ma il buio era totale. Cercò quindi tra i rami
spezzati un bastone abbastanza spesso per farne una torcia e
sussurrò: «
Leohtbora».
L'estremità si incendiò all'istante e la bambina
si decise ad entrare nella grotta, scoprendo che c'era una seconda
porta, questa volta nel terreno, come una specie di tombino. La
sollevò con un altro incantesimo e scese nelle
profondità della caverna.
Non aveva mai visto nulla di così bello in vita sua e rimase
per diversi secondi a bocca aperta a guardare la miriade di cristalli
che riflettevano la luce della sua torcia e al contempo emettevano un
freddo bagliore azzurro. Era semplicemente incantevole e sentiva la
magia sfrigolarle nella punta delle dita.
«C'è nessuno?», si azzardò a
chiedere ad un tratto, ricordando le parole di sua madre: bisognava
sempre annunciarsi prima di entrare nella casa di qualcuno.
Perché sì, lì ci abitava qualcuno,
un'entità molto antica e allo stesso tempo nuova. Enid non
aveva mai avvertito un'aura del genere, in nessuno delle centinaia di
paesi che aveva visitato.
Non ottenendo alcuna risposta, Enid scese i gradini di pietra che la
condussero in uno spiazzo in cui qualcuno, diversi anni prima, aveva
cercato di costruirsi un rifugio. Passò oltre, chiamata da
quella forza misteriosa.
Raggiunse l'entrata di una grotta secondaria, piccola eppure
altrettanto sconvolgente. I cristalli sul soffitto brillavano ancora
più intensamente e sarebbe stato uno spettacolo unico
vederli riflessi sull'acqua che un tempo doveva aver riempito la falda
al centro della caverna.
Enid si avvicinò alla roccia vicino al bordo del cratere e
sfiorò con le dita la fessura annerita dove suo padre e zio
Artù avevano incastonato Excalibur. Non molto tempo dopo era
stata sua madre ad estrarla, dimostrandosi una degna Pendragon, e
insieme l'avevano usata per combattere contro Freya. Conosceva quella
storia a memoria, tante erano state le volte in cui aveva chiesto a sua
madre di raccontargliela. Certo, lei aveva fatto di più
sbirciando nella sua mentre per avere delle immagini in accompagnamento
alle parole, ma questo Alex non lo sapeva.
Enid si inginocchiò sulla roccia e guardò
giù nella falda, trovando finalmente ciò che
irradiava quel potere e l'aveva chiamata a sé. Sorrise a
trentadue denti e con cautela iniziò a scendere nella
fossa.
***
Il sole era ormai scomparso dietro le montagne, ma il cielo del
tramonto aveva ancora quella sfumatura rossastra che rendeva
più romantica ogni cosa.
«Tieni», disse Artù, porgendole un
piatto con sopra una tazza di té e un tramezzino.
«Elijah è riuscito a prendere solo questo in un
alimentari che stava per chiudere. Non è molto, ma
è meglio di niente».
«Grazie». Alex lo accettò con entrambe
le mani e lo posò alla sua sinistra sulla panca, mentre
Artù prese posto alla sua destra.
Si era avvolta una coperta intorno alle spalle, come una specie di
mantello, ed era rimasta seduta in veranda per tutto il pomeriggio, lo
sguardo rivolto verso il pino. L'ex-re la osservò, pensando
a quanto fosse simile all'Alexandra della vigilia della battaglia
contro Freya, e solo quando vide la sua bocca muoversi
ritornò alla realtà.
«Cos'hai detto?».
Alex abbozzò un sorriso, bevendo un sorso di té.
«Ho detto che mi dispiace che mia figlia ti stia facendo
aspettare».
La preoccupazione tornò a gravare sulle spalle di
Artù come se si trattasse di uno dei suoi figli.
«Non credi sia il caso di chiamarla per sapere se sta
bene?».
«Non ha un cellulare. O meglio, ce l'ha, ma non lo usa mai.
L'ha lasciato in auto».
In quell'epoca in cui la tecnologia era diventata ormai essenziale per
gli uomini, sapere che c'erano ancora bambini che non possedevano un
cellulare era da non crederci. La sua primogenita l'aveva voluto che
aveva appena quattro anni.
«Stai pensando che sia strana, vero?», disse Alex,
appoggiando il mento alle braccia incrociate sulle ginocchia.
«Il fatto è che non ne ha proprio bisogno. Se le
succedesse qualcosa, potrebbe semplicemente chiamarmi col pensiero.
