Capitolo
Trentasette
Caldo,
brillante, puro: questo è il sole. Una sensazione quasi
dimenticata
durante tutti quei secoli spesi a trovare una via d’uscita
che non
sembrava esistere. Ma eccola di nuovo, ora, più intensa che
mai,
tanto da tramutare il solito ghigno sprezzante in un vero sorriso di
puro piacere. Gli esseri umani sembravano convinti che i demoni
fossero creature oscure e prediligessero pertanto le
profondità
umide e buie del sottosuolo; Liùsaidh~dorcha, inutile dirlo,
ama il
cielo azzurro, il vento pungente, le nuvole sfilacciate e veloci, il
sole abbacinante e le vette più immacolate. Luce, questo
è
l’elemento che nutre il suo spirito, questo il suo reale
potere.
Stolti esseri umani, e altrettanto inette divinità; sono
convinti di
sapere ogni cosa, ma ignorano la vera natura di ciò contro
cui hanno
l’arroganza di combattere. Sospira, le orecchie fremono,
negli
occhi il riflesso dorato del sole, le labbra non perdono ancora la
loro morbida curva verso il cielo. Tempo per ritrovare ciò
che è
quasi andato perduto e goderne la riscoperta, cullarsi nel ritrovato
piacere; tempo per sé stesso e per i bisogni del suo corpo,
del suo
spirito; tempo per ritrovare il giusto equilibrio e non rischiare di
cadere ancora. Dopo, solo in un secondo momento penserà a
ottenere
il cuore di quell’abbietta creatura di luce che lo ha
sprofondato
in un limbo oscuro senza ritorno, e sarà doloroso. Piccole
zanne
perlacee scintillano al riverbero dei raggi del sole mentre ringhia
di soddisfazione.
«Attendere,
ancora per poco»
mormora, sollevando il mento e tendendo il capo per farsi ancora
più
vicino al sole.
Le sottili pupille
si
restringono ulteriormente, gli occhi brillano e un sospiro vibra roco
nella sua gola.
*
Le sue labbra si
schiudono
lievemente, obbedendo alla sua costernazione, mentre ode Aileliath
brontolare con un ringhio sordo e prolungato. Il grande salone
è
stato sgombrato di tutti i mobili e le suppellettili di dubbia
utilità; sul lucido parquet di legno scuro è
stato tracciato un
disegno bianco che ricopre almeno la metà della superficie a
disposizione. “Un maledettissimo pentacolo” sbotta
mentalmente,
allucinato. I suoi passi sono lenti e nervosi mentre si muove in
circolo attorno a quell’orrendo scarabocchio. Storce il naso
e
anche nel suo petto vibra un piccolo ringhio contrariato.
«Da dove
arriva questa
pagliacciata pacchiana?» sibila, scrutando gli occhi dei
presenti.
Ci sono un
po’ tutti, nota,
radunati evidentemente per non farsi sfuggire nemmeno un battito di
ciglia del grande
momento.
«In
effetti da me» commenta
monocorde Phanês, osservandolo con fastidiosa attenzione.
Accenna un ghigno
sfrontato al
suo indirizzo. «Non hai decisamente la stoffa
dell’artista» lo
deride, avvertendo alle sue spalle lo sbuffo divertito di Aileliath.
Ora il cipiglio di
Phanês
sembra perfino seccato. Gongola, trattenendo il sorrisetto di
soddisfazione che preme per mostrarsi.
«È
geometria essenziale. Non
servono abilità nel disegno» protesta
prevedibilmente. «Era
necessario per officiare il rito» spiega.
Solleva un
sopracciglio. «Ti
sei portato avanti senza neppure avere la certezza che sarebbe
servito?» insinua.
Può
addirittura scorgere
della sorpresa nei suoi occhi, ora. Stanno facendo grandi passi in
avanti. Con un po’ di tempo in più a sua
disposizione Pitch ha
ormai la quasi certezza di poter persino giungere a vederlo adirato.
Drammaticamente, il suo tempo così come quello della Terra
scarseggia. Sospira debolmente e tenta di allentare la propria ansia,
poi torna a muoversi per la sala, percorrendo la lignea superficie
con passi calmi ma decisi, fino ad arrestarsi nel centro esatto del
pentagono schizzato con poca cura da quel borioso dio
senz’anima.
