“Non”
era stata la prima parola pronunciata dalle labbra di Phillip. Tre
lettere tenute nei pugnetti, con tutta la forza che potesse
possedere un bambino di due anni – aveva sentito gli spigoli
affondare nei palmi, la “o” gonfiarsi tra le pieghe, e labbra rosa
confetto l’avevano buttata fuori come se ne dipendesse la propria
vita.
“Madre”
e “padre” erano arrivati dopo, col tempo. Prima, seduto nel
salone della tenuta estiva dei Carlyle, durante l’ora del tea,
Phillip aveva annunciato al mondo di saper finalmente parlare,
squittendo un “non” pieno d’orgoglio.
A tre anni aveva
imparato ogni regola della casa. A quattro, era in grado di
recitarle a memoria meglio di quanto non sapessero fare i fratelli
maggiori, a cinque sapeva scriverle su pergamena e a sei anni aveva
compreso l’importanza di quel singolo
non.
Era la parola
d’ordine di suo padre, la radice di cui ogni sua regola era
desinenza.
Non camminare a
quel modo, alla stregua di un villico; raddrizza la schiena.
Non piangere, sono
le donne e i deboli a lagnarsi.
Non conversare con
la servitù o gli elfi domestici, nulla che possano dire è di tuo
interesse.
Non giocare con
quei bambini, sono luridi figli di Babbani e Mezzosangue su cui un
giorno comanderai.
A sette anni,
Phillip si era ritrovato rinchiuso in una lussuosa gabbia di
restrizioni. Gli era stato negato ogni permesso di vivere la propria
infanzia per, in cambio, aprirgli le porte di un regno che suo
padre, sapeva, avrebbe apprezzato una volta cresciuto. Ma a sette
anni, la curiosità è una colonia di tarli che scava buchi tra le
regole degli adulti e apre passaggi segreti in cui un bambino
finisce sempre per inciampare.
Non aveva il
permesso di uscire in giardino senza la supervisione di sua madre o
di una delle tate. Per spaventarlo, suo fratello maggiore gli aveva
raccontato dell’orrendo Troll a tre teste che infestava il bosco
della tenuta.
Aveva funzionato
per un po’.
Poi, un giorno,
semplicemente, non era più stato così.
Attirato dalla
pioggia di foglie che danzavano oltre la finestra del salone, dove
il bosco confinava col giardino, Phillip si lasciò vincere dalla
curiosità e uscì.
«Praticamente ha
fatto diventare i giardini la nuova Foresta Proibita! Tsè, la faccia
tosta del preside è paragonabile solo alla stupidità di un primino
Grifondoro!»
Charles si lasciò
ricadere seduto sul bordo della tavolata giallo-nero. Serpeverde di
natura, peccava di tatto, e con poco riguardo per i bisogni di
Phillip Carlyle (cenare in pace era sopravvalutato), spostava con
manate infastidite piatti e posate che ancora imbandivano la tavola.
Phillip abbandonò
l’idea di finire il proprio pasto.
«Non erano concluse
le diatribe tra Serpeverde e Grifondoro?»
«Non ce l’ho con
loro. È solo un dato di fatto che una mandragola sotterrata sia più
sveglia dei loro primini!»
«Come di qualunque
altro undicenne?» suggerì Phillip.
Charles alzò un
braccio, le dita tozze a scacciare le parole, più interessato a
tornare all’argomento principale.
«Sai che si
meriterebbe quel vecchio? Un’ispezione a sorpresa del Ministero,
allora sì che si scoprirebbero gli altarini che questa stupida
scuola nasconde. “Sicura”, ah!» Mimò le virgolette. «Il culo
d’un vermicolo è più sicuro!»
«Tecnicamente i
vermicoli hanno due teste[1].»
«Se volevo una
lezione di creature magiche, andavo nell’altra tavolata, Carlyle!»
fu scontato indicare quella dei Corvonero.
Phillip sospirò.
L’annuncio del preside non poteva arrivare con un tempismo peggiore:
Barnum era sparito dalla mattina e, senza di lui a stemperare la
tensione dei serpeverde, l’ansia aveva iniziato a mordere gli orli
delle loro divise.
