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L’aria che
si respirava era tesa.
L’ultima e
unica volta in cui i quattro Lusan presenti
nella stanza circolare dalle pareti di nuda pietra erano riusciti a
stare nello
stesso posto e guardarsi negli occhi senza cercare di massacrarsi a
vicenda era
stata quella in cui il Trattato tra Città, quello che aveva
sancito una tregua
ormai morta e sepolta, era stato firmato.
I capi delle quattro
città rimaste avevano ritenuto
opportuno -con sommo rammarico- un incontro per decidere cosa fare
contro
Calida, Dolmer e relativi soldati. Se fosse stata una singola
città a tentare
l’assalto non si sarebbero riuniti, sicuramente non avrebbero
neppure pensato
di farlo, ma l’alleanza tra Ulthmeer e Kahzameer aveva scosso
profondamente
tutti quanti nella valle.
Gli abitanti delle
due città coinvolte magari erano troppo
impegnati a battagliare e gioire dei successi per rendersi veramente conto della portata di un simile
evento, ma tutti gli altri erano rimasti attoniti, confusi,
completamente
impreparati.
C’era chi
inizialmente si era perfino rifiutato di
crederci, c’era chi invece non s’era mosso pensando
che una simile assurda unione
sarebbe durata meno di un
fuoco di paglia; poi però Moriameer era caduta, Sarumeer
-difficile da prendere
al punto che loro credevano che sarebbe riuscita a far desistere gli
alleati-
anche, e se n’erano fatti una ragione: se qualcuno non avesse
fermato Calida e
Dolmer, sarebbero stati i prossimi.
«Dobbiamo
massacrarli prima che ci massacrino loro»
sentenziò uno dei capi, il più giovane tra loro,
nero dalla testa ai piedi «Gli
eserciti di due città, pur con l’aggiunta di
prigionieri da mandare al macello
in prima linea, non possono competere con un’armata
doppiamente numerosa».
«Davachanut’yun yem,
Artas» borbottò l’unica donna
presente, mandando a quel paese il collega.
«Danae
Luthmeer a-ghekavary,
quest’idea non piace affatto nemmeno a me, però
non vedo grandi alternative. A
dirla tutta siamo stati stupidi a sperare che le cose si risolvessero
da sole
in nostro favore. Avremmo dovuto agire già dalla caduta di
Moriameer, se non da
prima ancora…»
«Thandrumeer
è stata distrutta principalmente dalla frana
della montagna. È stata Calida a provocarla, ma questo
è un dettaglio. Abbiamo
capito che era meglio lasciare in pace la città di Utlhmeer,
ma ai tempi non
c’erano le condizioni perché una devastazione del
genere fosse ripetibile»
disse il più vecchio tra i Lusan presenti «Ad ogni
modo, l’alleanza tra
Kahzameer e Ulthmeer è un abominio. Un qualcosa di
innaturale, destinato a
finire male. Voi tre, nessuno escluso, ai tempi avete fatto a Calida
una
proposta di matrimonio: devo ancora capire perché».
«Ma allora
sei coglione, Larraz!» sbottò
il solo Lusan che fino a quel momento non
aveva aperto bocca «Il
“perché” che tu devi ancora capire
è la precisa ragione
perché ci siamo riuniti oggi! Credi che a me vada a genio
l’idea di allearmi
con persone che per anni ho considerato mie nemiche?! No! Ovvio che no!
Preferirei staccarmi le dita a morsi! Ma per il bene della mia
città mi sono
messo una mano sulla coscienza, sono venuto qui e sono costretto ad
appoggiare
Artas. Dovremmo estirpare la piaga ora, prima che peggiori!»
«il fatto
che la tua città sia quella più vicina a
Sarumeer, e dunque la prima che verrebbe attaccata, non
c’entra nulla… vero,
Galel?» insinuò Danae, con un sorriso maligno sul
volto rossiccio.
«Hai poco
da ridere, dal momento che dopo la mia verrebbe
la tua» ribatté il Lusan «E dopo la tua,
quella di Larraz».
