Cari,
eccoci
alla conclusione di questa vicenda di soldati blu e indiani.
Ringrazio tutti quelli che hanno avuto la pazienza di seguirmi fin
qui: chi mi ha letto, chi mi ha messo in qualche lista, ma in
particolare chi è stato così gentile da lasciarmi
un parere, ovvero
John Spangler, Enchalott, Saelde_und_Ehre, Syila, aelfgifu,
alessandroago_94, Star_Rover, mystery_koopa, fiore di girasole
e
queenjane.
Capitolo
3
Rory
rinfoderò la pistola e si precipitò verso il
compagno. “Clarence!”
ripeté angosciato. Lo aiutò a sedersi, poi
cominciò a sbottonargli
la giubba. “Fammi vedere,” gli disse.
L’altro
lasciava fare, cosa che al ragazzo parve più preoccupante di
qualsiasi altro sintomo. “Clarence,”
ripeté a bassa voce. Si
tolse il guanto e gli passò una mano sulla fronte coperta di
sudore
freddo.
“Sto
bene, Rory,” mormorò l’altro
socchiudendo gli occhi.
Il
ragazzo lo fissò preoccupato, poi rispose: “Certo,
starai bene,
non preoccuparti.” Nel frattempo gli aveva messo a nudo la
spalla
sinistra, sulla quale c’era una profonda ferita da punta,
proprio
sotto la clavicola. “Ora ti bendo e poi ci riposiamo un
po’,
d’accordo?”
“Non
possiamo riposarci.”
“Devi
riprendere fiato, Clarence. Non puoi cavalcare
così.”
L’altro
non rispose. Il ragazzo gli appoggiò sulla ferita una
compressa di
stoffa realizzata col fazzoletto che portava al collo, poi si
guardò
intorno alla ricerca del proprio cavallo, dato che nelle bisacce
della sella aveva bendaggi da campo, ma lo vide scomparire dietro uno
sperone di roccia. Subito si alzò per inseguirlo.
“Aspetta! Dove
vai?” gli disse, cercando di non spaventarlo con clamori
troppo
forti.
L’animale
non sembrava imbizzarrito o innervosito. Si muoveva tranquillo, come
chi sa perfettamente cosa fare. Ogni tanto si fermava e fiutava
l’aria con atteggiamento pensoso, dilatando le froge, poi
riprendeva il cammino. Halloran notò che il sentiero che
esso stava
percorrendo era già battuto da altre impronte di zoccoli.
“Cos’hai
trovato, una giumenta?” borbottò. Si
voltò indietro indeciso,
temendo di allontanarsi troppo dal compagno, ma preoccupato che il
cavallo decidesse di scappare via dimenticandosi dei suoi doveri.
Poi
la bestia si fermò e raspò la terra con lo
zoccolo. Fiutò di nuovo
l’aria, abbassò la testa e fiutò anche
il suolo, aggirò un
ultimo sperone di roccia e poi allungò il passo fino a un
piccolo
rigagnolo. Vi immerse il muso con uno sbuffo di soddisfazione e prese
a bere avidamente.
Rory
lo raggiunse, poi gli diede una pacca sulla spalla e disse:
“Sentivi
l’odore dell’acqua, vero?”
L’animale
continuò a dissetarsi senza prestargli attenzione. Il
ragazzo notò
poco lontano i segni di un bivacco, e nella cenere ancora calda
monconi d'osso bruciacchiati. Appoggiata da una parte c’era
una
lancia Apache. Si guardò intorno, ma tutto sembrava
tranquillo.
Concluse che quello era il rifugio degli Indiani che li avevano
attaccati.
“Beh,
andiamo a prendere l’altro cavallo,” disse fra
sé e sé. “Anche
lui vorrà bere. E Clarence, ovviamente. Quella ferita ha un
gran
bisogno di essere lavata. Gli Apache sporcano le punte delle frecce
con interiora putrefatte per far infettare le ferite, e scommetto che
lo fanno anche con le lame dei coltelli.”
Finch,
che sembrava addormentato ai piedi della parete di roccia, al suo
arrivo aprì gli occhi e lo fissò attento.