«È solo un orso,
Charles, se ne occuperà il guardiacaccia.»
Il serpeverde si
alzò in piedi, stizzito, rischiando di calpestare il cestino dei
muffin.
«Solo un orso?
Solo? Di', andare all’avventura con Barnum e la Wheeler t’ha
fatto male al cervello, distorcendo irrimediabilmente la tua
concezione di pericolo? Ma l’hai mai visto un orso, tu?»
«Veramente –»
Dal fondo della
Sala qualcuno urlò: «Per te è Signorina Wheeler!»
L’intera tavolata
dei Grifondoro scoppiò in una risata. Accanto ad un’Anne Wheeler dal
volto nascosto tra i palmi, Lettie Lunz sventolava la bacchetta
all’indirizzo di Charles.
Il Serpeverde le
fece il verso e la risata divertita di Phillip si aggiunse alle
altre.
L’erba umida
solleticava i piedi nudi di Phillip.
Nella fretta di
eludere la guardia di Miss Rooth, aveva dimenticato d’indossare le
scarpe da passeggio e le pantofole erano ormai un’unica poltiglia
infangata.
Il tentativo di
eseguire un gratta&netta era fallito miseramente: la bacchetta si era
rifiutata di obbedire, peggiorando la situazione. Se era vero fosse
la bacchetta a scegliere il mago, era anche vero che suo nonno si
sarebbe rivoltato nella tomba a scoprire per quali fini aveva
intenzione di usarla – gli elfi domestici puliscono, non un Carlyle!
Ripromettendosi di
rimetterla sotto la teca espositiva da cui l’aveva presa, Phillip la
strinse al petto con entrambe le mani. Lunga tredici pollici, gli
sembrò di avere tra le dita una spada; con quella al suo fianco,
nulla lo avrebbe spaventato.
Bastò superare i
primi alberi del bosco per ricredersi.
L’ombra giunse con
lo scricchiolare di foglie secche. Cupa, ricurva, ricoperta di
ispido pelo nerastro che all’altezza delle spalle sbiadiva,
striandosi di frange rosse e giallo paglierino. Gli occhi erano così
scuri che era impossibile distinguere la pupilla e strisce di saliva
univano le arcate delle fauci.
Pensò a suo
fratello, al Troll a tre teste, e si pentì di non avergli dato
retta.
Tremò, il manico
della bacchetta conficcato nelle ossa.
E quando l’ombra –
il suo cervello formulò la parola
bestia –
spalancò le fauci, Phillip non riuscì più a trattenersi.
In piedi e a occhi
chiusi, dimenticò un'altra regola di suo padre: pianse.
«Stai… piangendo?»
P.T. Barnum
sussultò, sorpreso dalla voce di Phillip.
Strofinò il volto
contro la spalla, su un gilè naturalmente rosso – perfino i
Prefetti avevano smesso di chiedergli di usarne uno coi colori della
casata; non che avessero usato particolare impegno, cosa puoi dire,
in fondo, a un ragazzo che è una spanna oltre la tua testa e ha da
un pezzo compiuto l’età per bere in qualsiasi stato?
«Hai gli occhi
rossi» continuò Phillip.
Phineas scrollò le
spalle. «Per fortuna il
rosso mi dona.»
«Sono serio,
Barnum. Cos’è successo?» Il tanfo giunse all’improvviso, un pugno ai
ricettori olfattivi che dichiararono l’immediata sconfitta «Per
Merlino, che cos’è questa puzza?»
Phineas non si
scompose.
«Si dà il caso che
questa puzza sia io.» ammise «Ho passato l’intera mattinata a
pulire la Guferia. Senza bacchetta. Una pausa me la merito.»
«Anche una doccia.»
Ogni stilla d’apprensione scomparsa dallo sguardo di Phillip.
Avrebbe voluto
chiedergli cos’avesse combinato per essere punito (dubitava fosse
stato colto da un attacco di filantropia), ma Phineas lo superò,
salutandolo con una pacca amichevole dietro la nuca.