«Quando
siete comodi»
bercia, lottando con sé stesso per non perdere
lucidità e ragione.
Il primo a
muoversi,
raggiungendo uno dei cinque vertici è Aileliath, il quale si
ferma
proprio di fronte ai suoi occhi e si siede con garbo, scoccandogli
un’occhiata d’intesa e offrendogli un sorriso
tranquillo. Sospira
di nuovo, ingoia aria e saliva e fissa i propri pensieri nello
sguardo di fuoco del leone, recuperando un po’ della calma
perduta
tanto velocemente quanto sgradevolmente.
Alle sue spalle
scorge
muoversi, con la coda dell’occhio, Nyx e suo figlio
Ouranós;
entrambi si fermano in corrispondenza della sua spalla destra, mentre
dietro quella sinistra si posizionano i cinque guardiani che portano
con loro espressioni un po’ spaesate e insicure. Sapessero
quanto
ci si sente lui, in quel momento.
Al suo fianco
destro si
accostano Mot e Ba’al con certe facce che, in altri contesti,
potrebbero significare tempeste in arrivo, ma non è quello
il caso
(o forse sì?). I suoi incubi si raggruppano alla sua
sinistra e
vengono velocemente raggiunti dalle pixies in compagnia di altri
spiriti dei boschi, da alcuni yeti di St. North e da un fastidioso
nugolo di rumorose fatine dei denti.
Osserva con
apprensione Phanês
aggirarsi per la sala, percorrendo un circolo attorno al pentacolo.
Lo studia mentre questi sembra intento a recitare versi
incomprensibili e agitare in aria le mani, il tutto a occhi chiusi,
fatto che porta Pitch a chiedersi come mai non sia ancora andato a
scontrarsi con una parete o uno dei molti spiriti presenti.
Stiracchia un pallido ghigno nell’immaginare la possibile
scena e
Aileliath gli risponde prontamente con uno scintillio divertito negli
occhi.
Infine
Phanês si ferma fra
Mot e Nyx, le sue dita fremono velocemente e i contorni del disegno
sfumano, poi brillano argentei e quando il bagliore sta per divenire
accecante, obbligando molti dei presenti a socchiudere gli occhi, il
pentacolo svanisce dal pavimento riflettendosi invece sul soffitto ed
emanando oscurità in luogo della luce precedente.
Se solo il
nervosismo e la
preoccupazione non lo stessero corrodendo dolorosamente, Pitch
potrebbe perfino ammettere di essere impressionato, almeno un poco.
La verità è che spera vivamente di concludere in
fretta
quell’insulso rito, in un qualunque modo, purché
smetta una volta
per tutte di torturare le sue percezioni fin troppo sollecitate. Ma
forse, chissà, deve aver sperato con troppa
intensità, perché
improvvisamente il bagliore argenteo e la luce oscura si fondono nel
mezzo ed è uno spasmo d’agonia, e vorrebbe
chiudere gli occhi per
non dover anche vedere, ma non è in grado di muovere neppure
un
muscolo mentre tutto diventa luce cangiante e ghiaccio rovente. Un
unico vacuo pensiero sosta qualche momento nella sua mente persa:
“I
fearlings erano più compassionevoli”.
*
Livore,
incredulità, paura.
Doveva andare così? Questa era la vera meta? No, voleva
servirsi di
lui per liberarsi di una minaccia, forse la sola ancora esistente. Ma
ora, che cosa faranno ora? In che modo potranno impedire il peggio,
se lui
non è più? Il custode è di nuovo in
piedi, lo osserva chino sul
fagotto color fuliggine aggrovigliato a terra. Quando suo padre gli
si fa incontro ringhia minaccioso e fa scattare all’esterno
gli
artigli affilati. Scuote la testa, pensieri ovattati si frantumano e
ricompongono senza dargli tregua. Avrebbe dovuto saperlo, avrebbe
dovuto fermarli, avrebbe dovuto impedirglielo; avrebbe dovuto, ma non
lo ha fatto, e ora non le resta che una misera manciata di se
confusi e nessuna reale speranza, unicamente un futuro incerto al
quale ha timore di guardare.