Il
ragazzo si avvicinò e si chinò accanto a lui. In
tono morbido, gli
chiese: “Ce la fai ad alzarti? Sembra che il mio cavallo
abbia
trovato dell’acqua. È un ra... come si chiamano
quei tizi che
trovano l'acqua con la bacchetta biforcuta?”
“Rabdomanti?”
“Sì,
quelli,” rispose subito il ragazzo, poi ripeté:
“Rabdomante.”
fece una pausa, annuì convinto. “Mi piace, ha un
suono solenne. Il
mio cavallo si chiamerebbe Hushpuppy, che ne dici se d'ora in poi lo
ribattezzo Rabdomante?”
Finch
tentò una risata, che però si
trasformò subito in una smorfia di
dolore.
Halloran
controllò il tampone di stoffa che gli aveva lasciato sulla
ferita:
da giallo che era, il fazzoletto era diventato di un rosso cupo,
più
intenso dove il sangue l’aveva impregnato maggiormente.
“Ora
andiamo, Clarence,” gli sussurrò all'orecchio. Si
piegò a
posargli un lieve bacio sulla tempia. L'altro non si ribellò.
“Ce
la fai?” gli chiese dopo un po', vedendo che non si muoveva.
Lo
prese per il braccio sano, lo aiutò ad alzarsi, lo strinse a
sé.
Finch si appoggiò a lui con un gemito.
“Ti
fa male?” chiese subito Halloran.
“Un
po'.”
“Dai,
ora ti lavo la ferita, e poi te la fascio. Sono bravo con le bende,
sai?”
“Davvero?”
“Uh-huh.
Bravissimo.”
“Dove
hai imparato?”
“Quando
ero piccolo e c'era la guerra, mia madre ha fatto per un po'
l'infermiera in un ospedale da campo.”
“Tu
eri lì con lei?”
“Beh,
sì. Dove vuoi che mi mettesse? Eravamo solo noi
due.”
“Quanti
anni avevi?”
“Una
decina. Aiutavo con le fasciature o altro, quando c’era
bisogno.”
Così
parlando, il ragazzo si incamminò verso il punto dove aveva
lasciato
il cavallo. L'altro cavallo, evidentemente addestrato a non
allontanarsi dal padrone, seguiva Finch anche senza bisogno di essere
condotto per le redini.
Quando
arrivarono a destinazione, Rory aiutò per prima cosa il
compagno a
sedersi a terra accanto al rigagnolo, con la schiena contro una
roccia, poi andò ad attingere un po' d'acqua, si
inginocchiò di
fianco a lui e gliela fece bere. “Come va?” gli
chiese.
“Sono
stato meglio.” Finch cercò senza successo di
raddrizzarsi, poi
proseguì: “Ma tu... dopo tutto quello che avrai
visto negli
ospedali, hai scelto lo stesso di fare il soldato?”
Il
ragazzo gli rivolse un sorriso amaro. “Diciamo che non ho
avuto
molta scelta, in realtà. O soldato o in prigione, e puoi
immaginare
cosa succede a quelli come me in prigione.”
Così
parlando, riprese il suo fazzoletto, lo lavò, lo
strizzò e cominciò
a pulire la ferita. Finch si irrigidì appena.
“Ti
faccio male?” chiese Rory preoccupato.
“Non
tanto.”
“Posso
continuare?”
L'altro
accennò di sì con la testa. Dopo un po' che il
ragazzo si occupava
del taglio, a bassa voce, in tono quasi esitante, gli chiese:
“Rory... a te piaceva?”
Halloran
si fermò. “Cosa?”
“Quello
che...” Clarence esitò, forse alla ricerca di
un’espressione che
non suonasse troppo cruda. Alla fine scelse: “Quello che
facevi per
vivere.”
Il
ragazzo ebbe l'impressione che fosse molto tempo che il compagno
stava rimuginando quella domanda. Ponderò se dirgli di
sì o di no,
cercò di immaginare cosa avrebbe comportato l’una
o l’altra
risposta. “Dipende,” rispose alla fine con
sincerità.
“Da
cosa?”
“Il
più delle volte lo facevo solo per tirare avanti, ma con
alcuni mi piaceva.” Deglutì: nel bene e nel male,
si rese conto
che ormai si era spinto troppo avanti per tornare indietro. Con voce
incerta aggiunse: “Con te mi piacerebbe.”