Lo fermò,
sfiorandogli il braccio.
«Aspetta, ti sei
perso l’annuncio del preside. I giardini sono off limits per un po’…
ma, se proprio morissi dalla voglia di disobbedire, almeno fai
attenzione, ok?»
«Perché, il
professor Bennett vuole espellermi per aver calpestato le aiuole?»
Phillip ruotò gli
occhi al cielo. «A meno che tu non
sia un orso che si aggira per il parco di Hogwarts, no, dubito ci
riesca.»
La battuta si
scontrò contro un silenzio improvviso che Phillip non si aspettava.
C’era una vena imbarazzata sul volto di Phineas e l’ombra di una
frase in sospeso scomparsa troppo in fretta tra le labbra.
Il serpeverde
annuì. «Starò attento.»
Quello di Phillip
era stato un uggiolio disperato. Il volto era impiastricciato di
lacrime e muco e il bambino tirava su col nasetto, senza il coraggio
di riaprire gli occhi.
Aveva pianto,
urlato e chiamato sua madre con tutto il fiato che aveva in gola.
Nessuno era accorso per salvarlo e forse era stato questo a
impietosire la bestia – non aveva attaccato, ma anzi, in un dondolio
sgraziato rovinò malamente in terra, rischiando di rovesciarsi di
lato.
Phillip riaprì gli
occhi. Dovette coprirsi la bocca con entrambe le mani per ricacciare
indietro la risata.
A occhi lucidi la
guardò, rendendosi conto che il tonfo non era stato intenzionale:
nonostante i tentativi di rimettersi in piedi, le zampe sembravano
incapaci di reggerne il peso.
La bestia spalancò
di nuovo le fauci. Rugliò – un verso cupo e triste che, questa
volta, Phillip sentì riverberargli nel petto fino a toccargli il
cuore.
«Non… non
piangere…» non avrebbe voluto ripetere la regola di suo padre, non
c’era conforto in quelle parole, ma era tutto quello a cui era
abituato. E con la velocità che solo i bambini hanno di dimenticare
la paura, si avvicinò alla bestia, alzandosi sulla punta dei piedi
nudi, per raccogliere tra mani minuscole il suo muso peloso.
«Non piangere più.
Ho smesso anche io, visto? Non piangere più.» allungando ogni osso e
ogni arto di sé, schiacciò il volto contro il suo, sfregando il naso
su un tartufo nero ed umido.
Anne si sfregò il
naso arrossato; non c’era allenamento invernale di Quidditch che non
glielo gelasse.
Phillip la placcò
sulla porta degli spogliatoi.
«Barnum sa
qualcosa.» Il tono tinto di note cospiratorie.
«Perché credi
sempre che, dove ci siano problemi, ci sia Barnum?»
La risposta fu la
stessa di sempre: un sopracciglio inarcato e braccia allargate a
dispiegare un immaginario rotolo di risposte. La sua preferita era
«Non è Barnum a seguire i problemi, sono loro a inseguire lui.»
«D’accordo, ma
questa volta si tratta di un orso, non è nemmeno una creatura
magica. Se avesse voglia di vederne uno, gli basterebbe prendere una
manciata di metropolvere e andare allo zoo di Londra.»
Phillip mantenne la
posizione, abbracciando le mille possibilità che il coinvolgimento
del serpeverde implicava. Anne le scovò una ad una.
«Non starai
pensando voglia ammaestrarlo?»
«L’hai detto tu,
non io.» Era esattamente ciò a cui stava pensando. «Sempre che
l’orso non lo divori prima.»
«Dato che non vuoi
mangiarmi, possiamo diventare amici.»
Phillip aveva
parlato direttamente alle fauci della bestia. Aveva ponderato la
domanda a lungo e, quando era stato il momento di porla, aveva
ritenuto più logico prendere personalmente la decisione. Era un
Carlyle, dopotutto, suo padre avrebbe voluto che spettassero a lui
le scelte importanti.
La bestia sfiatò a
narici dilatate tra i capelli del bambino e Phillip lo prese per un
“sì”.
«Allora aspetta.»