«Le
città sono sempre state nemiche tra loro, è
così che
dev’essere ed è così che le cose devono
rimanere» insistette quest’ultimo,
incrociando davanti al petto le braccia candide «Se la
pensate diversamente, è
segno che voi “giovani” state perdendo il senno.
L’unione di persone di città
diverse porta disgrazia».
«Avresti
dovuto spiegarlo a quella tua nipote che, se non
erro, poco più di vent’anni fa rimase incinta di
un Luthmeeriano che avevate
catturato e fuggì con lui» disse Danae,
aggiungendo una risata da iena «Quella
storia mi fa ancora ridere il giusto, caro Beremeer
a-ghekavary».
Fu con una
velocità insospettabile che il vecchio Lusan
dagli occhi azzurro scuro tirò fuori una cerbottana da sotto
il mantello,
soffiando contro Danae un dardo avvelenato che questa riuscì
a evitare per pura
fortuna.
«TI IMPICCO CON LE
TUE STESSE BUDELLA, VECCHIO SCHIZZATO!»
sbraitò la Lusan, sguainando la
spada «Ti faccio ingoiare quella fottuta collana di perline
di vetro, ti taglio
le mani e te le infilo entrambe nel culo insieme alla cerbottana, hai
capito?!»
«E dovrei
allearmi con questi due?» sospirò Galel,
sistemando pigramente le pieghe della casacca bianca come il suo pelo.
«Io sono
ancora stupito del fatto che tu sia d’accordo con
me riguardo il fatto di unirci tutti contro Dolmer e Calida»
ammise Artas.
«Sono una
persona più pratica di quel che credi. Per quel
che mi riguarda dobbiamo attaccarli il prima possibile, senza perdere
tempo a
cercare di prenderli per fame come hanno fatto loro con quelli di
Sarumeer.
Anzi, non m’interessa neppure tenere in piedi quella
città» aggiunse il Lusan
«Anche se è un buon avamposto. Che i nostri
cannoni tutti uniti la buttino giù,
se serve a far fuori quei due prima che arrivino qui a divorarci gli
occhi. A
quel punto, di avamposti non ne serviranno più».
«Crepa, crepa, CREPA!»
sbraitò Danae, cercando di
infilzare Larraz -il quale si difendeva con un semplice bastone
metallico
appuntito- senza particolare successo.
«Danae, se
non la fai finita ti avviso che io e il qui
presente Galel potremmo decidere di attaccare insieme la tua
città prima di
dare addosso ai nostri nemici comuni!» la avvisò
Artas.
«È
stato questo vecchio stronzo decrepito a cominciare, non
io!» sbottò la Lusan, spostando dal volto alcune
ciocche dei capelli d’un
biondo ingrigito dal tempo «Sentitemi bene: posso anche
decidere di allearmi
con voi a due condizioni. La prima è che mi lasciate dare il
colpo di grazia a
Calida. Almeno impara a rifiutarmi…»
«Alleanze
tra città, proposte di celebrare un matrimonio
che non porterebbe figli, ma dove siamo finiti?»
borbottò Larraz.
«La
seconda è che una volta finito con Calida e Dolmer mi
lasciate attaccare in pace la città di questa cariatide che
è Larraz, senza che
voi tentiate di prendere la mia!» proseguì Danae,
ignorandolo.
«Per la
prima condizione non ci sono problemi, se ci riesci
puoi tranquillamente ucciderla tu. Per la seconda, una volta che ci
saremo
occupati dei nostri nemici tutto tornerà
com’è sempre stato, quindi
personalmente non prometto alcunché» disse Galel
«Devi accontentarti».
«Non
è neppure detto che tu, a quel punto, sarai ancora
abbastanza viva da poter cercare di prendere la mia
città» fece notare Larraz a
Danae «Sono abbastanza convinto che sarai la prima di noi a
morire. Attacchi
troppo impulsivamente».