*
Lo ha avvertito con
chiarezza,
defluire dalla propria oscura essenza per accumularsi in un unico
punto, al centro di tutto, assieme a quello del resto dei presenti.
Ha dovuto trattenere il respiro, colto da un momento di panico e
insieme di sorpresa. Si è reso conto che, anche volendolo,
non
sarebbe stato in grado di trattenere a sé il proprio potere,
non nel
momento in cui il rito è stato attivato e ha prepotentemente
preteso
il conto. Si è sentito perfino spossato per lunghi,
interminabili
istanti, e ha temuto il peggio; ma quando i bagliori si sono fusi
insieme è tornato a respirare e, suo malgrado, a trarre un
sospiro
di sollievo. Poi tutto è precipitato e il suo sospiro gli si
è
incastrato in gola.
*
Le possenti zampe
sono
saldamente piantate al centro del salone, gli artigli scintillano
sinistri conficcati nel parquet. Nonostante il rito abbia prosciugato
parte delle sue energie, il fuoco è scaturito
prepotentemente al suo
comando tracciando uno stretto circolo ardente attorno a lui,
a loro. Digrigna i denti, trattenendo a stento la sua furia se non
altro per evitare di distruggere buona parte dell’edificio
che li
ospita, ma è faticoso e in un attimo di distrazione quasi
azzanna
alcuni degli incubi che si erano imprudentemente avvicinati per
soccorrere il loro padrone. Prova profondo dispiacere per le loro
espressioni allarmate e per la loro evidente confusione, ciò
nonostante non dispone della lucidità sufficiente per
preoccuparsene. Il suo corpo trema di ansia e sgomento. Reclina il
capo e sfiora con il naso il fagotto stropicciato ai suoi piedi,
cercando di sentire, pregando di sentire. Struscia piano sulla pelle
sottile del suo collo, poi preme gentilmente sulla spalla e lo
sospinge appena, con cautela, e trema ancora, di paura questa volta.
«Svegliati,
avanti»
sussurra. «Se non ti svegli ti lecco di nuovo»
minaccia, provando
un sorriso che muore prima di nascere.
*
Si scambiano
un’occhiata,
lui e Jack. Il giovane guardiano sembra sconvolto, ma come dargli
torto? Lo è anche Sanderson. Nessuno di loro si aspettava
quello e
ora non sanno fare altro che rimanere a guardare, senza alcuna idea
che possa risolvere la situazione. Non che sia una novità,
in
effetti: negli ultimi tempi non hanno mai risolto molto, nonostante
abbiano fatto sempre il possibile per offrire il loro contributo.
Ciò
che hanno davanti al momento, tuttavia, è molto oltre le
loro
normali mansioni e decisamente al di fuori delle loro attuali
possibilità. E, beh, non è che quelli
più capaci di loro abbiano
mostrato di avere molta più fortuna in effetti, figuriamoci
buonsenso. Da parecchio, ormai, il buon senso non è
più di casa.
Solleva gli occhi
di scatto e
un piccolo punto esclamativo esplode sopra il suo capo mentre fissa
con sorpresa e sbigottimento l’enorme sagoma di Aileliath al
centro
del salone. Il fagotto si è mosso, e non per essere stato
gentilmente sospinto dal leone, ma dopo che questi ha sfiorato il suo
viso accartocciato con la punta della lingua. Ora spalanca la bocca,
Sanderson, perché il fagotto accartocciato ha appena
borbottato un
irripetibile insulto al povero Aileliath.
*
Si lascia
sgraziatamente
ricadere a terra con uno sbuffo rumoroso, incurante di potersi
procurare l’ennesimo livido di quella lunga, infinita
disavventura.
Osserva con incerto sollievo una mano dello spirito oscuro sventolare
con fastidio e scacciare una coppia di fatine entusiaste e
cinguettanti, mentre si risolleva finalmente da terra con qualche
scricchiolio di troppo. Non sa se essere grato che quel pallone
gonfiato di Phanês abbia avuto ragione, oppure irritato per
il
medesimo motivo. La verità è che, segretamente,
sperava in un
fallimento su tutta la linea, uno teatrale possibilmente, magari
perché no, uno che lasciasse tutti un po’ delusi
ma nessuna
vittima al seguito, e a quel paese anche la delusione a quel punto.