Quando aveva cinque anni è uscita dalla stanza d'albergo in
cui le avevo detto di rimanere, ha sbagliato a prendere la
metropolitana ed è finita dall'altra parte di Londra.
Ciò nonostante siamo riuscite a comunicare e ho potuto
raggiungerla».
«Incredibile».
«Già. A volte però... mi spaventa, lo
sai? Ho paura che diventi troppo potente, che la magia la
cambi».
Artù le posò una mano sulla spalla, attirando il
suo sguardo. Sorrise, esclamando: «Non succederà.
È la figlia di Merlino dopotutto».
A quelle parole Alex ritrovò il sorriso, ma durò
poco. La terra tremò sotto i loro piedi e la tazza che aveva
lasciato sul bordo della panca cadde a terra, infrangendosi sulla
veranda.
Cathleen e Elijah li raggiunsero non appena la scossa si
arrestò.
«Che cosa diavolo è stato?», chiese la
rossa, una mano posata sul petto.
«Credo che sia giunta l'ora», disse Elijah con voce
pacata. «Guardate».
Alex si alzò lentamente in piedi, gli occhi fissi sul
bagliore dorato che dal lago di Avalon attraversò il
ruscello e penetrò nelle radici dell'albero, infondendo nel
tronco, nei rami e in ogni singola foglia una quantità tale
di magia da farlo brillare contro il cielo di una tonalità
sempre più vicina al violetto.
Lentamente la corteccia del pino iniziò a fumare e Alex
lasciò cadere la coperta per corrervi vicino, seguita da
Artù, Cathleen ed Elijah.
Il legno si spaccò piano, assottigliandosi sempre di
più, e l'attesa fu snervante. Quando però un
grosso pezzo rivelò parte del volto di Merlino, rimasto
immutato in quei dieci anni, Alex non riuscì più
a resistere ed iniziò a strappare il resto a mani nude
nonostante il calore fosse tale da ustionarle i palmi.
Anche Artù, dopo un attimo di esitazione, l'aiutò
ed insieme estrassero il mago dal tronco dell'albero per adagiarlo
sull'erba fresca.
«Merlino. Amore mio, svegliati. Merlino», lo
chiamò più e più volte la donna,
accarezzandogli il volto e i capelli mentre le lacrime le scorrevano
inarrestabili sulle guance. Le sembrava di sognare e aveva il terrore
di risvegliarsi.
Strinse forte la sua mano e baciò la fede che aveva ancora
al dito, pregando come non aveva mai fatto. Aprì gli occhi
solo per guardare Elijah che si chinava al suo fianco e posava una mano
sul petto dello stregone. Una calda luce bianca fuoriuscì
dal suo palmo e Merlino aprì di colpo gli occhi, tirandosi
su a sedere con così tanta foga che avrebbe dato una testata
ad Alex se lei non avesse avuto i riflessi pronti.
«Merlino... Merlino, sei tornato. È tutto
vero», singhiozzò e lo abbracciò,
stringendolo forte a sé.
«Che cosa...? Dove mi trovo? E dov'è la regina?
Io...».
Il mago allontanò Alexandra e si esaminò il
ventre, trovandolo attraversato da un reticolo di cicatrici.
Artù, rimasto alle spalle del mago per dare il giusto spazio
a sua moglie, sentì il cuore stringersi non solo per quelle
parole e il loro significato ma anche e soprattutto per l'espressione
disperata sul volto di Alex.
Aveva atteso per dieci anni quel momento, dieci lunghi anni per potersi
ricongiungere con l'amore della sua vita e lui... lui aveva dimenticato
tutto?
Respirò profondamente per farsi coraggio e decise di
intervenire per appurare quella teoria.
«Merlino», lo chiamò con tono di voce
estremamente serio.
Vide la schiena dello stregone irrigidirsi e poi il suo capo voltarsi
lentamente, come se temesse di vedere un fantasma. Quando i loro
sguardi si incrociarono però il corvino si alzò
frettolosamente e lo strinse, si aggrappò a lui come se
fosse uno scoglio in mare aperto e piangendo scivolò in
ginocchio, il volto nascosto nel suo maglione.
«Artù... Artù, siete tornato! Io... Mi
dispiace, non so cosa sia successo... Ero a Camelot, Ginevra
è stata... Non sono riuscito a... Ma non c'è
tempo da perdere, vostro figlio... Avete un erede, un maschio, proprio
così! Si chiama Graalmir! A quest'ora sarà
sicuramente nel regno della regina Mithian con Percival, dobbiamo
sbrigarci!».