A
quella frase seguì un lungo silenzio, tanto che il ragazzo
si
convinse di aver osato troppo, e che la confidenza così
faticosamente raggiunta si fosse irrimediabilmente incrinata, poi
Finch in tono grave disse: “Mi fai onore.”
Rory
sentì il cuore saltare un battito. Lo fissò negli
occhi, cercando
ansiosamente nel suo sguardo una conferma di ciò che aveva
appena
udito. “Cosa?” mormorò con voce appena
udibile.
“Mi
fai onore,” ripeté Clarence con fermezza.
Il
ragazzo abbassò gli occhi sulla propria mano, che stringeva
ancora
il fazzoletto intriso di sangue. Senza accorgersene, aveva serrato le
dita così forte che rivoli rossi gli scomparivano
giù per la
manica.
“Ti
faccio… onore?” mormorò con voce
incerta. Si era sentito dire di
tutto, nella sua breve vita, ma mai nulla che avesse a che fare con
l’onore.
“Sei
un giovane leale e coraggioso, sarei stato orgoglioso di averti nel
mio squadrone.”
Il
ragazzo si rese conto che quello probabilmente era per l’uomo
il
complimento più grande che avrebbe potuto rivolgergli.
“E io...”
Alzò lo sguardo fino a incontrare il suo. Sbatté
gli occhi, che di
colpo si erano fatti umidi, e si accorse che un groppo in gola gli
rendeva difficile parlare. “Io sarei stato orgoglioso di
servire ai
tuoi ordini.”
L’altro
sollevò il braccio sano a cingergli le spalle, e lo
tirò verso di
sé. Egli si piegò appena in avanti, e gli
posò un bacio sulle
labbra, che a quel tocco fremettero.
Poi
si fece indietro e rimasero a guardarsi incerti, forse timorosi di
fare di più. Alla fine il ragazzo si passò una
mano sul viso
asciugandosi gli occhi, sorrise e disse: “Sarà
meglio che finisca
di sistemare la tua spalla, che ne dici?”
“Va
bene.”
Gli
sfiorò il petto con una carezza, sentì il suo
cuore battere forte e
involontariamente sorrise. Di nuovo pensò al passato: era
stato
scopato in ogni modo possibile, aveva concesso tutto di sé a
uomini
che poi non aveva mai più rivisto. Aveva preso cazzi,
brutalmente
parlando, di ogni genere. Ma l’unico che gli era entrato
veramente
nell’anima era Clarence Finch-Hatton, al quale aveva dato
solo un
bacio come quelli che si scambiano i ragazzini alla prima cotta.
§
Il
crepitare del piccolo fuoco era l’unico suono che si udiva
nella
gola. In alto, tra le cuspidi ormai nere dei monti, il cielo andava
tingendosi di indaco e cobalto, e qua e là cominciavano a
fare
capolino le prime stelle.
Illuminato
dai riflessi arancioni delle fiamme, il ragazzo sedeva quieto, lo
sguardo fisso su un piccolo recipiente di metallo nel quale
sobbollivano magre razioni militari di lardo e fagioli. Un
po’ di
pane raffermo si stava scaldando su una pietra.
Poco
lontano, avvolto nelle due coperte, Finch dormiva un sonno inquieto,
probabilmente gravato da incubi. Rory si alzò, gli
andò vicino. “Va
tutto bene, Clarence,” sussurrò accarezzandogli i
capelli. Gli
aggiustò le coperte e l’uomo parve calmarsi un
po’. Si chiese se
stesse sognando della guerra, o della sua casa distrutta dalle truppe
del generale Sherman.
Si
tastò la tasca, nella quale c’erano ancora le
fotografie di
Clarence, che lui aveva frettolosamente messo via quando gli Indiani
avevano attaccato l’accampamento.
Tornò
al suo posto accanto al fuoco, rimestò il pasto con una
forchetta,
poi le tirò fuori e di nuovo le scorse lentamente,
soffermandosi su
ognuna di esse. Era come se ormai conoscesse anche lui tutte quelle
persone: la sorella di Clarence, i suoi genitori, la sua governante
di colore, il suo cane di razza, il purosangue… E lui
stesso, in
uniforme, bello e severo, con lo sguardo rivolto verso
l’osservatore
in un’espressione che riusciva a essere al tempo stesso
indagatrice
e altera. Era più giovane, in quell’immagine, era
baldanzoso.