«Parla
quello che ha cercato di avvelenarmi con una
cerbottana!» sbottò la Lusan.
«Senza che
tu, nel vendicarti, riuscissi a sfiorare questo
povero anziano che sono. Fa riflettere».
«Larraz,
anche la tua città verrà attaccata. Non puoi
riuscire a mettere da parte le tue convinzioni almeno per il bene della
tua
gente come faccio io, come ha fatto Galel?» insistette Artas
«Rifiutarti di
partecipare perché convinto a prescindere che
“tanto non poterà a nulla di
buono” non ha senso. Dobbiamo almeno tentare».
«Immagino
di essere costretto ad accettare, in caso
contrario mettereste in pratica sulla mia città quel che
avete minacciato di
fare a quella di Danae» disse il vecchio, con una buona dose
di disprezzo nella
voce «Ma quando tutto andrà a finire nel dolore,
nel fuoco e nel sangue, perché
la nostra unione non poterà a nulla di buono, ricordate che
io vi avevo
avvisati».
«Che
Q’thulu maledica te e la tua lingua velenosa»
ringhiò
Danae «La situazione è già sgradevole
senza che ti metta a portare iella, non
ti pare?!... Galel, Artas, a quando l’attacco? Prima
sbrighiamo questa
faccenda, meno durerà la nostra alleanza».
«Io so di
poter essere pronto ad attaccare Saurmeer già
stasera al crepuscolo» affermò Galel «Se
voi riusciste a prepararvi per
quell’ora potremmo sbrigare la questione in fretta. In fin
dei conti non c’è
molto da pianificare, non trovate? Dobbiamo solo sfruttare la nostra
potenza di
fuoco congiunta per buttare già quella città e
chiunque si trovi all’interno».
«Io e
l’intera Gandameer, o quasi, ci saremo»
annuì Artas.
«Io
anche» disse Danae, rinfoderando la spada.
Larraz
alzò gli occhi al soffitto. «Finirà
male. Lo sento».
***
«Basta.
Andrò a prendere i soldati “freschi”
della mia
città e della tua, che a te la cosa piaccia oppure no. Siamo
due capi con pari
disponibilità di forze e dobbiamo cercare di andare
d’accordo, ma io mi sono
stancata di quest’attesa inutile che dura da troppo
tempo».
«Calida,
sono solo sei giorni in p-»
«E noi
avremmo dovuto attaccare la città più vicina
già sei
giorni fa. Era mia intenzione partire dopo una settimana, tu invece hai
voluto
per forza procrastinare».
Calida e Dolmer,
come da piani, avevano occupato la città
di Sarumeer.
Al momento si
trovavano in quella che era stata la casa
della loro defunta collega, strappata alla vita dalla pestilenza che
loro
avevano contribuito a creare, e quella che stavano facendo, illuminati
dalla
luce rossastra di un tramonto iniziato da un po’, non era la
“chiacchierata”
più tranquilla che avessero avuto da quando si erano sposati
-tanto per usare
un eufemismo.
«Ho
ritenuto che servisse del tempo in più,
sì» ribatté
Dolmer «In poco tempo abbiamo devastato una città,
ne abbiamo assediata
un’altra respingendo le sortite dei suoi abitanti per poi
assaltarla, e alcuni
dei nostri uomini avevano contratto il morbo, quindi era
necessario».
«Primo: a
un certo punto gli abitanti di Sarumeer avevano
smesso di fare sortite, dunque tempo per riposare
c’è stato. Secondo: una
settimana sarebbe bastata, specialmente perché ci sono anche
altri soldati che
avremmo potuto impiegare. Terzo: avevamo messo in conto che alcuni dei
soldati
più vecchi o meno in salute sarebbero stati a rischio, non
c’è nulla di
sorprendente. Abbiamo soltanto perso tempo».