«Papà, smettila!».
Tutti quanti si voltarono verso quella voce sottile ma potente,
incrociando lo sguardo fiero ed addolorato di Enid. Aveva il fiatone,
il volto arrossato e sporco di terra come del resto i suoi vestiti -
maglietta azzurra e salopette di jeans - e le ginocchia sbucciate. Era
bellissima.
Nessuno osò dire una parola mentre posava a terra il grosso
uovo che aveva tra le braccia ed avanzava in direzione di Merlino. Lo
stesso stregone rimase a fissarla a bocca spalancata, confuso ed
incredulo. L'aveva appena chiamato "papà"?
Enid si chinò perché i loro volti fossero a pochi
centimetri di distanza, dopodiché lo colpì in
fronte con un dito sussurrando un incantesimo che lo fece crollare
addormentato all'istante. Poi, come se nulla fosse, corse da sua madre
per gettarle le braccia al collo.
«Mamma! Mi dispiace di essere arrivata tardi, mi
dispiace».
«Tu lo sapevi?», le domandò Elijah, le
braccia incrociate al petto.
La bambina si girò a guardarlo senza smettere di accarezzare
i capelli di Alex. Chi fosse la madre e chi la figlia, in quella
situazione, era difficile dirlo.
«Tu devi essere il Vate. Molto piacere. No, non lo sapevo, ma
quando è iniziata ho sentito che c'era qualcosa di diverso
nel mio papà».
«Assolutamente», fu d'accordo il druido,
inginocchiandosi nuovamente.
«Volete rendere partecipi anche noi?»,
domandò Cathleen, innervosita.
«Merlino è tornato al momento successivo alla sua
prima resurrezione, quando Camelot è caduta», le
disse Artù, cercando la sua mano più per
sé che per lei. «Tutti i secoli successivi, le sue
altre vite, ciò che abbiamo vissuto insieme... sono stati
cancellati dalla sua mente».
«Non solo», aggiunse Elijah. «Non
c'è più traccia di magia in lui. È
un... un umano comune, adesso».
Nell'udire quelle parole Alex uscì dal mutismo in cui era
piombata per lo shock, ma lo fece per gridare e scoppiare in un pianto
disperato.
***
Artù, con un pugno davanti alla bocca, sedeva sull'unica
sedia rimasta intorno al tavolo della cucina, ricoperto di polvere e
sporcizia. Con occhi quasi spiritati fissava quella bambina che aveva
preso tanto da Alexandra quanto da Merlino: i capelli neri e gli occhi
azzurri come il cielo erano quelli dello stregone, mentre i lineamenti
del viso e il sorriso erano decisamente della sua discendente.
Stava spiegando a Cathleen, come lei a gambe incrociate sul pavimento,
le difficoltà che aveva superato per poter recuperare il
primo uovo di drago di una nuova era. Il guscio era di una
tonalità verdastra e liscio come un confetto e Enid non lo
mollava un secondo, tenendolo stretto tra le braccia per trasmettergli
il proprio calore.
Artù avrebbe voluto unirsi a loro, raccontarle come lui e
Merlino - principalmente Merlino - aveva salvato e fatto nascere
Aithusa, ma provava una fastidiosa sensazione di inadeguatezza ogni
qualvolta quegli occhi si posavano su di lui, curiosi ed intelligenti.
Si sentiva esposto, mentre Enid era per lui un'enigma indecifrabile.
«Dovresti parlarle», esordì con voce
calma Elijah.
Artù lo trovò appoggiato al vecchio frigorifero,
a braccia incrociate e la bocca incurvata in un ghigno divertito.
«Da quanto sei lì?».
«Un po'».
«Sei inquietante».
«Non tanto quanto te. Credi che non se ne sia accorta?
Sinceramente non so più che cosa dirle».
Artù lo fissò confuso e il druido si
colpì la tempia con due dita.
«Parlate col pensiero alle mie spalle? Fantastico».
«Mi dispiace, non volevo mancarti di rispetto».
L'ex-sovrano sobbalzò e in men che non si dica si
ritrovò in piedi, gli occhi sgranati di fronte alla diverse
volte pro-nipote. Elijah si staccò dal frigorifero e
passandole accanto per dare loro un po' di privacy le posò
la mano sul capo, ma Enid non distolse mai gli occhi da quelli di
Artù.