Aveva lo sguardo sereno e fiero, come chi è chiamato a
compiere un
dovere duro ma necessario.
Rimise
via le foto, raccolse le ginocchia contro il petto e vi
appoggiò
sopra il mento. Fissò di nuovo lo sguardo sul compagno. Il
baluginare mutevole delle fiamme lo faceva apparire e scomparire
nella penombra: ogni tanto il fuoco si rifletteva sui suoi capelli
biondi, oppure metteva in risalto la linea netta e decisa della
mascella, o il rilievo nervoso dei muscoli del collo.
Avrebbe
voluto abbandonare la cena al suo destino, andare a sdraiarsi accanto
a lui e stringerlo a sé. Immaginò il peso e il
calore di quel corpo
forte contro il suo e dovette distogliere lo sguardo mentre
un’ondata
di eccitazione lo attraversava come fluido elettrico.
Rimestò
di nuovo la cena. Non molto, obiettivamente, ma abbastanza per dar
loro un po’ di forze fino a Coyote Point. “Ammesso
che riusciamo
ad arrivarci,” disse a mezza voce, rivolgendosi ai due
cavalli, che
masticavano tranquilli col muso immerso nel sacco della biada.
Quella
pur sussurrata constatazione ebbe il potere di ridestare Finch, che
aprì gli occhi e si guardò intorno stranito.
“Che ore sono?”
chiese con voce roca.
Il
ragazzo si voltò verso di lui e rispose: “Non lo
so, non ho
l’orologio, però ormai è
buio.”
L’altro
fece per mettersi seduto, ma una fitta di dolore lo costrinse a
interrompere il movimento. “Perché mi hai lasciato
dormire?”
chiese comunque, guardandosi intorno come se faticasse a riconoscere
ciò che lo circondava.
“Ne
avevi bisogno,” rispose il ragazzo, “hai perso
molto sangue.”
“Non
c’è tempo di dormire.” Finch
sondò i dintorni, aggrottando le
sopracciglia nella luce ormai scarsa. “La mia
giubba?” chiese. Si
toccò la fasciatura. Cercò di muovere il braccio,
ma il volto gli
si contrasse in una smorfia di dolore. “Dobbiamo
andare,” disse
comunque.
“Siediti,
Clarence,” disse il più giovane. “Sai
anche tu che dieci minuti
in più o in meno non faranno poi quella
differenza.”
Finch
chinò la testa come per un rimprovero. “Se solo
non avessi dormito
così tanto...” mormorò, con lo sguardo
fisso sulla sabbia, che
alla luce delle fiamme prendeva una tonalità di ruggine
scura come
vecchio ferro dimenticato.
“Sei
ferito.”
L’altro
rialzò il capo con uno scatto. “E che
importa?” replicò, il
tono improvvisamente duro. “Che importa se sono ferito o
stanco,
quando la salvezza dei miei compagni dipende da me?”
“Se
non sei in grado di stare in sella perché sei troppo debole,
importa
eccome.”
Finch
non replicò, e si chiuse in un silenzio che a Rory parve
carico di
brutti ricordi.
Il
ragazzo lasciò passare qualche minuto, poi tolse dal fuoco
il
recipiente che aveva posto a scaldare, raccolse le fette di pane e lo
raggiunse. “Mangiamo qualcosa,” gli propose. Si
sedette accanto a
lui, sufficientemente vicino da sfiorarlo con la spalla, e si protese
a baciarlo piano sui capelli. Gli mise in mano un cucchiaio.
“Mangiamo,” ripeté.
“Io...”
“Non
dire che non ti va, l’ho fatto con le mie mani.”
Clarence
fece un pallido sorriso e rispose: “D’accordo,
mangiamo
qualcosa.” Piegò la testa fino a sfiorare quella
del ragazzo.
Quando
ebbero finito, Finch si guardò intorno e chiese:
“Dov’è la mia
giubba?”
“L’ho
lavata, era fradicia di sangue.”
“Dov’è?”
ripeté l’altro imperterrito.
Il
ragazzo gliela porse. “Sarà un po’
umida,” lo avvertì.
“Fa
niente.” Poi, dopo una pausa: “Aiutami a
indossarla, per favore.”
