Vodka si accese
la decima sigaretta dell’ultima mezz’ora.
Doveva
sorvegliare chiunque entrasse nel parco e la cosa non
gli piaceva per niente. Il loro obiettivo probabilmente non si sarebbe
nemmeno
presentato. Avrebbe preferito di gran lunga restare con Gin a guardia
del boss.
Invece gli era
toccato quel compito ingrato…
Non capiva
perché il ragazzo che cercavano avrebbe dovuto
consegnarsi a loro.
Avevano diffuso
in rete una foto di Yugi, l’ostaggio che
avevano catturato, con due o tre lividi in bella mostra. Gin non si era
trattenuto più di tanto con l’interrogatorio,
nonostante l’ordine fosse di
lasciarlo in vita.
Sulla foto
avevano semplicemente scritto “Caccia al tesoro,
Haido Park”.
Speravano
così sia di far capire all’obiettivo che, se
avesse voluto ritrovare il suo amico, avrebbe dovuto presentarsi
lì, sia di non
mettere in allarme le forze dell’ordine. Era solo un gioco,
non c’era bisogno
di preoccuparsi.
Per la seconda
parte aveva funzionato.
Per la prima,
era una trappola così lampante che Vodka, al
posto del ragazzo, non si sarebbe mai presentato.
Non vedeva perché avrebbe dovuto farlo lui, ma
d’altra parte a volte le persone
con una morale facevano cose molto stupide.
«Qualcosa
da segnalare?» mormorò nel microfono collegato al
suo auricolare. Era in contatto con Chianti, anche lei assegnata al
recupero
del bersaglio; studiava però la scena dall’alto,
appostata sul tetto di un
edificio posizionato di fronte ad un’altra entrata.
Visionava i
passanti attraverso il mirino del suo fucile ad
alta precisione.
«Nulla»
fu la risposta. Chianti sembrava persino più
irritata di lui. «Questo lavoro è una noia! Spero
che il ragazzino si sbrighi
ad arrivare» si lamentò. «Altrimenti il
dito potrebbe scivolarmi sul
grilletto».
Vodka non
replicò; sapeva benissimo che non l’avrebbe mai
fatto, rovinare la missione avrebbe avuto conseguenze piuttosto
spiacevoli per
lei. Anche lui sperava solo di finire in fretta, comunque.
Passò
così, inerte, un’altra mezz’ora.
I visitatori
del parco continuavano ad aumentare; questo era
positivo, in teoria, perché in tutta quella folla
sequestrare qualcuno senza
dare nell’occhio sarebbe stato più semplice, ma
rendeva anche difficile la sua
individuazione.
«Ehi,
Vodka. Tutta la gente, o quasi, che entra da qui sembra
diretta verso uno stesso punto, si muovono a gruppi. Da te come
procede?» gli
gracchiò la voce del cecchino nell’orecchio.
Lui
studiò chi aveva intorno con un po’ più
di attenzione.
In effetti si stava creando una specie di assembramento. Si
alzò dalla panchina
su cui era rimasto seduto tutto quel tempo e si avvicinò per
capire la causa di
tutta quell’agitazione. «Che succede?»
domandò bruscamente ad un ragazzino.
Notò
con stupore che l’età media di quella folla si
aggirava
intorno ai quindici anni.
L’adolescente
che aveva fermato lo guardò seccato.
«C’è un
tipo uguale a quello della foto in rete» disse. Parve
ripensarci subito dopo.
«Come se sapessi di cosa parlo!» sbottò
e si voltò per inoltrarsi ulteriormente
nel gruppo.
Vodka
restò di sasso. Era davvero venuto? Doveva essere
proprio stupido. Bene, meglio per me.
C’era
però da risolvere il problema di tutta quella gente.
«Chianti,
dovrebbe essere arrivato. Ha attirato troppa
attenzione, però» bisbigliò nel
microfono.
Con suo
stupore, l’auricolare gli trasmise la risata della
donna.