Rimasti finalmente soli la bambina si avvicinò al lontano
antenato e con un semplice gesto della mano fece volare via tutte le
cianfrusaglie che c'erano sul tavolo, gli occhi iridescenti. Quindi si
sedette sul bordo, con le gambe penzoloni, e chiese: «Ti
faccio paura?».
Artù boccheggiò per un paio di secondi.
«Paura? No, non si tratta di questo».
«Allora che cos'è che ti preoccupa? Mamma mi ha
parlato tantissimo di te ed io ero così ansiosa di
incontrarti!».
Il solo ed unico re gettò al vento ogni remora e la strinse
tra le braccia facendole affondare il volto nel proprio petto. Col
mento posato sulla sua testa sussurrò: «Anche io
ho atteso questo giorno con ansia. Non vedevo l'ora di conoscerti, ma
allo stesso tempo... È colpa mia se hai vissuto senza un
padre, se hai dovuto...».
Le manine di Enid lo allontanarono perché potesse tornare a
guardarlo negli occhi che erano davvero la copia di quelli di Merlino.
Quanto gli erano mancati...
«Non ho mai pensato che fosse colpa tua. E non è
vero che ho vissuto senza un padre». Il suo sorriso si
allargò. «Papà è in tutto
ciò che ci circonda e... oh, si è
svegliato».
Entrambi si voltarono verso la finestra che dava sulla veranda e videro
Merlino mettersi seduto sulla panca, una mano sulla testa.
Dandogli un pizzicotto sul braccio, Enid esclamò:
«Meglio che tu vada a dirgli che cos'è
successo».
Artù serrò le labbra, ricordando quando era stato
lui in quella situazione e lo stregone aveva dovuto raccontargli
ciò che si era perso e prepararlo alla realtà in
cui si trovava. Era giunto il momento di ricambiare.
«Avremo tempo per conoscerci meglio», aggiunse la
bambina, saltando giù dal tavolo e facendogli l'occhiolino.
Artù riuscì a sorridere e la seguì con
lo sguardo mentre tornava in salotto per recuperare l'uovo che aveva
momentaneamente affidato ad una Cathleen in brodo di giuggiole. Seduta
accanto a lei c'era Alex, le ginocchia strette al petto e gli occhi
fissi sul camino che era diventato un cestino ed un orinatoio per i
vandali.
Artù strinse i pugni lungo i fianchi. Doveva farlo anche per
lei, per ripagarla del suo sacrificio.
***
Merlino aprì di nuovo gli occhi e lentamente, per via della
fronte che gli doleva, si mise seduto sulla panca di legno su cui
qualcuno l'aveva adagiato, coprendolo persino con una coperta.
Aveva una grande confusione in testa e troppe domande, tante che non
sapeva da dove cominciare a chiedere, né a chi.
Il suo sguardo fu catturato dal grande pino nel giardino: aveva un
grande buco nel tronco, della dimensione giusta per un corpo umano, e
gli aghi erano passati dal verde scuro al marrone chiaro. Stava
morendo, mentre lui...
Si guardò le mani, ricordandole insanguinate per aver
stretto una Ginevra in punto di morte. Lui stesso poi era perito, lo
ricordava fin troppo bene.
«Ti stai chiedendo perché sei vivo?».
Merlino alzò di scatto gli occhi e trovò quelli
di Artù ad attenderlo, due iridi blu come il mare in cui
brillava una scintilla di scherno.
«Benvenuto nel club», aggiunse, sedendosi al suo
fianco.
«Che cosa vorrebbe dire? Io... non riesco a capire».
Il solo ed unico re gli posò una mano sulla spalla,
sospirando. «Promettimi di ascoltarmi senza mai
interrompermi. Quando avrò finito potrai farmi tutte le
domande che vorrai, okay?».
Lo stregone,a corto di alternative, promise.
Con gli occhi rossi per il pianto, Merlino si avvicinò al
carro di metallo che Artù gli aveva indicato quando gli
aveva chiesto dove fosse Alexandra e sbirciò all'interno,
trovando Enid - sua figlia - addormentata sui sedili posteriori.
Il fazzoletto rosso che le aveva visto portare al collo ora era
annodato intorno al suo uovo, il simbolo del ritorno della magia e del
passaggio di testimone generazionale. Avendo perso tutti i propri
poteri, la sua interà identità, non poteva
più essere chiamato Signore dei Draghi.