Si staccò dalla bestia, indietreggiò e le diede le spalle. Si pulì
il volto con una passata di manica, stiracchiò le pieghe della
camicia e sistemò la bacchetta nella tasca dei pantaloni.
Quando tornò a
fronteggiare la bestia, a spalle dritte e mento alto, sembrò la
miniatura di suo padre. Solo gli occhi erano diversi: gentili e
compassionevoli – l’uomo l’avrebbe trovato patetico.
«Io sono Phillip e
ho tanti anni così» “così”
fu il petto in fuori e sette dita alzate.
La bestia ragliò.
In un’ingenuità tutta infantile, si convinse ancora che fosse
l’equivalente di una risposta, un “piacere di conoscerti”, decretò.
«Oh, sei anche ben
educato. Bravo, le buone maniere distinguono il mago civile dai
barbari Babbani!» Nato tra maghi purosangue, era stato normale, per
il piccolo, citare a memoria le frasi di Mister Carlyle, senza
sapere quanto in profondità si conficcarono tra i peli ispidi della
bestia.
L’ennesimo sbuffo
fu un verso stizzito che lasciò Phillip pensoso.
«Smetti di
pensarci. Se Barnum ha qualcosa in mente, sarai il primo da cui
andrà a chiedere aiuto.»
Anne prese
sottobraccio il ragazzo, imboccando insieme il corridoio.
Phillip storse il
naso.
«Vuoi dire
vantarsene.»
«No, Phillip,
voglio dire chiedere aiuto e lo sai. Sei o non sei il suo
partner in crime?»
Il Tassorosso
arrossì, cercando di camuffare l’imbarazzo con una risata nervosa.
Accidenti a Barnum, al solito era colpa sua.
Svoltarono diretti
ai sotterranei, quando, verso le scale, scorsero Phineas e Charity
bisbigliare vicinissimi l’uno all’altra, ammantati dall’aria
d’intrigo dei vecchi libri di spionaggio.
Phillip si bloccò
sul posto.
Anne lo guardò di
traverso. Non ebbe bisogno di chiedere: i segni della delusione
erano ovunque sul volto e nello sguardo azzurro del Tassorosso.
Affondò appena le
unghie nella sua camicia, affinché ne sentisse la presenza. «Potrebbero star
parlando di tutt’altro.» Ma perfino alle proprie orecchie, suonò
come una scusa.
Phillip le sorrise. «Anche fosse, è
libero di parlare di qualsiasi cosa con chiunque.» lo disse per sé.
Per convincersene. Per fingere di non sentire il fastidio di quella
spina che gli era appena entrata sotto la pelle.
Sapeva che Charity
aveva una cotta per Barnum e Phineas aveva da subito avuto un occhio
di riguardo per lei. E gli andava bene: lei avrebbe avuto i baci del
ragazzo e i suoi abbracci, ma a lui, a Phillip, sarebbero rimasti i
segreti e le confidenze – quella parte di Phineas sarebbe stata solo
sua. Così credeva.
Distolse lo
sguardo, facendo dietro front. «Ti riaccompagno
alla Torre.»
L’attimo dopo,
Phineas sollevò gli occhi al corridoio ormai vuoto, con la
sensazione di aver scorto qualcosa.
«Cosa c’è? Cosa
stai guardando?» Phillip si arrampicò a piedi nudi sulla zampa
distesa della bestia.
Cercò oltre gli
alberi del bosco, verso la villa, dove luci aranciate avevano
iniziato a zampillare, accendendosi una dopo l’altra. Non si era
accorto si fosse ormai fatta sera.
Aggrappandosi alle
orecchie della bestia, tornò a guardarla negli occhi neri,
riconoscendo minuscole pagliuzze ambrate che prima non aveva notato.
«Non sei un Troll,
vero? Robert[2]
dice che infestano il nostro giardino, ma tu sembri più… uhm… un…
uhm… che cosa sei?»
Il ruglio in
risposta fu un suono soffice che si accoccolò nel petto di Phillip,
scaldandolo dall’interno.