Il Lusan scosse la
testa. «Non la penso nello stesso modo e
non rimpiango di aver aspettato un pochino di più. Se non ci
hanno attaccati
durante l’assedio-»
«Se non
l’hanno fatto è stato perché
evidentemente non
riuscivano ancora a capacitarsi del tutto, e magari perché
speravano che
sarebbe andato tutto a rotoli» replicò Calida
«Tuttavia non è andata così!
Abbiamo preso Sarumeer, siamo praticamente alle porte delle loro
città, se non
tentassero qualcosa sarebbero completamente idioti».
“Tu
sei convinta del contrario, ma tornerai a cercarmi,
Calida Ulthmeer a-ghekavary. Tornerai eccome”.
In quelle due
settimane le erano spesso tornate in mente le
parole di Rubedo, quel monito, quella sottospecie di profezia.
“Tornerai a
cercarmi”.
Tempo prima Dolmer
le aveva fatto quel discorso riguardo il
“dopo”, ma aveva creduto di essere riuscita a
schiacciare la pulce che le aveva
messo nell’orecchio. Si era sbagliata, e quelle due settimane
di relativa
inattività le avevano riportato alla mente Rubedo, Rubedo e
le sue parole,
Rubedo e il suo potere.
Rubedo e il suo
patetismo completo.
Rubedo e
l’idea dell’affrontare una possessione da parte
sua.
“Anche se
ora mi sento decisamente meglio, resta una
pessima idea. Pessima!” si ripeté la donna.
«Devo
ringraziare Q’thulu che tu non abbia tentato di
convincermi minacciando di strapparmi gli occhi, immagino»
disse Dolmer.
«Non
ringraziare il tuo dio, ringrazia il mio buonsenso e
il mio buongusto nell’evitare di fare minacce che non potrei
mettere in
pratica, o meglio, che non potrei mettere in pratica senza
conseguenze» si
corresse Calida, impassibile «Le alleanze hanno i loro pro e
i loro contro».
«Se non ho
accettato di partire non è stato per
ostruzionismo fine a se stesso. Finora siamo riusciti ad andare
piuttosto
d’accordo, non potremmo continuare?»
«Continueremo
ad andare d’accordo se partiremo quando sarò
tornata con altri soldati. Tu finora hai accettato di seguire molti dei
miei
piani d’azione» riconobbe la Lusan
«Motivo per cui tutto sommato ti sono venuta
incontro, ma siamo in ritardo di quasi una settimana sulla mia tabella
di
marcia. È tempo di andare».
Dolmer
restò in silenzio per qualche attimo, per poi fare
un cenno di assenso. «Dovremmo attaccare questa sera
stessa?»
«È
quel che ho detto poco fa. Considerando che tutto è
pronto da sei giorni, non resta altro da fare se non dare
l’ordine. Io vado»
concluse Calida, muovendosi a grandi passi in direzione
dell’ingresso.
«Calida».
Sentendosi chiamare
dal marito, lei si voltò.
«Sì?»
«So che
quel che sto per dire non c’entra nulla con il
contesto, ma pensando a quel “tutto sommato ti sono venuta
incontro” mi sono
reso conto di non averti mai detto che questo matrimonio alla fin fine
è meno
peggio di quanto avessi pensato. Ammetto che mi ero immaginato un altro
tipo di
trattamento».
Calida
sollevò un sopracciglio. «Cercavo un alleato, non
un
ulteriore problema. Tornerò presto. Fatti trovare
pronto».
Dette quelle ultime
frasi lapidarie prese congedo e, senza
neppure curarsi di farsi affiancare da qualche soldato, uscì
da Sarumeer per
dirigersi a Ulthmeer.
Avrebbe potuto
mandare qualcuno a portare il messaggio
invece di muoversi personalmente, ma aveva preferito così,
forse perché anche
in un frangente del genere aveva sentito la necessità di
trascorrere del tempo
da sola, tempo che andare da Sarumeer a Ulthmeer le avrebbe concesso.
Gli impegni attuali
gliene lasciavano poco, e gliene
lasciavano ancor meno per andare a fare visita alla sola persona che
avrebbe
voluto vedere davvero.