«Gin
l’aveva previsto», comunicò lei,
«che qualche idiota
avrebbe creduto alla storia della caccia al tesoro. Ho pronta
un’immagine che
ne comunica la fine, ora la diffondo. Tu accertati che sia davvero
lui… e che
abbia la piramide al collo, soprattutto».
Più
facile a dirsi che
a farsi, pensò Vodka, guardando con ribrezzo la
calca di ragazzini. Assisté
così ad una scena curiosa: si misero a controllare il
cellulare praticamente
all’unisono.
Subito dopo
sentì espressioni irritate, tipo “Ma non
è
possibile!”, “Che significa?”,
“E il premio?”. Ghignò; la seconda
immagine
aveva fatto effetto, evidentemente. Il gruppo si sfoltì e
lui riuscì ad
avanzare.
Ora poteva
vederlo chiaramente: un ragazzo alto, con i
capelli più assurdi che avesse mai visto, ancora circondato
da tre o quattro
ragazzi. Gli altri, più o meno seccati, si stavano
allontanando tutti.
«Ma
insomma, davvero non sai niente della caccia?!»
sentì
dire ad uno dei ragazzini.
«Nulla
di nulla», rispose il ragazzo con un’alzata di
spalle. La descrizione corrispondeva a quella fattagli da Gin;
però… non ha il puzzle,
notò allarmato Vodka.
Dopo qualche
altra insistenza, lo straniero riuscì a
liberarsi dagli altri ragazzi. Mosse qualche passo verso di lui.
Sembrava
volesse superarlo, ma l’uomo lo fermò.
«Sei
qui per il tuo amico?» domandò.
Il ragazzo si
congelò all’istante.
«Sì», rispose. Non
sembrava intimorito.
«Dov’è
il puzzle?»
«Questo
lo saprete solo quando avrò visto Yugi».
Vodka
serrò il pugno. «Credi di poter dettare
condizioni?»
sibilò minaccioso.
L’altro
lo fissò serissimo. «Esattamente. Avete bisogno
del
mio puzzle, ma se mi uccidete non lo troverete mai, ve
l’assicuro. Ascoltarmi è
il minimo che possiate fare» spiegò.
Quell’arroganza
e sicurezza irritò non poco l’assassino, che
tuttavia ghignò. Ma sì,
credi pure di
averci in pugno. Esistono tanti modi per farti parlare, ragazzino.
«Se
le cose stanno così, seguimi» gli
ordinò. Uscì dal
parco, comunicando a Chianti il passaggio al piano B; invece di
eliminarlo sul
posto e prelevare il puzzle, l’avrebbe portato da Gin. Tutto
questo ovviamente
lo sussurrò tenendosi alla debita distanza dal ragazzo, che
non poté sentire.
Insoddisfatta
per non essersi potuta divertire, la donna
rimise il fucile nella custodia e abbandonò la postazione.
¤
«Si
muovono!»
A seguito di
quell’esclamazione un maggiolino giallo si
staccò lentamente dal marciapiede e si immise in strada.
«Dove
devo andare, Shinichi?» chiese il professor Agasa, il
guidatore del suddetto maggiolino.
«Svolti
alla prima a destra e poi subito a sinistra;
utilizzeremo la parallela per ora, non voglio che ci notino»
spiegò. «Seguiremo
il segnale del trasmettitore fino alla loro base, poi
agiremo» disse, ricevendo
un segno d’assenso dal ragazzo seduto dietro.
«Andrà
bene?» chiese un’agitatissima Anzu. «Non
gli faranno
del male?»
«Non
lo permetterò» affermò Conan con
sicurezza, ma era teso
e si vedeva. «Rientri sull’autostrada, professore,
sembrano diretti fuori
città».
Il dottore
eseguì.
¤
Yugi si trovava
in un’enorme stanza chiusa. Non era legato.
Aveva
perlustrato la stanza per ore cercando una via
d’uscita, ma era stato inutile.