Gli ricordò una
risata. Non quelle di scherno che i suoi fratelli rivolgevano agli
elfi domestici, ma quelle gioiose che i bambini Mezzomaghi o
Natobabbani si scambiavano per strada; loro che non conoscevano
l’importanza del rigore, delle regole, di una postura seria e
dignitosa. Loro, che alle volte invidiava.
La bestia chinò il
muso, spintonando la fronte contro la sua, come a cercare di
riportarlo alla realtà.
Phillip ridacchiò,
ma subito arricciò le labbra.
«Ti sei perso?
Padre non ne sarebbe entusiasta» parlava piano, ricercando con cura
le parole e calcando su quelle complesse, con il timore di sbagliare
e di essere preso in giro. No, realizzò, non da quella bestia. «Puoi rimanere qui
ancora per un po’. Prometto che non lo dirò a nessuno.»
«Vedrai, sono
sicura che non le avrà detto nulla di quanto immagini.»
Un gradino dopo
l’altro, Anne percorreva scale che amavano cambiare, attenta ai loro
movimenti.
Phillip la seguiva.
Sarebbe arrivato soltanto a metà Torre, lasciandole raggiungere la
sala comune da sola – era una Grifondoro, non aveva bisogno di una
guardia del corpo.
«Sì –»
Un grido dal basso
lo interruppe: «Attenta ai piedi, Anne!»
I riflessi della
ragazza agirono ancor prima che i due si rendessero conto di quanto
stesse accadendo: balzò con l’agilità di una trapezista sulla rampa
che, di fronte a loro, stava già cambiando strada e allargò le
braccia, mantenendo l’equilibrio.
Phillip, colto di
sorpresa, non fu altrettanto svelto e lo zampillo schiantato ai suoi
piedi non fu d’aiuto.
Cadde.
«Phillip!»
«Preso.» Sotto di
lui, le braccia di Phineas lo presero al volo: strette e sicure, lo
sostennero contro il petto.
Il Tassorosso affondò il volto al suo
collo, ansimando per lo spavento e, come se non avesse abbastanza
motivi per darsi dello stupido, si sentì maledettamente al sicuro in
quell’abbraccio.
Barnum alzò lo
sguardo.
«Un salto degno di
una ballerina, Miss Wheeler.» commentò con un occhiolino.
Anne scosse il
capo. Era agilità, coraggio e testa ben piantata sulle spalle; il
fascino del serpeverde non attecchiva.
«Le lusinghe non
funzionano con me, Barnum. Fatti perdonare da Phillip, invece di
attentare alle nostre vite.» Sventolò una mano, tranciando ogni
tentativo di Phineas di giustificarsi. «Ci vediamo domani.»
«Puoi venire anche
domani se vuoi. Vieni vero? Domani?» Phillip faceva rimbalzare ogni
domanda tra i peli della bastia, sotto al mento, dove volto e voce
potevano arrivare.
Col passare del
tempo si era accoccolato tra le sue zampe e aveva poggiato la
testolina alla sua spalla.
Gli effetti
dell’adrenalina che, fino a quel momento, l’aveva tenuto vigile
stavano svanendo. Della paura che l’aveva colto alla vista della
bestia, era rimasta una bacchetta in tasca e artigli a
bucherellargli la camicia, per sostenerlo.
Scivolò, invece,
tra i tessuti del sonno, addossandosi completamente a quella bestia
gentile – per una volta il “non” stretto nel palmo aveva spigoli
smussati e tratti morbidi:
non gli avrebbe
mai fatto del male.
«Non ti sei fatto
male, vero?»
Phineas non aveva
smesso di stringerlo, quasi a stritolarlo.
«Accidenti al
giorno in cui ti hanno messo una bacchetta in mano, Barnum!»
«Non dire così, se
non me la fossi ritrovata tra le mani ora non sarei qui.» La
scelta ponderata di parole passò in secondo piano.
«E io non avrei
appena rischiato di spezzarmi l’osso del collo perché qualcuno
ha ben pensato di buttarmi giù da una rampa di scale!»
«Ma non avrei
nemmeno avuto modo di tenere tra le braccia il Tassorosso più
attraente e lamentoso del Castello.»