Rory
gliela fece passare sulla spalla ferita, stando attento a non
rovinare il bendaggio di fortuna che aveva improvvisato con la
propria camicia di ricambio. Guardò il cielo, che era ormai
nero, e
punteggiato delle prime stelle, poi chiese: “Vuoi partire
adesso?”
“Sarà
più difficile che ci vedano.”
Il
ragazzo fece girare uno sguardo tutt’intorno, come se temesse
di
veder spuntare degli Apache da un momento all’altro.
“C’è
pericolo?” gli chiese.
Finch
annuì. “Gli Indiani non sono stupidi, sanno che i
convogli mandano
in giro delle pattuglie a esplorare i dintorni. Benché solo
soldati
semplici, tu ed io abbiamo pur sempre due cavalli, due carabine, due
pistole, delle coperte e dei vestiti. È un buon
bottino.” Fece una
pausa, poi soggiunse: “Senza contare che vorranno evitare il
rischio di una spedizione punitiva.”
“Tu
dici che ci sarà una spedizione punitiva?”
“Fa
parte del gioco. Se riusciamo ad arrivare a Coyote Point e a dire che
hanno ucciso un bel po’ dei nostri e razziato tutti i
rifornimenti,
ci sarà la ritorsione.”
Halloran
non rispose. Quella era una strana guerra, che sembrava combattuta di
ritorsione in ritorsione. Indiani che attaccavano i convogli dei
pionieri, soldati che attaccavano gli accampamenti degli Indiani che
avevano attaccato i convogli, Indiani che attaccavano i forti dei
soldati che avevano attaccato gli accampamenti… e
così via.
“Finirà mai?” chiese, quasi rivolgendosi
a se stesso.
“Carica
le armi,” disse Finch per tutta risposta, “e
ricorda: tieni
l’ultimo colpo per te.”
§
Si
lasciarono alle spalle la fenditura tra le rocce e il rigagnolo dal
lieve mormorio ipnotico. Il fuoco ormai spento aveva smesso di donare
alle pareti di arenaria sfumature di miele e ambra, e davanti a loro
si estendeva la brulla immensità della pianura, blu-grigia
sotto la
luce fredda della luna.
“È
meglio che stiamo a ridosso delle montagne,” disse Finch,
“saremo
meno visibili.”
Si
misero in movimento.
Man
mano che i suoi occhi si abituavano all’oscurità,
il ragazzo
riusciva a cogliere sempre più particolari di ciò
che lo
circondava: vide una volpe schizzare fuori da dietro una roccia, e
afferrare qualcosa che emise un debole squittio, e vide la sagoma
scura di un rapace notturno che li scrutava dal ramo di un albero
secco.
Se
si concentrava, riusciva a cogliere mille suoni, dal richiamo basso
del gufo al frinire lontano degli insetti. L’aria era fresca,
e si
portava dietro il profumo amaro dell’enotera. Halloran si
sorprese
a scrutare il terreno alla ricerca delle sue corolle gialle.
La
catena che stavano costeggiando era una massa nera e frastagliata,
che ricordava un drago addormentato. Era incombente, nei suoi tratti
più impervi, e si addolciva, coprendosi addirittura di una
bassa
vegetazione, nelle zone che il vento aveva scavato maggiormente. Fra
le pietre erose di udiva a tratti il lontano mormorio
dell’acqua.
Il
ragazzo spronò il cavallo fino ad affiancarsi al compagno, e
a bassa
voce gli chiese: “Come va, Clarence?”
“Posso
farcela.”
“Ti
fa male la spalla?”
“Non
tanto.”
Per
un po’ proseguirono in silenzio, poi a un tratto Finch disse:
“Mi
piaceva la notte. Quando arrivava l’estate, a Mon Repos
fiorivano
le gardenie, e c’erano cascate di glicini e gelsomini:
l’aria era
così carica di profumi che stordiva.” Si
interruppe, il ragazzo lo
fissò, ma non osò dire nulla. Fu
l’altro che dopo un po’
riprese: “A Eleanor piaceva stare fuori, nelle notti
d’estate. Si
faceva portare una lanterna sul patio, e poi sedeva sulla sua
poltrona di vimini e ricamava o leggeva, e intanto ascoltava il canto
degli usignoli.” Di nuovo fece una pausa, a Rory parve di
vederlo
deglutire come quando si cerca di non piangere. Infine
proseguì:
“Quando sono arrivati, lei era sul patio che leggeva. Uno
sparo
pulito, in mezzo agli occhi. Penso che non si sia nemmeno accorta di
morire.”
