ReggaeFamily
When Words
Fail, Music Speaks
Era
così bello, il tramonto. Il piccolo John lo vedeva come un
momento magico: tutto si tingeva di arancione e sembrava più
bello. Laddove i proiettili e le esplosioni avevano lasciato le loro
ferite, i tiepidi raggi del sole si infiltravano e medicavano tutto
come una magica medicina.
Il
bambino si sedette sul gradino del marciapiede accanto a Jihad, il
suo migliore amico. Jihad aveva sette anni, due in più di lui;
era il suo vicino di casa e per lui era come un fratello maggiore.
Jihad
giocava con i soldatini in legno che suo nonno gli aveva costruito e
regalato. La sua famiglia non era tanto ricca e, soprattutto durante
la guerra civile, si doveva accontentare di giocattoli modesti e un
po' sbilenchi.
In
silenzio, John osservava il suo migliore amico che inscenava una
guerra con i suoi soldatini, li faceva scivolare tra la polvere della
strada, li faceva cadere e rialzare in continuazione.
“Uffa,
smettetela di giocare con quei soldatini, siete noiosi!”
protestò a un certo punto una vocina sottile alle loro spalle,
facendoli sobbalzare entrambi. I due bambini si voltarono e si
ritrovarono faccia a faccia con Malak.
Malak
era una graziosa bimba di cinque anni e anche lei abitava nella via
di John e Jihad. Era giunta a Beirut appena un anno prima e ora
abitava con sua zia; aveva raccontato ai suoi amici di essere
sopravvissuta a una fuga lunga e pericolosa, aveva camminato tanto e
mangiato poco, ma era stata forte e coraggiosa e infine si era
salvata.
Loro
tre erano amici per la pelle, trascorrevano intere giornate in strada
a giocare assieme. Non si sarebbero mai separati, avevano fatto un
patto.
“Sei
proprio una femminuccia, Malak!” esclamò Jihad con uno
sbuffo.
“Perché
ti piacciono così tanto quei soldatini? Non è più
divertente giocare a pallone?” domandò la bambina con
curiosità, sedendosi sul gradino accanto al bambino più
grande.
“A
me piace la guerra. Un giorno diventerò un capo dell'esercito
potentissimo, e farò ammazzare tutti quelli che adesso
vogliono ammazzare noi!” esclamò lui. Era talmente
entusiasta che scalciò via i soldatini, sollevando una piccola
nuvola di polvere davanti a sé.
John,
che fino a quel momento aveva assistito alla scena senza proferire
parola, incrociò le braccia al petto. “A me non piace la
guerra. Sparano, è tutto pieno di polvere e di sangue. E
quelli che fanno la guerra sono cattivi, sono dei mostri terribili
peggio di quelli delle favole. Se fai la guerra sei cattivo, Jihad.”
L'altro
si pulì le mani dalla polvere sulla maglietta gialla
sgualcita, poi si alzò in piedi e osservò John
dall'alto in basso. “Io? Io sono cattivo? Un mese fa hanno
ammazzato la mia sorellina di un anno e mezzo! Io non sono cattivo,
sono loro i cattivi! Li ucciderò tutti!” gridò in
tono isterico.
Malak
si portò un dito di fronte alle labbra. “Abbassa la
voce, i grandi non ti devono sentire” bisbigliò.
John
si guardò attorno: la strada era piena di signore che sedevano
di fronte alle proprie abitazioni e prendevano il fresco, uomini che
lavoravano, mendicanti disperati e uomini armati.
“A
me non interessa. Io voglio diventare un musicista come il mio papà”
ribatté John con indifferenza.
Non
gli interessavano quei giochi crudeli, a lui piaceva suonare la
batteria. Ogni volta che andava ai concerti di suo padre, rimaneva
incantato a guardare il batterista che giocava con le sue bacchette
come un mago. Qualche volta l'aveva provata e gli era piaciuta
tantissimo, adorava comporre dei ritmi con un sacco di suoni diversi,
a tante velocità diverse.
Malak
gli si avvicinò e lo abbracciò. “Sarai un
musicista bravissimo e ricchissimo!” esclamò orgogliosa.
“Ohannes,
vieni dentro! Su, a fare il bagno!”
John
riconobbe subito la voce di sua madre, severa e dolce allo stesso
tempo. Solo lei e la nonna lo chiamavano con il suo secondo nome, il
suo vero nome.
Il
bambino si voltò e trovò sua madre affacciata alla
finestra, che gli lanciava un'occhiata eloquente. “Sbrigati, è
tardi!” ribadì inarcando le sopracciglia.