Phillip arrossì.
Punto per Barnum.
«Mettimi giù,
stupido.»
Il serpeverde
obbedì e gli sorrise con una mestizia che il più giovane non poté
fare a meno di notare. A mente fredda e col senno di poi, nello
splendido ritardo con cui lavorava il cervello di Barnum (dove
istinto e follia vincevano sul senno), si era reso conto che la sua
bravata avrebbe potuto davvero far rischiare la vita al ragazzo.
Chinò il capo con
vergogna. Quasi otto anni di differenza e il ragazzino idiota era
lui.
Phillip gli diede
un buffetto sulla guancia.
«Ehy, dai,
smettila. Non mi sono fatto niente, ok?» Aveva previsto di
allontanare la mano, ma le dita si spostarono alla mascella ruvida
del serpeverde, attirate dalla lieve peluria del mento. Phineas
aveva dimenticato di sbarbarsi quel giorno.
Il serpeverde
rialzò la testa, il sorriso marcato. Più bello. Di quella
bellezza che apriva crepe nel cuore di Phillip. «Volevo parlarti
prima che scattasse il coprifuoco.»
«Sei sicuro che non
preferisci parlarne con Charity?» si morse la lingua, maledicendosi.
Non avrebbe dovuto.
Barnum non sembrò
sorpreso.
«Dunque, eri tu
quello nei corridoi» disse senza rabbia. «Meglio così, sarà più
facile spiegarti.»
Lo strinse per mano
e, senza aggiungere altro, lo trascinò fuori dal Castello.
Il corpicino di
Phillip dondolava a peso morto, appeso alle fauci della bestia.
In zampate lente,
lo trascinò sino al portico della villa. Se fosse stato sveglio,
Phillip avrebbe sorriso delle occhiate caute con cui si guardava
intorno – così simili a quelle che lanciava lui nelle cucine,
quando, arrampicato sulla sedia per raggiungere la scatola di
biscotti nella credenza, controllava che nessuno fosse nelle
vicinanze.
La bestia lo lasciò
sui gradini con una delicatezza quasi umana. Gli strusciò il muso
sulla guancia e sbuffò una sfiatata calda al suo orecchio.
Tra le pieghe del
sonno, Phillip riconobbe il suono di una voce: non il ruglio
gutturale ch’era stato finora, ma un bisbiglio giovane e dolciastro,
con l’accento del Connecticut[3].
Sorrise felice,
sognando una bestia che, come in una favola, rivelava l’animo di un
principe.
«Tu sei… cosa?»
Fino a quel momento
Phillip lo aveva ascoltato in silenzio. Confuso, incredulo,
arrabbiato con se stesso perché non aveva senso stupirsene: s’era
impossibile, Barnum ci sarebbe riuscito.
Phineas poggiò la
schiena ai vetri della serra. «L’ho scoperto per
caso qualche anno fa… è successo una volta sola, ma mi è bastato.
Dio, credevo non sarei più tornato normale! Poi è arrivata la
magia e ho capito che forse avrei potuto rifarlo e parlandone con il
preside è saltato fuori che anche i maghi tardivi possono essere dei
giovani prodigi.» Ed eccolo lì, il momento dei vanti. «Mi ha
permesso di studiare il mio caso qui nelle Serre, dopo il
coprifuoco, ma iniziavano a starmi strette, così sono uscito.
Charity era l’ultima persona che avrei mai pensato d’incontrare; non
starai portando su una cattiva strada i tuoi compagni di casata,
Phillip?»
Il tassorosso evitò
di commentare. Sapevano entrambi che l’unico ad avere una pessima
influenza era Barnum.
«Mi ha scorto
mentre cercavo un posto appartato nel parco e si è spaventata.
Quando il preside l’ha scoperto, ha inventato la storia di una fuga
di orsi per coprirmi, ma ovviamente ha deciso di punire entrambi.
Hai una vaga idea di quante tonnellate di escrementi ci siano nella
Guferia? Gli occhi mi bruciano ancora!»
Phillip cercò di
mantenersi serio, ma la risata era già salita allo sguardo,
finalmente ravvivato.