Il
ragazzo ripensò alla fotografia della giovane donna
graziosa, con
l’abito chiaro e l’ombrellino di pizzo.
“Mi dispiace,”
mormorò.
L’altro
alzò le spalle. “Io ero al fronte,”
disse poi, “non ho potuto
fare niente, se non continuare a combattere.” Poi tacque, e
per un
po’ gli unici rumori che si udirono furono lo scalpiccio
degli
zoccoli e il tintinnare dei finimenti.
“Clarence?”
mormorò il ragazzo dopo un po’.
“Ma
è servito a poco,” concluse l’altro in
tono cupo. “Vedi dove
sono finito.”
“Clarence.”
Rory fece spostare il cavallo finché non furono a contatto
di
staffa, e poi protese una mano a toccare le sue, strette sulle
redini. “Per quello che può valere, io ti voglio
bene,” gli
disse.
L’altro
esitò qualche secondo, poi rispose:
“Anch’io te ne voglio,
Rory.”
L’alba
arrivò con una linea dorata sull’orizzonte, e con
pennellate di
rosa e viola sulle ondulazioni della pianura. Le rocce persero
l’aspetto di fantasmi neri e cominciarono a colorarsi di ocra
nel
cielo che andava impallidendo.
I
primi raggi del sole facevano brillare come gemme le rare gocce di
rugiada.
Finch
tirò le redini e si guardò intorno.
“Non siamo lontani,” disse
poi.
Il
ragazzo scrutò a sua volta la distesa brulla, che si
estendeva a
perdita d’occhio: niente faceva pensare che di lì
a poco avrebbero
trovato un fortino difeso da soldati blu.
“Qualche
miglio e ci siamo,” precisò l’altro.
“Come
fai a saperlo?”
“Ho
visto una mappa nell’ufficio di Lane, la catena che abbiamo
seguito
corre parallela alla pista. Se consideri che quando ci hanno
attaccati mancava più o meno un giorno di marcia a Coyote
Point,
direi che ormai dovremmo esserci.”
“Beh,
non sarà mai troppo presto,” commentò
il ragazzo, che con
l’aumentare della luce cominciava a sentirsi sempre
più
vulnerabile.
Ripresero
la marcia. L’aria era ancora fresca, ma già
risuonavano i richiami
dei primi uccelli diurni. Il sole basso sull’orizzonte
costringeva
a tenere il cappello calato sugli occhi.
Poteva
essere passata un’ora quando Finch d’improvviso
tirò le redini,
e prese a scrutare ansiosamente in lontananza. Halloran
guardò nella
stessa direzione, e si sentì gelare il sangue: qualcosa si
muoveva.
Si
voltò verso il compagno, e vide che aveva la sua stessa
espressione
tesa. “Apache?” mormorò.
“Andiamo,”
disse l’altro per tutta risposta.
Ripresero
la marcia. Già stanchi per il trasferimento notturno, i
cavalli
sbuffavano e inciampavano sulle pietre.
Halloran,
che ogni tanto si voltava indietro, vedeva le figure farsi sempre
più
grandi. “Clarence, cosa facciamo?” osò
chiedere dopo un po’.
“Possiamo
solo andare avanti, e pregare che Coyote Point non sia
lontano.”
Procedettero.
Gli Apache ormai li avevano individuati, e fin da quella distanza si
udivano flebili le roche grida di guerra con le quali si incitavano
l’un l’altro.
I
due cavalli erano coperti di sudore, ansimavano e sbuffavano
costretti a un’andatura che non sarebbero riusciti a
mantenere a
lungo.
All’orizzonte
comparve una sagoma scura, leggermente ammantata di foschia.
“Coyote
Point!” urlò il ragazzo. Il sibilo di una freccia
spense
immediatamente il suo entusiasmo: si girò e vide che la
banda di
guerrieri Apache si era avvicinata ulteriormente.
“Ormai
siamo a tiro,” disse Finch al suo fianco.
“Che
facciamo?”