John
le regalò un sorrisetto furbo e riprese a chiacchierare e
giocare con i suoi amici.
Andava
sempre allo stesso modo: non rientrava in casa finché sua
madre non si arrabbiava veramente o non interveniva suo padre. Era
più bello stare fuori a godersi il tramonto e ridere con Malak
e Jihad, piuttosto che strofinarsi per bene tutto il corpo e mandare
via la polvere.
John
sgranò gli occhi e li puntò davanti a sé,
nell'oscurità. Quella notte aveva paura, tanta paura.
Sentiva
dei movimenti, come dei piccoli passi, sotto la sua finestra. Certo,
quella non era la prima volta, ormai ci aveva fatto l'abitudine.
Era
indeciso su cosa fare: restare a letto e rintanarsi sotto le coperte
oppure avventurarsi fuori dalla sua camera e correre dai suoi
genitori.
Dall'esterno
provenivano delle voci, profonde e concitate.
John
tremava nonostante il caldo, si sentiva ancora più agitato del
solito.
Odiava
la guerra.
Rimase
in attesa ancora per qualche secondo, trattenendo perfino il respiro
per evitare di farsi sentire dagli uomini là fuori.
Quando
udì un tonfo metallico a qualche metro dalla sua finestra,
John non resistette più: scivolò giù dal suo
letto, si appiattì contro il pavimento e strisciò con
cautela fino alla porta della sua camera. Le mattonelle erano fredde,
lo facevano rabbrividire. Una volta girato l'angolo, in corridoio,
balzò in piedi e corse a perdifiato verso la camera dei suoi
genitori. La distanza era poca, appena qualche metro, ma a lui
parvero chilometri.
“Mamma,
papà...” mormorò con le lacrime agli occhi.
Ancora non si era abituato perfettamente all'oscurità, ma
riusciva a distinguere la sagoma del letto matrimoniale al centro
della stanza.
“Ohannes,
tesoro... cosa c'è?” domandò la voce impastata
dal sonno della madre.
“Vieni
qui” lo invitò suo padre.
“Ho
paura” disse il piccolo con la voce rotta dal pianto. Non se lo
fece ripetere due volte: raggiunse il letto e si infilò sotto
le coperte, accanto a sua madre. La donna lo strinse a sé e
gli accarezzò i capelli e la schiena per tranquillizzarlo.
In
realtà, per quanto cercassero di confortarlo, i coniugi
Dolmayan erano entrambi irrequieti.
John,
sotto il tocco dolce e protettivo di sua madre, si rilassò
subito. Inspirò il suo odore di mamma, fatto di storie e
tradizioni, e si abbandonò pian piano al sonno.
Si
accorse appena, qualche minuto dopo, del colpo secco che esplose
nella stanza accanto, spaventoso e tremendamente vicino. Faceva parte
di una serie di boati: alcuni si perdevano nell'aria con un fischio,
fuori dalla casa, altri incontravano qualche ostacolo e facevano
quasi tremare i muri. Era come se qualcuno stesse suonando un macabro
ritmo di batteria.
John
si accorse appena dell'urlo che lanciò sua madre, delle
imprecazioni di suo padre.
Si
rese conto a malapena delle lacrime che gli scorrevano lungo le
guance, di quanto i suoi occhi fossero sgranati, di quanto il suo
cuore martellasse nel petto, veloce come un cavallo al galoppo.
Tanto
fu il terrore, quella notte, che i ricordi di John si distorsero e si
sfocarono.
Però
c'erano due cose che non era riuscito a rimuovere dalla sua mente.
La
prima era il buco che un proiettile aveva lasciato nel materasso del
suo lettino, dove appena cinque minuti prima si trovava sdraiato.
La
seconda era l'immagine della zia di Malak che, disperata e in
lacrime, stringeva tra le braccia il cadavere della nipote. Malak se
n'era andata con gli occhi sbarrati per il terrore e con un
proiettile nella tempia.
Canada.
A
John quel posto non piaceva, non era come il suo adorato Libano.
Però
almeno lì non c'era la guerra.
Da
quando era arrivato a Toronto, era diventato molto più
taciturno. E, soprattutto, aveva smesso di ascoltare e amare la
musica; ogni volta che si trovava vicino a una radio o a un qualsiasi
strumento musicale, iniziava a piangere in silenzio e faceva di tutto
per fuggire.
I
suoi genitori erano preoccupati per lui. Avevano deciso di fuggire
dal Libano perché non era più un luogo sicuro per loro
e il loro piccolo, ma in questo modo l'avevano strappato via dal suo
habitat naturale. John soffriva, i suoi occhi erano tristi, ma non
esternava mai cosa gli passava per la testa.