Phineas gli passò
la punta delle dita tra le ciocche castane della frangia, in un
tocco leggero. Ecco, così avrebbe sempre voluto vederlo. «Posso assicurarti
che, Preside a parte, sei l’unico a cui abbia raccontato il mio
segreto.»
Il ragazzo arrossì,
non si aspettava di vedere la propria gelosia messa a nudo. Gli
sembrava così insulsa ora, dopo le parole del serpeverde e davanti
al suo ghigno furfantesco.
«E… e smettila»
borbottò.
Ma quello era solo
l’inizio.
Il tocco di Phineas
divenne una carezza alla guancia, lenta, languida, e tra le labbra
sfilarono le prime parole di una canzone che, l’intero Castello
testimone, era diventata la loro canzone:
«This,
the tale of reckless love, living a life of crime on the run, I
brush to a gun to paint these states green and red… and well,
yellow too
[4].»
Il rosso del volto
di Phillip era ormai di quell’intensa sfumatura cremisi che Barnum
adorava.
Continuò a cantare,
raccogliendogli le braccia per posarle alle proprie spalle e
stringergli i fianchi tra le dita.
«We'll
live like spoiled royalty, lovers and partners.
Partners
in crime»
Ad ogni parola un centimetro annientato; con le ultime tre, lo
strato d’aria tra le loro labbra era così sottile che Phillip ingoiò
fiato e voce di Phineas.
Ci volle tutta la
propria forza di volontà, per ruotare il volto e sfuggire dal
contatto.
«Quindi…» deglutì
«sei un animagus.»
«Esatto.»
«E non potevi
scegliere qualcosa di un po’ più piccolo di un orso?»
Phineas rise, con
lo stesso imbarazzo che l’aveva colto nel pomeriggio.
«Innanzitutto, se
l’avessi scelto io, sarei stato un –»
«Non dire drago.»
«…Ok.» Tipico.
«Comunque non si tratta proprio di un orso, quanto di una…
volverina. Le dimensioni sono decisamente ridotte.»
«Stai cercando
d’intenerirmi?»
«Sto cercando di
farti innamorare follemente di me grazie alle mie straordinarie doti
magiche. Sta funzionando?» scherzò.
«Chiedimelo dopo
che ti avrò visto trasformato.»
Sull’erba erano
rimaste impronte di piedi che sparivano tra gli alberi del
boschetto.
Tornato nell’ombra
in cui un bambino l’aveva sorpreso, era ricaduto in ginocchio.
Nudo. Incredulo. Ansimante. Spaventato.
Della bestia più
nulla, solo lui, che si tastava spalle, busto e volto – tratti di
ragazzo, capelli castani ed occhi non più neri. Gli abiti
abbandonati ai piedi di un albero.
Guardò la villa. Un
elfo domestico aveva richiamato i presenti e il bimbo era stato
portato dentro, in salvo – anche se ad essere salvato, in qualche
modo, era stato lui.
Sorrise. «Sogni d’oro,
piccolo Phillip.»
Chissà se l’avrebbe
mai rivisto.
La trasformazione
durò attimi, grottesca e straordinaria. Al suo compimento, il ruglio
di una volverina salutò Phillip dal basso e con poche zampate,
l’animale lo travolse, gettandolo schiena a terra.
«Ouff!» Era
difficile immaginare che quella bestiola, quell’orsetto in
miniatura, fosse proprio Barnum; era caldo, piccolo, peloso e le sue
zampotte gli circondavano affettuose il collo.
Gli ricordò un
sogno fatto da bambino. C’erano regole che aveva ignorato, un bosco
accanto alla loro casa estiva e un orso (una bestia nascosta nel
buio, che ora, forse, non gli sarebbe parsa così imponente) con cui
aveva giocato fino a cadere addormentato.
Gli passò la mano
sulle striature di pelo che si schiarivano all’altezza della spalla
– rigagnoli rossi e gialli, come falde delle spalline di una giacca.
Socchiuse gli occhi e strofinò il naso sul tartufo nero della
volverina.
«Sì, Phin, sta
funzionando.» |