Dall’assedio
di Sarumeer in poi era riuscita a vedere Anise
solo in un’occasione. Era già tanto
così, Calida ne era consapevole -e se non
altro grazie a quella visita aveva saputo che Anise, in quei giorni,
non
sarebbe stata sul pianeta- però era un
po’dispiaciuta di non poterla vedere un
po’di più adesso che la propria salute mentale era
migliorata.
A tal proposito, se
da un lato la fredda logica le imponeva
di non credere alla stabilità
di
miglioramenti miracolosi, dall’altro lato non riusciva a
soffocare la flebile
-e comprensibile- speranza che quella condizione durasse davvero. Era
da tempo
ormai che non si trovava più a supplicare che
quell’incubo avesse termine o a
prendere in mano un pugnale col pensiero di porvi fine personalmente.
Mentre passava
vicino a una piccola collina le parve di
iniziare sentire del rumore di troppo, quello di un folto gruppo di
persone
ammassate, provenire da una certa distanza.
Non proveniva da
Ulthmeer, non proveniva da Kahzameer; per
un istante pensò che provenisse da Sarumeer ma concluse
presto che no, era
troppo lontano.
Corse in cima alla
collinetta -da un punto leggermente più
alto avrebbe visto meglio cosa stava accadendo- e, quando
puntò lo sguardo in
direzione delle quattro città che restavano da affrontare,
si sentì gelare.
Al di fuori delle
mura nemiche si stava radunando un’armata
che, per gli standard della valle, era la più grande che si
fosse mai vista. Un
esercito che non poteva appartenere a una singola città,
nemmeno a due: o erano
tre armate molto numerose, o tutte e quattro le città,
nessuna esclusa, si
erano unite. Era facile immaginare chi fosse il loro bersaglio.
«Sarumeer»
sibilò.
Strinse i pugni, poi
lasciò ricadere mollemente le braccia
lungo i fianchi, osservando la scena con aria cupa.
Lei e Dolmer
avrebbero potuto gestire l’attacco di due
città, forse con la giusta strategia e l’utilizzo
di soldati più freschi -
nonché di prigionieri di Moriameer costretti a combattere
per loro- avrebbero
potuto gestirne persino tre, ma affrontare con successo un esercito
simile era
impensabile.
Era una cosa che
sapeva perfettamente, proprio come sapeva
che lasciare Dolmer al proprio destino non avrebbe migliorato la
propria
situazione: una volta occupatisi di Sarumeer, gli eserciti nemici
avrebbero
attaccato anche la sua città e una Kahzameer i cui abitanti,
privi del proprio
capo, sarebbero diventati delle mine vaganti dal comportamento
imprevedibile.
Anche cercare di
aiutare Dolmer, tuttavia, non avrebbe
portato a nulla. Avrebbe potuto irrompere nel campo di battaglia con i
soldati
che in teoria stava andando a
prendere ma, considerando il terreno, la potenza messa in campo e il
numero,
non avrebbe ottenuto altro che una disfatta.
Proprio quando aveva
iniziato a credere che una volta scesa
a compromessi la realizzazione del suo sogno fosse possibile, proprio
quando
aveva iniziato davvero a immaginare di poter avere la valle nelle
proprie mani,
le sue peggiori previsioni si erano avverate.
“Se ci
fossimo mossi prima, le città da affrontare
sarebbero state al massimo tre” pensò “E
avremmo avuto anche dei nuovi
prigionieri da poter utilizzare in battaglia. Se
ci fossimo mossi prima…”
Era stato tutto
inutile: il matrimonio, le conquiste fatte,
tutto stava per andare in fumo indipendentemente dalla sua prossima
mossa.
Contemplò
l’idea di una fuga, provando ribrezzo per se
stessa meno di un secondo dopo: non avrebbe ottenuto nulla se non una
vita nel
disonore più completo, per non parlare del fatto che
avrebbero potuto farsi
venire la brillante idea di cercarla nella foresta.