“Piccolo,
perché non vuoi più ascoltare la musica? Fino a qualche
mese fa volevi diventare un batterista, o sbaglio?” gli
domandava suo padre col suo solito tono pacato e gentile.
John
abbassava lo sguardo e non rispondeva.
La
verità è che non voleva più diventare un
batterista, quello strumento non lo voleva neanche vedere. Ogni volta
che sentiva una batteria, con quei suoi colpi forti e secchi, gli
tornava in mente la pioggia di proiettili che aveva sfigurato la sua
casa, rischiato di ucciderlo e portato via la sua migliore amica.
Aveva
tanta voglia di suonare, perché quella era l'unica attività
che lo faceva stare bene, ma allo stesso tempo ne era terrorizzato.
Passarono
i mesi e John dovette entrare alle scuole elementari. Imparò a
leggere e scrivere e ben presto si appassionò ai fumetti.
Erano così belle quelle storie, raccontavano di eroi forti e
coraggiosi che facevano sempre del bene agli altri.
Ogni
tanto i suoi pensieri andavano a Jihad. Avrebbe tanto voluto dirgli
che non era necessario diventare un politico o un capo dell'esercito
per essere potente, bastava anche essere un supereroe per sconfiggere
i cattivi. Solo che ora il suo migliore amico si trovava all'altro
capo del mondo.
A
Toronto non aveva nessun amico. Tutti pensavano che fosse un bambino
strano.
“Ti
devi aprire, devi parlare. Metti giù quei giornaletti e vai a
giocare con gli altri bambini” gli consigliava sua madre. Lo
vedeva sempre in disparte, immerso nella lettura, e quella situazione
la spaventava.
Quello
non era più suo figlio, quel bambino allegro e sorridente che
andava a zonzo per il suo quartiere, a Beirut, e riusciva a farsi
amici tutti, piccoli e grandi.
Ormai
la situazione sembrava essere destinata a rimanere statica, finché
la famiglia Dolmayan non si trasferì a Los Angeles,
nell'assolata California.
Little
Armenia era un quartiere tranquillo e accogliente. Per le strade
si sentiva l'odore del buon cibo e del bucato steso; la gente era
allegra, parlava la sua lingua e canticchiava vecchie canzoni della
tradizione armena.
A
John piaceva, gli sembrava di essere tornato nella sua adorata
Beirut. Anche i suoi genitori erano felici, finalmente potevano
sentirsi liberi di essere armeni.
Il
piccolo usciva spesso e si recava in una piccola piazzetta vicino a
casa sua, dove un sacco di altri bambini giocavano. Quasi ogni giorno
c'era un nuovo arrivo: in quel posto si radunavano sempre più
armeni provenienti da ogni parte del mondo, alla ricerca di un po' di
pace.
John
aveva stretto amicizia con un certo Taniel, un bambino che aveva ben
tre anni in più di lui. Taniel era piccoletto, aveva la pelle
olivastra e i lineamenti fortemente orientali; amava la musica,
suonava la chitarra e ogni giorno lui e alcuni suoi amici si
riunivano in una stanzetta per suonare insieme.
“E
tu, John,” gli chiese un pomeriggio d'estate, “non suoni
nessuno strumento? Non ti piace la musica?”
“Mio
padre suona il sassofono” rispose prontamente lui, senza
incrociare lo sguardo dell'amico.
“Ma
io ho chiesto cosa piace a te.”
Lui
era indeciso se dirgli o meno la verità. In fondo conosceva
Taniel da poco tempo, non sapeva se fidarsi o meno. “Non lo so,
non mi interessa la musica” mentì infine, sperando non
si notasse troppo il leggero rossore sulle sue guance.
Di
sicuro Taniel capì che qualcosa non quadrava, perché lo
strattonò via dal basso muretto in cemento sul quale erano
seduti e gli disse: “Andiamo! Ti porto nella mia saletta, ti
presento i miei amici e ti faccio vedere i nostri strumenti.
Purtroppo non ne abbiamo di tradizionali armeni, ma pazienza, tanto
nessuno di noi li sa suonare!”.
John
avrebbe voluto ridere, ma non ci riusciva. Forse quel giorno, dopo
quasi due anni che ne stava alla larga, avrebbe rivisto una batteria.
Passeggiarono
per un po' per le assolate strade di Little Armenia finché non
giunsero di fronte a una struttura quadrata, bassa e dai muri
completamente bianchi. Non era la prima volta che John ci passava di
fronte: da quel che aveva capito, era una specie di punto di incontro
per i giovani che un vecchio prete metteva sempre a disposizione.
