Capitolo
Trentuno
Le
stelle, o qualunque cosa sia ad agire da fonte di luce per quel
mondo, pare stiano declinando verso un tramonto che rende tutto un
po’ azzurrognolo. Non ha incontrato altre creature poco
amichevoli,
e di questo è immensamente grato; per contro avverte un
principio di
infiacchimento e teme che dipenda da quel posto e dal fatto che
lì
perfino le basilari emozioni siano aliene tanto quanto le creature
che vi risiedono, e non possano dunque contribuire a risanare la sua
fame.
Non ha idea di quanto a lungo sarà costretto a rimanere
confinato lì
dentro, e inizia a comprendere fin troppo chiaramente il motivo per
il quale pochi fra i demoni che vi sono stati sigillati siano
riusciti a sopravvivere, considerando che le alternative sono solo
due: languire d’inedia e noia, oppure trovarsi a dover
sfidare
l’ignoto e rischiare in ogni momento di finire in pasto a uno
qualunque dei mostriciattoli famelici che si aggirano lì
attorno.
Nemmeno a dirlo, nessuna delle due opzioni gli pare allettante.
Chissà se riuscirà ad adattarsi alle
novità del luogo abbastanza
velocemente da poter tornare in forze oppure finirà sbranato
ben
prima, si interroga acidamente. Sbuffa. Non è trascorso
neppure un
giorno (se di giorni ancora si può parlare, dopo tutto) e
già si
sta piangendo addosso come una povera, sfortunata donzella.
“Se
questo non è patetico” riflette, osservando il
cielo virare
all’indaco. Forse dovrebbe prendere in considerazione la
possibilità di iniziare a cercarsi un rifugio per la notte;
non ha
idea se sia vivibile come lo è sulla Terra, una volta calata
l’oscurità. Tuttavia la prospettiva di esplorare
anfratti e
caverne alla mezza luce di un imbrunire ormai alle porte non lo
alletta particolarmente; quasi quasi preferirebbe surgelarsi
all’aperto ma con una buona visuale su potenziali minacce.
Poi
riflette che, in effetti, non è detto che quel cielo
estraneo
disponga di un qualche genere di illuminazione notturna, e di certo
lui non è solito portarsi appresso fonti di luce tascabili.
Arriccia
il naso in una smorfia contrariata al solo pensiero:
“Figurarsi,
l’Uomo Nero che se ne va a passeggio con una lampada. Quando
mai?”.
È
proprio mentre riflette sul
da farsi che i suoi occhi intercettano un movimento inatteso
all’orizzonte; osserva con maggior attenzione e
ciò che individua
non gli va per nulla a genio: un intero stormo di animaletti
dalle intenzioni palesemente poco amichevoli si sta rapidamente
dirigendo incontro al punto in cui si trova lui. Sperava di avere un
po’ di tranquillità, ma la pausa fra uno
spiacevole incontro e
l’altro è purtroppo durata un’inezia, o
per lo meno tale è ciò
che ha percepito. Si rimette dunque in piedi, osserva ancora per un
momento l’ultima novità che si sta velocemente
appressando, si
guarda intorno individuando presto la via più breve per
abbandonare
il suo momentaneo rifugio e, dopo un fugace sospiro rassegnato, si
allontana addentrandosi in un folto intrico di concrezioni rocciose
alla ricerca di un nuovo posto tranquillo e augurandosi che le
ramificazioni attorno a lui possano rendere difficoltoso un eventuale
tentativo di attacco diretto. Ciò che però non si
aspettava è di
trovarsi poco dopo di fronte a una figura imponente, sbucata
apparentemente dal nulla, dall’aspetto di un enorme leone,
azzurro
e con gli occhi fiammeggianti.
«Questo
posto diventa sempre
più assurdo» bercia a bassa voce, studiando
cautamente l’animale,
o quello che appare come tale.
«Cosa
sei?» chiede
improvvisamente una voce profonda che proviene da quello che Pitch
non è più troppo sicuro di poter ritenere un
semplice animale,
seppur di taglia extra-large.
«Uno
spirito» replica
guardingo, senza mai staccare gli occhi da quelli della creatura.
Creatura che alle
sue parole
di spiegazione assottiglia lo sguardo e snuda zanne lunghe quanto un
suo braccio. Pitch deglutisce a disagio ma non azzarda a fare una
mossa, non senza conoscere le intenzioni né le
potenzialità di ciò
che gli si para di fronte.
«Non
dovresti trovarti qui»
lo ammonisce la creatura con tono duro.