La stessa dove
viveva Anise,
che fino a quel momento era stata risparmiata grazie alla tregua, al
fatto che
la sua abitazione fosse tutto sommato ben nascosta e, forse, anche a un
pizzico
di fortuna. Vero, Anise era ancora fidanzata con Lord Beerus, ma tra
loro due
non andava più molto bene, non vivevano insieme, dunque non
c’era nulla che le
garantisse che lui, in caso di attacco, sarebbe stato lì per
evitarle il
peggio.
Fissando
l’armata in lontananza, Calida emise un ringhio di
frustrazione e disperazione.
Non c’era
niente che potesse fare.
“Tu
sei convinta del contrario, ma tornerai a cercarmi,
Calida Ulthmeer a-ghekavary. Tornerai eccome”.
Sgranò
gli occhi verdastri, mentre il cuore iniziava a
battere con tanta violenza da risultare quasi fastidioso. Le era quasi
sembrato
di sentire veramente la voce di Kamandi/Rubedo nella testa, e
ciò le aveva
ricordato che definendosi del tutto impotente davanti al disastro
mentiva,
qualcosa che poteva fare c’era: correre nella foresta, andare
a Vynumeer con il
carrello, immergersi nel lago e andare a prendere quella maledetta
corona.
«No. Non
posso. Non voglio» scosse la testa «Non voglio
condividere il mio cervello con qualcun altro, non adesso che sto
meglio, non
posso farlo, non voglio farlo! Mi sono sposata proprio per evitare
questo, e
adesso dovrei?!...»
“Tornerai
a cercarmi”.
La profezia di
quell’essere inutile e patetico, del cui
potere però aveva bisogno, alla fine si era rivelata
corretta.
Oltre alla corona
non vedeva alternative, solo buio
completo.
«Non
voglio» sussurrò.
Pensò a
Ulthmeer, la sua città, che aveva curato per anni e
che sarebbe stata devastata; pensò a tutta la fatica fatta
fino a quel momento,
che non era stata poca e le aveva portato via del tempo che avrebbe
potuto
passare con Anise; pensò ad Anise stessa, alla quale poco
importava di Ulthmeer
e della valle, ma alla quale sicuramente importava di lei.
Calida rivolse lo
sguardo verso la foresta.
Rubedo era un essere
che era stato incorporeo per migliaia
di anni, giusto? La sua salute mentale era migliorata, giusto?
Non era detto che riuscisse a sopraffarla, non adesso.
Forse poteva
farcela. Forse poteva accogliere nella propria
testa un ospite indesiderato e riuscire a sfruttarlo senza pagare un
prezzo
troppo alto.
Del resto
cos’altro avrebbe potuto fare? Se c’erano altre
opzioni, non riusciva a trovarle.
Col cuore pesante,
una morsa allo stomaco, paura e un
barlume di speranza messi insieme, Calida iniziò una corsa
sfrenata in
direzione della foresta.
***
L’istante
in cui Dolmer aveva posato gli occhi sullo
spiegamento di forze dei loro nemici, quello in cui aveva visto il gran
numero
di cannoni edi catapulte, aveva sentito su di sé tutto il
peso di quello che
sarebbe stato un massacro annunciato, del quale stavolta sarebbero
stati lui e
Calida a fare le spese. O meglio, lui e i
soldati, perché Calida aveva deciso di andare a
Ulthmeer per procurarsi i
soldati, ciò poco prima di un attacco in forze di quattro
città messe insieme.
Che caso fortuito!
Che buona occasione per darsi alla
macchia e lasciar massacrare tutti quanti loro!
“Hai
veramente deciso di lasciarci al nostro destino? Pur
sapendo benissimo che se qui e ora noi cadiamo tu sarai la
prossima?!” pensò il
Lusan, stringendo con forza l’elsa della spada.
Che Calida avesse
sentito qualcosa, quel giorno?
Che fossero arrivate
al suo orecchio voci che l’avevano
avvertita di un’alleanza e avesse deciso di togliersi di
torno per quella
ragione?