Gli sembrava incredibile che tutto ciò che Artù
gli aveva raccontato fosse successo veramente, ma non avrebbe avuto
motivo di mentirgli.
Alexandra invece si trovava dietro il volante, a sua volta
addormentata. Non voleva svegliarla, era ancora incerto su cosa le
avrebbe detto, perciò aprì con cautela la
portiera e si sedette al suo fianco. La osservò e
capì subito che nemmeno il sonno era in grado di darle pace.
Si sforzò di ricordare, di riportare a galla quell'amore
così forte di cui Artù gli aveva parlato, ma la
Triplice Dea aveva fatto un ottimo lavoro nel cancellargli la memoria.
«Mi dispiace. Mi dispiace tanto»,
sussurrò, accarezzandosi la fede che portava al dito. Non
riusciva nemmeno ad immaginare il dolore che doveva averle causato,
eppure le lacrime gli velarono di nuovo gli occhi.
Una terza mano si posò sulle sue, accarezzandogliele
delicatamente, e Merlino alzò di scatto il capo. Gli occhi
verdi di Alexandra lo guardarono con una dolcezza infinita e il suo
cuore saltò un battito.
«Non è colpa tua», replicò
piano, per non svegliare Enid.
«Temo di sì, invece. Se non fosse stato per il mio
egoismo, fin dall'inizio...».
«Non mi pento di nulla, Merlino. Ogni momento trascorso
insieme, io lo ricordo e lo custodisco gelosamente nel cuore».
Lo stregone abbassò gli occhi, arrossendo. «Tu...
tu mi ami ancora?».
«Certo. Finché morte non ci separi».
«E io... io ti amo?».
Alexandra ridacchiò, allontanando la mano per portarsela
davanti alla bocca. «Come posso saperlo, Dumbo?».
Sentirsi chiamare con quel nomignolo accese una specie di miccia nel
suo petto e Merlino non pensò affatto quando le
portò una mano sulla nuca e fece incontrare le loro labbra a
metà strada. La baciò e non si sentì a
disagio, affatto. Fu naturale, fu giusto. Doveva averlo fatto centinaia
di volte.
Quando si allontanò la tenne comunque vicina a
sé, le fronti che si toccavano.
«Credo che non ci vorrà molto per innamorarmi
nuovamente di te», le disse sorridendo.
Alex ricambiò, puntandogli il dito contro il petto.
«Attento a quello che dici. L'ultima volta hai impiegato
quattro anni per deciderti».
«Non sarò tanto stupido».
Stavano per baciarsi un'altra volta quando vennero interrotti da Enid,
la quale tirò loro contro il piccolo cuscino da viaggio e
mugugnò: «Sono contenta per voi, ma potreste
andare da un'altra parte a recuperare i dieci anni perduti? Vorrei
dormire».
Merlino inarcò un sopracciglio e guardando una Alex
più che imbarazzata disse: «Somiglia in modo
inquietante ad Artù».
A quel punto Enid aprì gli occhi, le iridi come due cerchi
d'oro, e con la magia si riportò sotto la testa il cuscino.
«E ora somiglia a te», sussurrò Alex
all'orecchio del mago, facendogli correre mille brividi sulla pelle.
Enid sogghignò e tornò a riposare come se nulla
fosse mentre i genitori uscivano dall'auto per sedersi fianco a fianco
sul cofano.
«No, io non sono più così»,
ruppe il silenzio Merlino, guardandosi le mani. «Non ho
più il dono».
«L'hai odiato per secoli, dopo la morte di tutti i tuoi cari.
Non lo ritenevi nemmeno più un
dono, ma una
maledizione».
«Capisco».
«Ti manca?».
Merlino si strinse nelle spalle. «Non lo so. Forse devo solo
abituarmi, capire chi sono».
«Capire chi sei? Che stupidaggine è mai questa? Tu
sei Merlino, magia o meno. Sei l'amore della mia vita, mio marito e il
padre di mia figlia. Tutto questo non ti basta?».
Guardando il volto illuminato dalla luna di Alex, bella come una dea,
sorrise.
Oh sì, gli sarebbe bastato eccome. Lei era l'unica cosa che
nessuna profezia aveva mai predetto e non doveva ringraziare nessuno
per averla messa sulla sua strada, se non lei stessa: aveva lottato per
lui, l'aveva amato come mago e l'avrebbe amato da umano, fino alla fine
dei giorni. Era lei il vero dono, la vera magia.