L’unica
porta era serrata ermeticamente; c’era una finestra,
ma delle sbarre gli impedivano di uscirne, e se anche non ci fosse
stato
quell’ostacolo materiale, uscire da lì non sarebbe
stato semplice: era al primo
piano. Lo scoprì affacciandosi.
A complicare
ulteriormente le cose, di fronte all’ingresso
principale – proprio sotto la sua finestra – stava,
immobile, l’uomo biondo che
l’aveva torturato. Il solo vederlo provocò forti
brividi nel giovane Mutou.
Sedette
scoraggiato con la schiena contro il muro esterno.
Cosa
faresti se fossi
qui, Amico?
Un rumore
improvviso lo riscosse bruscamente dalle sue
riflessioni. Sembrava… uno sparo!
Scattò
in piedi e si affacciò nuovamente. Era stato
l’uomo
biondo a sparare, probabilmente, visto che aveva la pistola ancora
alzata e, se
gli occhi non gli stavano giocando uno scherzo, fumante.
Il muso
dell’arma era puntato contro un altro uomo vestito
di nero e… Yugi tremò.
Non vedeva
benissimo a causa della distanza, ma non ebbe
dubbi.
Il ragazzo
accanto alla macchina scura doveva essere Atem.
La sagoma corrispondeva.
Lo stupore di
vederlo in forma fisica passò in secondo
piano. L’hanno catturato…
«Faraone!
No!» urlò, o meglio, ci provò. Dalla
sua gola
secca uscì solo un rantolo inudibile.
Nonostante il
suo ottimismo e la fiducia nei suoi amici, le
speranze di Yugi vacillarono. La situazione sembrava disperata; non
aveva il
suo deck, non sapeva dove si trovasse.
Poteva solo
guardare, e così fece. Vide il nuovo arrivato
spintonare il Faraone verso l’uomo biondo.
Li vide
parlare, ma non riuscì a sentire cosa dicevano.
Avrebbe voluto
agire, gridare ad Atem di scappare da lì, ma
non poteva.
L’unica
cosa che potesse fare era credere nel suo amico,
come aveva sempre fatto.
Mi
fido di te,
pensò, rianimandosi un po’. Non
devo
disperare.
¤
«Giri
qui, professore!» esclamò Conan.
«Ne
sei certo, Shinichi? Loro stanno proseguendo» dicendo
questo, comunque, il dottor Agasa accostò dove gli era stato
detto.
«L’uscita
che stanno per prendere porta in aperta campagna,
non è una strada frequentata. Non possiamo permettere che ci
notino» spiegò il
detective. Aprì la portiera e salto giù
dall’auto, immediatamente imitato dai
due seduti sul retro.
«Lei
aspetti qui!» si raccomandò prima di chiudere la
portiera. Iniziò a correre seguendo il segnale degli
occhiali e tirò fuori il
cellulare; aveva ricevuto un messaggio.
– Ok.
–
Si concesse un
sorriso. Se quella persona stava arrivando,
avevano una speranza.
Era stata una
fortuna che a ricevere Atem avessero mandato
proprio Vodka; non aveva minimamente sospettato la presenza di un
localizzatore. Basandosi sul racconto di Kid, Shinichi sospettava che
li stesse
portando dritti dal capo. Finalmente.
Gettò
uno sguardo inquieto dietro di sé, focalizzandosi
sulla ragazza, Anzu.
Non capiva
perché fosse voluta venire a tutti i costi – o
meglio, lo capiva, ma non vedeva come potesse rendersi utile. Avrebbe
preferito
rimanesse a casa con Haibara.
¤
L’assassino
biondo, seguendo gli ordini, portò Atem dal
capo, in una stanza interna della villa, senza lasciarlo neanche una
volta lì.
Non c’erano finestre.
«Ci
rivediamo, Faraone».