Il dubbio era
legittimo, anche se lui per primo non avrebbe
mai detto che Calida fosse tipo da darsi alla fuga quando
c’era da andare in
battaglia, ma doveva ammettere a se stesso che quella non sarebbe stata
una
“battaglia”, quanto piuttosto una condanna a morte
dovuta al suo essersi
impuntato su ragioni che no, magari non erano sbagliate, ma si erano
rivelate
fonte di una perdita di tempo che stava per portarli alla rovina.
Era qualcosa di cui
Dolmer era fin troppo cosciente,
qualcosa di cui sentiva di essere colpevole. Era stato lui a insistere
per far
riposare i propri uomini nonostante Calida premesse per partire.
Non
l’aveva forse avvertito, sua moglie, riguardo il fatto
che le altre città avrebbero potuto decidere di imitarli,
vedendo i loro
successi?
I suoi uomini non
meritavano l’abbandono da parte di
Calida.
Lui, invece, era
convinto di meritarlo totalmente.
***
La corsa, il fatto
di conoscere la foresta come il palmo
della propria mano e la presenza del carrello le avevano permesso di
raggiungere Vynumeer in un lasso di tempo abbastanza decente che in
teoria
avrebbe dovuto consentirle di tornare nella valle senza trovare
Sarumeer
completamente devastata… o così auspicava.
Il cielo stava
diventando sempre meno rosso e sempre più
violaceo, avvicinandosi man mano al crepuscolo vero e proprio. Nello
sporgersi
a osservare le acque del lago, in piedi sulla parte di riva che prima
dell’hakai di Lord Beerus
era stata coperta
da un costone roccioso, Calida notò nei propri occhi un
accenno di paura che
era solo un briciolo di quella che provava in realtà.
“Non
voglio!”
«Ma
devo» borbottò.
Prese un bel respiro
e, senza esitare oltre, si tuffò nel
lago.
Sapeva dove avrebbe
potuto trovare l’imboccatura del
cunicolo e sapeva con precisione quanto questo era lungo: tempo
addietro, Anise
le aveva gentilmente disegnato una mappa piuttosto accurata.
Raggiunse il fondale
e, ignorando tanto le alghe quanto il
cumulo di resti di Lusan, riuscì a trovare rapidamente
l’imboccatura del
cunicolo.
La corsa fatta stava
rendendo l’immersione ancor più
difficoltosa di quanto fosse di suo, ma ormai era lì, e
nella situazione in cui
si trovavano lei, Dolmer e le città, morire nel tentativo di
recuperare quella
corona era meglio di arrendersi a prescindere.
Ricordò
che Anise le aveva detto che il suo era stato solo
un sogno, che non aveva incontrato veramente Rubedo. Calida non ci
aveva
creduto ai tempi, tantomeno voleva farlo adesso. Accantonò
brutalmente quel
pensiero.
Iniziò a
risalire il cunicolo. Le rocce sporgenti e la
mancanza d’aria, che nonostante l’allenamento
iniziava a farsi sentire, la
portarono in più occasioni a maledire qualunque dio,
conosciuto di persona e
non.
Nello scattare in
avanti si ferì a una spalla e, pur non
provando dolore, maledisse anche Rubedo e chi l’aveva
imprigionato in un posto
tanto difficile da raggiungere.
Andò
ancora avanti. I suoi movimenti si stavano facendo
sempre più lenti, l’ossigeno nei polmoni stava
finendo e tenerlo al loro interno
stava diventando difficile. Si impose di darsi una mossa,
perché non poteva
mancare tanto, non poteva cedere, non adesso che…
“Che”
stava vedendo quella che doveva essere la luce
generata dai licheni della caverna che stava cercando di raggiungere.