Ci
fu qualche secondo di angoscioso silenzio, infine Clarence chiese:
“Rory, ti fidi di me?”
Il
ragazzo si voltò stupefatto verso di lui.
“Sì, certo,” gli
rispose di getto.
“Allora
devi fare esattamente quello che ti dico.”
L’altro
aggrottò le sopracciglia mentre una sorda sensazione di
angoscia lo
pervadeva. “Sarebbe a dire?”
“Mi
lasci la tua carabina e le munizioni, io mi metto su una roccia in
copertura e li tengo lontani. Tu intanto ti porti dietro il mio
cavallo e parti più veloce che puoi verso il forte. Appena
il tuo
cavallo non ce la fa più monti sul mio, vai a chiedere aiuto
e poi
torni qui, d’accordo?”
Rory
si sentì mancare la terra sotto i piedi. “Ma io
non voglio
lasciarti!” esclamò.
L’altro
gli rivolse uno sguardo duro e rispose: “Non abbiamo altra
scelta.
Gli Apache stanno arrivando, non ce la faremmo mai a raggiungere il
forte in queste condizioni, ci prenderebbero entrambi. Così
invece
hai una possibilità.”
“E
tu?”
“Io
li tengo a bada da qui.”
“Ma
Clarence...” Avrebbe voluto dirgli che non sarebbe andato da
nessuna parte senza di lui, che preferiva mille volte morire
piuttosto che abbandonarlo, che nessun guerriero Apache era in grado
di spaventarlo se aveva lui accanto, ma l’altro lo
incalzò: “Non
abbiamo molto tempo, Rory.”
Il
ragazzo sentì le lacrime pungergli gli occhi. “Non
voglio
lasciarti,” mormorò con voce rotta, ma
l’altro replicò: “Devi
andare, Rory. È la nostra unica
possibilità.”
E
Rory Halloran, soldato della cavalleria delle pianure, si
trovò a
galoppare, con le ultime energie del suo povero cavallo stanco e le
lacrime che gli annebbiavano la vista, verso la mole tozza del
fortino di Coyote Point.
§
Clarence
Finch-Hatton si sistemò nella nicchia sopraelevata che aveva
individuato nel fianco dell’altura, e controllò
che la copertura
dal basso fosse completa. La ferita gli doleva, ma era alla spalla
sinistra, non gli avrebbe dato fastidio per sparare. Con gesti
misurati appoggiò accanto a sé le due carabine
cariche. Sapeva che
non avrebbe avuto il tempo di ricaricarle. Si sporse a controllare il
numero di guerrieri in avvicinamento, quindi estrasse dal fodero
anche la Colt e la posò su una pietra poco lontano.
Inspirò
profondamente: provava per la prima volta dopo tanto tempo una
sensazione di pace interiore, di completezza. Era come se Dio gli
stesse offrendo la possibilità che dieci anni prima gli
aveva
negato.
“Non
ti prenderanno, Rory,” disse fra sé e
sé. Imbracciò la prima
delle carabine, si stese sulle pietre cercando di far sì che
il suo
corpo aderisse completamente a esse, strinse l’arma quasi con
tenerezza. Inquadrò nel mirino il primo degli Indiani e fece
fuoco.
L’uomo rotolò giù da cavallo.
Impassibile,
Finch azionò la leva di caricamento. Il bossolo rovente
schizzò via
e atterrò dietro le sue spalle con un tintinnio, il secondo
proiettile entrò nella camera di scoppio.
§
Il
cavallo letteralmente gemeva a ogni falcata, i fianchi erano coperti
di schiuma.
“Resisti!
Resisti!” implorava il ragazzo, con le lacrime che gli
scendevano
dagli occhi come linfa da una vite tagliata. “Ti prego,
resisti!”
La
pianura era diventata una macchia indistinta, il forte in
avvicinamento era un cubo scuro che da quella distanza sembrava quasi
un giocattolo per bambini.
“Resisti!”
urlò per l’ennesima volta, spronando
l’esausto animale.
Il
forte cominciò a delinearsi nei suoi contorni, comparvero
delle
torrette, spuntò una bandiera a stelle e strisce che
ondeggiava
pigra nella brezza del mattino. Individuò dei soldati.
“Aiutatemi!”
gridò. “Aiuto! Vi prego, aiuto!”