Invece il piano di Phanês sembra aver dato i suoi frutti e
Ba’al
non è per nulla certo di cosa aspettarsi, ora;
perché, d’accordo,
hanno un’arma potenzialmente letale a disposizione, ma
ciò non
significa che resterà salda nelle loro mani.
L’assurdità di tutto
è che suo fratello non sembra aver preso in dovuta
considerazione
quella possibilità, o forse lo ha fatto ma non ne appare per
nulla
impensierito, la quale opzione è perfino peggiore della
precedente.
Scuote il capo, afflitto, e si augura che non crolli tutto ancora una
volta addosso a loro, distruggendo nuovamente quel poco che rimane
della loro famiglia.
*
Le sue mani
tremano, la nausea
che avverte a picchi irregolari lo costringe a respirare
profondamente, a concentrarsi davvero nel farlo, a meno che non
intenda vomitare lì, sul bel parquet di St. North. Non che
gli
importi un accidente del parquet, neppure delle espressioni ansiose
dipinte sulle facce raccolte attorno a loro. Il suo unico interesse
è
riuscire a trattenere tutto insieme, perché la testa gli
scoppia e
ha l’impressione che se allentasse anche solo per un secondo
il
controllo finirebbe con il cadere a pezzi, e nessuno lì
dentro
avrebbe l’improbabile fegato né tantomeno le carte
in regola per
raccattarli tutti e rimetterli insieme, seppur rattoppati alla belle
meglio. Ha sibilato un paio di improperi molto fantasiosi a quella
montagna di pelo che ha lo spiacevole vizio di ricoprirlo di bava, ma
non ha nessuna intenzione di lasciare che si allontani, neppure di un
solo passo, perché senza la sua vicinanza finirebbe sommerso
dalle
poco gradevoli e molto ingombranti attenzioni di ogni maledetto
spirito o divinità presente, e questa è
assolutamente l’ultima
eventualità che desidera. Allora rantola alla disperata
ricerca
d’aria ed equilibrio e serra inestricabilmente le dita nella
pelliccia di Aileliath, intimandogli silenziosamente di restare
dov’è.
Il custode accosta
il muso e
lo studia con attenzione. «Dimmi come ti senti»
esige con
decisione.
Lo spirito solleva
il volto e
nel suo sguardo guizza un bagliore d’oro e tenebra. Arriccia
le
labbra in un orrido sogghigno. «Non vuoi saperlo»
soffia in un
sibilo sfiatato.
Con le sopracciglia
aggrottate
in un cruccio contrariato, Aileliath sembra perfino buffo.
«Desidero
conoscere la
verità. Il fatto che potrebbe non piacermi non mi
farà certo
desistere» lo sfida senza timore.
Scrolla il capo,
Pitch, ma non
per la contrarietà (non solo, almeno). A momenti
ciò che vede non è
lì, e ciò che si trova lì non
può invece vederlo.
«Infastidito»
borbotta
finalmente. «Una sensazione sgradevole, poi
un’altra più
spiacevole le si sovrappone, e un’altra ancora, e di nuovo,
e…
non sembra avere fine» ammette con sconforto.
«Chiedo
scusa» li sorprende
impreparati una voce tranquilla da poco distante. «Potrei
avvicinarmi un momento per…».
La proposta di
Phanês viene
fermamente bocciata da un ruggito di Aileliath che fa tremare le
vetrate. A eccezione di Phanês, ogni singola creatura
presente fa
almeno un paio di prudenti passi indietro.
«Se
preferisci farti
strappare il cuore dal sottoscritto anziché attendere che lo
faccia
Liùsaidh~dorcha, prego, avvicinati pure» offre il
leone con
affettata cortesia.
Le labbra strette
di Phanês
sono sintomo di fastidio, non certo di timore, ma Pitch può
senz’altro farselo bastare, per il momento.
|