A parlare era
stato un uomo con la maschera da corvo, lo
stesso responsabile dell’arrivo di Yugi, Atem e Anzu in
quella dimensione. Alla
vista del ragazzo egiziano gli si erano illuminati gli occhi
– non che nessuno
avesse potuto notarlo.
«Libera
Yugi». La voce di Atem risuonò nella stanza,
decisa,
senza traccia di paura.
«Visto
dove sei dovresti preoccuparti per te stesso»
replicò
asciutto l’uomo. Gin rafforzò la stretta sulla
spalla del loro ospite.
«Ho detto che ti avrei avuto in
mio potere, e così è stato.
Dov’è il puzzle?»
l’interrogò frenetico,
studiandolo. A ben pensarci… com’era possibile che
avesse un corpo?
«Non
l’avrai, se non liberi il mio amico». Di nuovo, il
tono
di Atem non tradì la minima incertezza.
Gin iniziava a
spazientirsi, ma la reazione del capo stupì
lui e la vittima della sua presa.
L’uomo
scoppiò infatti a ridere, una risata cupa che
rimbombò nella maschera per almeno un minuto.
«Allora
non l’avrò», disse smettendo di ridere.
Il Faraone
lo guardò con sospetto. Se solo non ci fosse stata quella
maschera, avrebbe
potuto provare a decifrare la sua espressione…
«Sembri
confuso, Faraone, ma vedi, io non ho mai desiderato
il puzzle. Quel che volevo realmente sei
tu».
«Non
capisco». Non stava andando esattamente come avevano
pianificato; sapere che il piccolo detective stesse seguendo la
conversazione
grazie al microfono-localizzatore piazzato sul suo bracciale lo
confortò un
po’. Avrebbe potuto aggiustare il piano.
L’uomo-corvo
rise ancora. «Legalo, Gin. Poi lasciaci»
ordinò
bruscamente al suo sottoposto.
Il biondo
s’irritò, ma obbedì. Sperava quasi che
il ragazzo
opponesse resistenza, per potersi sfogare colpendolo, ma questo non
accadde.
Gli assicurò i polsi e lo bloccò su una sedia.
Dopo un ultimo sguardo pieno
d’odio ad Atem, Gin uscì dalla stanza, chiudendo
la porta dietro di sé.
«Era
proprio necessario?»
La voce del
Faraone suonò sorprendentemente calma,
nonostante la situazione bloccata in
cui si trovava.
L’uomo
non gli rispose, ma riprese il discorso di prima. «Ho
detto di volerti, ma non è del tutto esatto. Quel che voglio
realmente è la tua
anima» decretò. Sotto la maschera gli si
disegnò un ghigno.
Aveva mandato
via Gin perché non avrebbe capito; Vermouth
era l’unica a cui avesse confidato i suoi veri
piani, l’unica a sapere delle altre dimensioni.
Tuttavia anche con lei non
era stato completamente sincero. Le aveva fatto credere di poter
condividere la
sua sorte.
Le aveva
parlato di Pandora, la pietra in grado di conferire
l’immortalità, se le si faceva assorbire il giusto
ingrediente… un’anima
millenaria, ad esempio.
Era sempre
stato questo il vero scopo dietro alla sua
Organizzazione: il raggiungimento
dell’immortalità. Grazie ai suoi scienziati
aveva ottenuto soluzioni temporanee, fallibili che l’avevano
sottratto alla
morte… per il momento. Non sopportava più di
dover dipendere da loro, di dover
temere ogni giorno la fine della sua vita. Sarebbe dovuto morire molti
anni
prima, ma si era opposto. Era andato contro natura, aveva ottenuto un
potere
oscuro.
Aveva trovato
le istruzioni sull’uso di Pandora in un’antica
pergamena; trovare la pietra aveva richiesto molto più tempo
di quanto avesse
sperato, ma ora era in mano sua. Il suo ghigno soddisfatto si
allargò
osservando il ragazzo immobilizzato davanti ai suoi occhi.