Agitò il braccio sopra la
testa.
Ormai
non sapeva più nemmeno cosa stava dicendo, implorava,
piangeva,
incitava il cavallo, si raccomandava a Dio e ai Santi, pregandoli di
risparmiare la vita di Clarence. Di prendersi la sua, se proprio
volevano, ma di lasciare in vita lui.
Riaprì
gli occhi circondato da una decina di soldati vocianti. Era sdraiato
per terra, non vedeva più il cavallo. Cercò di
alzarsi, ma qualcuno
lo spinse giù. Gli porsero una borraccia, lui si
divincolò e
l’acqua gli finì addosso.
“Aiutatemi!” ansimò. “Vi
prego,
dobbiamo andare subito! Il mio compagno è rimasto
indietro!”
I
militari si scambiarono occhiate perplesse.
“Indietro?” disse
qualcuno, “Allora è bell’e
morto.”
“No!”
L’urlo che uscì dalla gola del ragazzo fece
indietreggiare chi si
trovava più vicino. Halloran saltò in piedi.
“No!” ripeté
angosciato. “Non è morto! Dobbiamo andare ad
aiutarlo, vi dico!”
Arrivò
un graduato, che lo fissò perplesso e chiese: “Che
cosa succede,
soldato?”
“Il
mio compagno è rimasto indietro!”
ripeté per l’ennesima volta.
Si guardò intorno agitato, con la sensazione di essere
circondato da
immobili statue di cera. Perché nessuno voleva dargli
ascolto?
Perché non si precipitavano fuori a salvare Clarence?
“Aiutatemi!”
urlò, con la gola che ormai gli bruciava come fuoco.
L’altro
lo prese per le spalle e lo scrollò. “Adesso
calmati, soldato,”
gli ingiunse. “Cosa sta succedendo?”
“Gli
Apache ci stavano inseguendo. Il mio compagno è rimasto
indietro per
trattenerli, in modo da dare a me il tempo di arrivare qui. Ora
dobbiamo aiutarlo, vi prego!”
Al
concitato racconto, l’altro annuì grave.
Fissò il ragazzo negli
occhi, una strana lunga occhiata, poi ordinò: “Una
pattuglia con
me.”
“Fatemi
venire!” lo implorò Halloran.
Il
graduato gli diede un paio di pacche sulla schiena, come avrebbe
fatto per calmare un bambino in preda al panico. “Certo che
verrai,
giovanotto. Senza di te, come faremmo a trovarlo?”
Solo
quando fu in sella assieme agli altri rifletté su quello che
il
sottufficiale gli aveva detto: perché avevano bisogno di lui
per
trovare Clarence? Ovviamente il suo compagno si sarebbe presentato da
solo, alla vista delle uniformi blu.
§
I
guerrieri a terra erano più di dieci, degli altri non
c’era
traccia. Sulla zona regnava un silenzio assoluto.
Rory
si guardò intorno stranito, e quasi sussultò
quando il graduato gli
chiese: “Ebbene, dove si era nascosto il tuo
compagno?”
Era.
Con
mano tremante, il ragazzo indicò la rientranza fra le rocce.
“Beh,
andiamo a vedere,” disse l’altro.
Il
ragazzo smontò da cavallo. D’improvviso si accorse
di sentire male
in tutto il corpo, e di avere la testa pesante come dopo una sbronza.
Si mosse come in trance, incespicando. Sentì qualcuno
chiedere: “Che
fai, piangi?”
Si
imbatterono dapprima nel corpo di un guerriero raggomitolato, con due
buchi di pallottole nel petto, poi ne trovarono un altro colpito
all’addome.
Infine
c’era lui.
Clarence
Finch-Hatton stringeva ancora la pistola in pugno. Giaceva supino, il
volto aveva un’espressione serena, sembrava quasi che sulle
labbra
gli aleggiasse un vago sorriso. La ferita alla tempia quasi non si
notava: sembrava piuttosto che fosse addormentato, e immerso in un
bel sogno.
“Clarence,”
balbettò Rory con voce incolore.
“Andiamo,
prima che quelli tornino,” disse qualcuno.
Il
vento del mattino trasportava roche grida di guerra. Il ragazzo
sorrise fra sé e sé e mormorò:
“Forse ci rivedremo presto,
Clarence.”
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