“Taniel...”
“Dimmi”
rispose il più grande mentre spingeva la porta d'ingresso.
“C'è
anche una batteria lì dentro?”
Taniel
si bloccò con la mano poggiata sulla maniglia e gli lanciò
un'occhiata interrogativa. “Non avevi detto che la musica non
ti interessava?”
John
si strinse nelle spalle. “C'è o non c'è la
batteria?”
“Certo,
e c'è anche un ottimo batterista” rispose l'altro,
sempre più confuso.
Il
cuore del piccolo John perse un battito. Non era certo di sentirsi
pronto a compiere quel passo: voleva con tutto il suo cuore
accarezzare con le sue dita i tamburi di quello strumento bellissimo,
ma allo stesso tempo era terrorizzato all'idea di sentire nuovamente
il rumore dei proiettili, della guerra, della morte.
Tuttavia,
come ogni volta, tenne la bocca chiusa e seguì Taniel dentro
la stanza. Ormai, negli ultimi anni, aveva imparato a stare zitto.
Una
volta superato un piccolo e spoglio ingresso, i due bambini si
ritrovarono in una piccola stanza insonorizzata, illuminata dalla
luce che filtrava da una sola finestra. John si guardò
attorno: da una parte erano ammassati alcuni amplificatori che di
certo non erano di prima classe, mentre accanto alla finestra
troneggiava una grande batteria color legno chiaro. Era bellissima: i
piatti erano lucidi e risplendevano nella luce del tardo pomeriggio,
le pelli bianchissime parevano quasi fatte di carta.
John
si incantò a guardare quel gioiellino ed era talmente preso
che quasi non si accorse della bambina che gli si era avvicinata.
“Ehi,
ragazzino, sto parlando con te!” lo richiamò lei per
l'ennesima volta, dandogli un colpetto sulla spalla.
John
cadde dalle nuvole e spostò lo sguardo su di lei, in
imbarazzo. “Ah... scusa.”
“Comunque
mi presento: io sono Hurik, ho nove anni e suono il basso. Tu come ti
chiami?” domandò la bambina curiosa.
“John.”
“Se
vuoi avvicinati alla batteria” lo invitò Taniel,
spingendolo leggermente verso lo strumento.
Lui
non ribatté, non aprì bocca. Quello era un momento
tutto suo.
In
fondo quell'insieme di tamburi e piatti non gli faceva paura, anzi,
era tutto così bello. Ciò che lo spaventava davvero era
il rumore.
Ma
ora tutto era fermo, nessuno suonava.
John
prese posto sul seggiolino e cominciò a percorrere con un dito
il bordo del rullante. Era freddo, ma non faceva male.
Hurik
e Taniel lo osservarono incuriositi, parlottavano tra loro, ma lui
non li sentiva nemmeno. Non gli importava.
La
batteria lo aveva chiamato a sé, lo aveva attratto come una
calamita, e lui non aveva saputo resistere.
John
accarezzò anche il piatto superiore del charleston, poi si
allungò per afferrare un paio di bacchette vecchie e
scheggiate che stazionavano sul davanzale della finestra.
Le
mani tremavano leggermente, ma lui non allentò la stretta. Gli
avevano spiegato diverse volte come le doveva impugnare e lui non se
l'era mai dimenticato, nonostante fossero trascorsi anni.
Voleva
trovare il coraggio di suonarla.
Posizionò
i piedi sui pedali.
Diede
un colpo di crash. Il suono pieno, metallico e acuto si diffuse
tutt'intorno, come se si fosse tramutato in una pioggia sottile.
Non
faceva paura.
Diede
un colpo di grancassa: secco, preciso, basso.
Neanche
questo faceva paura.
Quello
che ancora lo spaventava era il rullante. Quella notte, quando il
proiettile era entrato dalla finestra, si era sentito un suono tanto
simile a quello del rullante.
John
prese un respiro profondo.
Diede
un colpo di rullante e lasciò cadere le bacchette, pronto a
coprirsi le orecchie o scappare via se avesse avuto troppa paura.
Ma
no, nemmeno quello faceva paura.
Perché
nessuno stava sparando, nessuno aveva il controllo.
Nessuno
a parte lui.
Tutti
quei suoni li poteva controllare e dominare. Poteva decidere quanti
colpi dare e in che pezzo della batteria, poteva decidere a che
velocità darli, poteva decidere l'intensità.