Mancava
così poco…
Tirò
fuori Pandora; appariva come un normale smeraldo, ma al
suo interno celava qualcosa di ben più interessante.
L’aveva appesa ad un
cordino, e l’ondeggiò davanti agli occhi del
Faraone.
«Stanotte,
con la luna piena, indosserai questa. Se non
tenterai di opporti potrei anche risparmiare il tuo amico»,
affermò.
Atem
seguì la pietra con lo sguardo, come ipnotizzato.
«Che
succederà?»
«Niente
di cui tu debba preoccuparti» rise l’uomo.
«Quando
l’avrai fatto non avrai più alcun pensiero, puoi
credermi».
¤
Conan aveva
fatto segno agli altri di fermarsi dietro ad un
cespuglio. Da lì potevano vedere una villa in lontananza, a
circa cinquecento
metri. Tra il loro nascondiglio e l’edificio,
però, non c’era assolutamente niente.
Avanzare significava comunicare
la loro presenza agli uomini in nero.
Non avevano
detto niente, per un po’. Il finto bambino era
rimasto assorto a lungo, ascoltando qualcosa attraverso un auricolare.
Alla
fine fece un gran sospiro; Anzu notò con stupore che
tremava. «Agiremo
stanotte», disse solo. «Con il buio potremo
avvicinarci senza essere notati
subito… loro aspetteranno la luna piena».
Nessuno lo
contraddisse, anche se il ragazzo accanto ad
Anzu, avvolto in un mantello bianco, non sembrò molto
contento della novità.
«Starà
bene?» chiese la ragazza, lo sguardo sulla villa. Era
preoccupata.
«Sì»
disse solo Conan. Deve
star bene.
Anzu
annuì e si sedette accanto all’ammantellato,
lasciando
liberi i pensieri.
Aveva paura, ma
era pronta. Chiunque fossero quegli uomini,
non li avrebbe perdonati per aver fatto del male a Yugi. Proteggerò
i miei amici.
Pensieri simili
passavano nelle teste degli altri due
ragazzi.
Shinichi era
agitato, eppure lucido. Gli succedeva ogni
volta che affrontava quegli uomini.
Stavolta
sarà diverso,
però. Potrebbe non essercene un’altra.
Passarono
così alcune ore. Valutando che fosse il momento
giusto, Conan mise la mano in tasca e tirò fuori una piccola
scatola, una di
quelle usate per conservare i farmaci.
Ai
gliel’aveva consegnata senza dire una parola; il suo
sguardo, comunque, aveva compensato.
“Fa’ attenzione, Kudo.”
L’aprì
e, cercando d’ignorare il nodo che gli si era formato
allo stomaco, l’ingerì.
Passarono pochi
secondi prima che venisse colto dagli
spasimi sotto gli sguardi inquieti degli altri due ragazzi.
¤
«Che
significa?» domandò freddamente Gin.
Era
già irritato per non essere stato informato dei dettagli
del piano.
Vedere il
ragazzino libero di muoversi raddoppiò la sua
irritazione. Si contenne solo perché, nonostante tutto,
sapeva benissimo che
far arrabbiare quella persona non
era
una buona idea. Neanche per lui.
«Calmati,
Gin. Io e il nostro ospite abbiamo trovato un
accordo».
L’assassino
non celò la sua sorpresa. «Un accordo?»
«Esatto.
Va’ a prendere l’altro e portalo fuori, nel mio
cortile privato» gli ordinò il capo, incurante
dello stupore del sottoposto.
Non gli interessava che capisse, non aveva importanza.
«Quando l’avrai fatto,
tenetevi a distanza».
Pur ribollendo
di rabbia, Gin annuì. Salì le scale e
raggiunse la stanza dove tenevano l’altro prigioniero.
Estrasse la pistola ed
aprì la porta, tenendolo sotto tiro.
Se non altro,
aveva capito che il capo aveva in mente un
qualche tipo di scambio.
«Muoviti».
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