Con una smorfia
amareggiata
serra le labbra e tacita un ringhio esasperato. «Ne sono
piuttosto
consapevole. Non mi trovo qui per mia scelta, tuttavia» fa
notare,
asciutto.
La cosa
avanza di un passo e Pitch, ancora immobile, ha un fremito che sa
molto di disperazione. Che fare? Se ora tentasse di fuggire potrebbe
ritrovarsi diritto nelle poco accoglienti fauci di quel gatto troppo
cresciuto. Mentre pondera sulle proprie possibilità e sul
proprio
incerto destino, maledicendo la sua sorte avversa, il suo sgradito
interlocutore solleva repentinamente uno sguardo affatto lieto al
cielo ormai livido ed emette un sordo brontolio minaccioso.
«Arpie»
ringhia, e i suoi
muscoli si gonfiano.
Pitch trattiene il
fiato e
indietreggia lievemente. Un fruscio distrae per un attimo la sua
attenzione e un attimo dopo piume piovono dal cielo mentre le zampe
del leone fanno a fette gli sfortunati volatili che si erano
avvicinati troppo alla fiera.
«Odio le
arpie» brontola il
leone.
«Mh»
soffia Pitch in un
ansito appena udibile, ora tremando visibilmente perché non
è
affatto riuscito a scorgere i movimenti del leone quando ha fatto a
pezzi i visitatori piumati. Chissà, forse non
avrà la fortuna di
vedere una nuova alba, questa volta.
*
Sono
così vicini l’uno
all’altro che, nell’oscurità, sembrano
un unico grumo
fuligginoso e vibrante. Ba’al si muove irrequieto sul posto,
facendo vagare in continuazione lo sguardo tra Phanês e il
fratello;
Mot invece respira a stento e fissa senza quasi batter ciglio la
scintillante figura ferma al fianco dello specchio. Nessuno dei due
osa aprire bocca, uno troppo nervoso per trovare parole sensate da
dire, l’altro troppo sorpreso, incredulo di trovarsi davvero
di
fronte a quel
dio.
Phanês,
dal canto suo,
osserva entrambi con una punta di curiosità e il resto
dell’ambiente
con malcelata disapprovazione.
«Orbene,
temo di non avere il
piacere di conoscere i vostri nomi» prova allora ad attaccare
bottone, stanco di quell’atteggiamento cupo che gli provoca
spiacevoli sentimenti cui non è per nulla avvezzo.
Mot sgrana gli
occhi e smette
del tutto di respirare, Ba’al invece si schiaffa il palmo di
una
mano sul viso e scuote il capo, poi dà una leggera spinta al
fratello perché si decida a dire qualcosa. Così
Mot riprende a
respirare, scocca un’occhiata risentita al fratello e
incrocia le
braccia, sbuffando.
«Credevo
dovessi sapere tutto
di tutti, tu» recrimina, un po’ deluso.
Phanês lo
fissa con aperta
sorpresa e, contro ogni buon senso, ridacchia.
«Mi hai
forse scambiato per
una comare pettegola? Non sono è mia abitudine farmi gli
affari
degli altri, tutt’altro direi. Conosco il mondo, questo
sì; so
come funziona, come farlo funzionare, perfino come fare in modo che
smetta di funzionare. So come creare la vita e come
toglierla».
Mot sussulta, colto
alla
sprovvista da una constatazione avanzata con una candida
semplicità
che stona decisamente con il significato delle parole appena udite.
«È
possibile ch’io sia
male informato, ciò nonostante avevo avuto
l’impressione tu fossi
latore di luce e vita, piuttosto che dispensatore di morte»
replica
incerto.
E Phanês
sorride di un
sorriso un po’ particolare, quasi paterno.
«Così dicono, amico
mio. Ma la vita e la morte fanno parte di un unico ciclo. Inoltre
dimentichi che questo» fa presente, picchiettando lievemente
una
mano sulla cornice dello specchio «l’ho creato io,
e non
certamente per regalare un giardino di piaceri a chi vi ho sigillato
all’interno».
Il custode
dell’oltretomba
deglutisce, ora decisamente a disagio per la piega spiacevole presa
dalla conversazione. «Temo allora di essere stato male
informato, in
questo caso» soffia contrito.
«Forse. O
più semplicemente
sono stati omessi particolari non graditi» ammette
Phanês con tono
leggero. «Ora, torniamo a noi: sapete chi sono,
evidentemente, o
comunque ne avete un’idea di base. Al contrario, io ancora
non ho
idea di chi siate voi, seppur inizio a sospettare qualcosa, in
effetti».