Lì
non era come nella guerra, in cui poteva solo stare a guardare.
Riprese
in mano le bacchette e diede un colpo ai restanti pezzi, senza più
avere paura.
Così
come negli anni precedenti non aveva saputo esprimere a parole quello
che provava quando sentiva la batteria suonare, ora non sapeva
raccontare le sue emozioni nel suonarla. Non era mai stato bravo con
le parole.
Così
si lasciò trasportare dalla musica, iniziò a suonare
senza saperlo fare, ed espresse tutto ciò che sentiva dentro.
Finalmente era nel suo elemento.
Anche
Hurik e Taniel si aggiunsero al suo concerto improvvisato, ma lui
quasi non se ne accorse, tanto era immerso nella musica.
In
quel momento stava parlando, dopo mesi e mesi di silenzio.
“Mamma,
papà!”
“Cosa
c'è, piccolo?”
“Voglio
una batteria.”
“Come
sarebbe a dire? Fino a ieri ne eri spaventato, o sbaglio?”
“Non
fa paura. È bellissima. Mi aiuta a parlare.”
John,
ormai superata da un pezzo la soglia dei quarant'anni, ogni tanto si
ferma a contemplare la foto che tiene in mostra sul caminetto, in una
piccola cornice color legno.
All'epoca
dello scatto aveva circa sette anni: aveva il viso rotondo e paffuto,
incorniciato dai capelli scuri e lunghi quasi fino alle spalle.
Nonostante fosse ancora un bambino, aveva già le spalle larghe
ed era robusto.
Indossava
una maglietta a righe blu e azzurre.
Stava
seduto dietro la sua prima batteria e stringeva tra le mani le sue
prime bacchette; lui e suo padre l'avevano montata quello stesso
giorno.
Era
una delle rare foto in cui sul suo viso spiccava un enorme sorriso da
orecchio a orecchio.
Tutto,
in quello scatti di tanti anni prima, sorrideva e trasmetteva gioia.
John
sorrise a sua volta, ricordando quel momento. Lui in fondo lo sapeva,
l'aveva sempre saputo: nessuna guerra, nessuna bomba e nessun
proiettile sarebbe stato in grado di allontanarlo per sempre dalla
sua più grande passione, la sua musica. Colei che gli
permetteva di esprimere ciò che le parole non potevano
spiegare.
♥
♥ ♥
AUGURI
JOHN, TANTISSIMI AUGURI DI BUON COMPLEANNOOOOOO!!!!!!!!!!!! :3 :3 :3
Oddio,
non ci posso credere: il mio adorato John è arrivato a
quarantacinque anni! *-*
Ebbene
sì, ragazzi miei: anche quest'anno ho deciso di fare un
piccolo pensierino a John per il suo compleanno!
Devo
fare un paio di precisazioni:
-
La guerra civile libanese, ovviamente, è realmente avvenuta, è
iniziata nel 1975 ed è nata dal contrasto tra cristiani e
musulmani. Certo, io non sono una grande esperta di storia e non ne
so quasi niente, ho cercato di contestualizzare come meglio potevo e
come lo immaginavo io ^^
-
Anche il fatto che John, una notte, è sfuggito quasi per
miracolo a un proiettile è vera. Penso che ormai tutti la
sappiate, è un dato abbastanza diffuso. Povero il mio John T.T
ah, è vero anche che ha vissuto a Beirut, poi a Toronto per un
breve periodo e infine a Los Angeles!
-
Tutto il resto l'ho inventato di sana pianta: gli amici, la paura di
John della batteria, la saletta con gli strumenti...
Non
reputo questa una delle mie migliori storie, però è
venuta così e ho deciso di proporvela lo stesso ^^ Quest'idea
in realtà mi frullava in mente da un sacco di tempo, ma non
avevo mai pensato di metterla veramente in atto... finché Kim
non mi ha proposto un prompt (o meglio, io gliel'ho chiesto), e
questo mi ha dato l'input!
Il
prompt in questione sarebbe il titolo della storia: “When words
fail, music speaks”, cioè “Quando le parole
falliscono, la musica parla”. Penso che questa frase si adatti
molto a John e spero di aver reso il significato generale anche in
questa storia, nonostante non sia proprio il fulcro centrale!
Grazie
a chiunque abbia deciso di leggere e ancora tanti auguri di
compleanno al mio dolce John, mia grande fonte di ispirazione, che
stimo come musicista e come persona. Non lo ringrazierò mai
abbastanza... e sono sempre più orgogliosa di lui :3
HAPPY
BIRTHDAY, DRUMMER!!! ♥
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