*
Il posto non
è certamente di
quelli dove organizzerebbe volentieri una festicciola: è
deprimente,
alienante e ospita specie viventi di cui non sospettava minimamente
l’esistenza e per le quali avrebbe più che
volentieri desiderato
continuare a ignorare la presenza. Peccato non poterselo permettere,
a meno di non puntare a ritrovarsi mutilata a marcire in qualche
canalone.
«Non mi
piace quello che
vedo» lamenta in tono stizzito e preoccupato insieme.
«Per non
menzionare ciò che non vedo» aggiunge in un
sospiro. Dà un leggero
colpetto con la mano al collo di Epiales, qualcosa che a suo modo
appare perfino amichevole, continuando a guardarsi intorno senza
sosta. «Tu riesci a sentire qualcosa?» chiede
all’incubo, nella
speranza che almeno uno di loro sia un grado di ritrovarlo in fretta,
così da abbandonare quel posto che le mette
un’inspiegabile ansia
addosso.
Purtroppo per i
loro progetti,
Epiales scuote il capo desolato e continua a trottare
nell’aria e
ad aguzzare la vista per non rischiare di perdersi alcun movimento,
sia esso di possibili nemici oppure (e sarebbe di gran lunga
preferibile) di amici.
«Dobbiamo
sbrigarci, o questo
posto finirà col distruggerci» lo mette in guardia
Nyx,
inutilmente, dato che anche Epiales riesce ad avvertire le insidie di
quel luogo, che non si limitano a creature pericolose e
potenzialmente mortali come immaginavano inizialmente. Sembra infatti
essere l’ambiente stesso causa di problemi; entrambi
l’avvertono:
un mondo che pare in grado di assorbire la vita, prosciugando
l’ospite. “Ottimo lavoro, padre” riflette
amaramente, non
potendo fare a meno di chiedersi come il demone abbia potuto
sopravvivere millenni rinchiuso lì dentro, quando a loro
sono
bastate poche ore per avvertire lo sfilacciarsi delle loro esistenze.
Stanno ancora
cavalcando,
mentre la volta
celeste
schiarisce
fin quasi al candore, quando senza alcun preavviso vengono circondati
da piume e artigli fino a oscurare il cielo stesso, ed Epiales lancia
un acuto nitrito di orrore, prima di precipitare al suolo con il suo
carico. L’impatto non è dei più
morbidi, ma il peggio ancora deve
arrivare, e se ne rende conto quando sottili unghie acuminate aprono
profonde slabbrature nel suo lucido manto sabbioso, permettendo a
quella dimensione di alterarne la sostanza e renderlo pesante e
rigido. Grida ancora, disperato, e cerca la donna nella speranza che
da essa provenga aiuto e sostegno, ma Nyx è a sua volta nei
guai e
non sembra, tutto sommato, che troverà il tempo per salvare
l’esistenza di entrambi. E allora, affatto disposto a cedere
tanto
in fretta, si scrolla di dosso con violenza un paio di quei corpi
piumati e affilati e sferra un calcio risoluto a un terzo, e poi a
un quarto, e non è importante quanti siano dopo tutto, ma lo
è
piuttosto il fatto che finiranno con il pentirsi amaramente di
essersi messi sulla sua strada.
Ha le fauci
profondamente
piantate nell’ala di uno di quei mostri, e scrolla
convulsamente il
capo nella sadica speranza di strappargliela dal dorso, quando
avverte un cambiamento nell’aria pesante,
l’improvviso innalzarsi
della temperatura circostante e poi una grossa macchia celeste
saettare in un angolo del suo campo visivo, frantumando aria, artigli
e ali in un caotico gracchiare tumultuoso. Un potente ruggito fa
tremare le rocce circostanti, poi intorno solo corpi straziati e
piume bruciate.
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L’Angolino
Buio e Polveroso dell’Uomo Nero (e dell’autrice a
cui piace
maltrattarlo)
Un
paio di considerazioni da spendere sul mio leone.
Lui
è quello che è spuntato senza permesso e senza
essere doverosamente
annunciato. Azzurro, peloso, ardente e con il nome compreso nel
prezzo. Al che io ho alzato le mani e ho detto: “Fai quel che
ti
pare, basta che non mi allontani troppo dal finale”.
È
un parente alla lontana di un altro leone, un pochetto più
famoso:
Graógramán, la Morte Multicolore di Michael Ende,
presente nella
Storia Infinita. Il mio non cambia colore ed è
più grosso.
Per
ulteriori dettagli, rimando ai prossimi capitoli.
Un
saluto,
Roiben
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