Iniziò a
nuotare quasi con rabbia mentre sentiva i polmoni
contrarsi, costringendola a espellere qualche bolla d’aria
preziosa, ma non le
importava: l’unica cosa che vedeva era la luce, sempre
più vicina, anche se la
visuale stava iniziando a essere inframezzata da attimi di buio
completo; nella
sua testa, un unico pensiero: “ci sono quasi, ci sono, ci sono!”
Finalmente riemerse.
Si aggrappò alla roccia con le unghie,
strisciando su di essa come un lombrico, mentre sputacchiava acqua e
riempiva
d’aria i polmoni. Ce l’aveva fatta. Aveva raggiunto
la caverna.
Si concesse un
minuto intero per riprendersi un po’, poi si
fece forza e si costrinse ad alzarsi in piedi. Il suo cervello aveva
perfettamente chiare le prossime mosse, riusciva a immaginarle in modo
talmente
vivido da avere il dubbio di averle già fatte.
“Vieni,
Calida.
Vieni da me”.
Quel sussurro, di
una voce familiare… probabilmente lo
aveva sentito davvero.
Si
avvicinò a quella che Anise aveva descritto -e
disegnato- come “una roccia somigliante a una statua di Lusan
rozzamente
intagliata”.
Non era
“somigliante”, era
una statua rozzamente intagliata che, per Calida, mostrava chiaramente
un Lusan
con un solo braccio.
“Raggiungimi,
Calida”.
La gigantesca Lusan
poggiò le mani contro la statua e, chiamate
a raccolta tutte le proprie forze, spinse. Riuscì a
spostarla, non senza
fatica, e trovò l’ingresso di un altro cunicolo.
Senza perdere tempo
corse all’interno, e dopo pochi metri
raggiunse la fine.
Vide lo scrigno,
proprio come quello della leggenda, vide
il lucchetto arrugginito e, preda di una frenesia incontrollabile,
riuscì a
strapparlo via a mani nude.
Aprì lo
scrigno.
“Mi
hai
trovato!” bisbigliò Rubedo,
ebbro di gioia.
Calida
osservò la corona. Era davvero lì, davanti a lei,
nera e appuntita, con pochi intarsi decorativi di colore azzurro scuro.
La
sfiorò con venerazione, pur sapendo che chi
l’aveva indossata non era stato da
venerare.
Il potere, la
leggenda, i suoi sogni: erano tutti lì,
radunati in quel monile.
“NON VOGLIO!” si
fece sentire nuovamente il suo cervello.
«Non
voglio. Ma devo» ripeté ancora Calida.
“Oh
sì che
devi. Faremo grandi cose, noi due. Indossa la corona. Accoglimi.
Riportami alla
vita. Dammi un corpo e io ti darò il potere” mormorò Rubedo “Hai ritardato anche troppo, non
credi?”
Calida
indossò la corona, notando che era della misura
perfetta per il proprio capo. Non sapendo bene cosa fare, chiuse gli
occhi.
Non successe nulla.
“Non fare
scherzi. Io ti ho liberato, io ti accolgo a
malincuore nella mia mente e nel mio corpo… non fare
scherzi, vecchio bastardo
schifoso e storpio!” pensò.
Fu allora che la
terra cominciò a tremare.
Quel che Calida
riuscì a sentire fu, inizialmente, un
sussulto appena percepibile. Come se aver indossato la corona avesse
risvegliato una creatura che dormiva da tanto tempo, i cui battiti
cardiaci,
con la veglia, iniziavano ad accelerare.
Ben presto
però il tremolio divenne forte, sempre più
forte. Polvere e sassi iniziarono a cadere dalle pareti e dalla volta
di quel
cunicolo, mentre lo scrigno da cui aveva tirato fuori la corona, per
colpa
delle scosse, si chiuse di scatto come la tagliola di un cacciatore.
Gocce
d’acqua provenienti dalla spaccatura che si stava
rapidamente formando nella pietra sopra la testa di Calida provarono a
bagnare
la Lusan, circondata da un’aura nerastra dal particellare di
un luminosissimo
colore dorato.
Quelle gocce non
arrivarono neppure a sfiorarla, evaporando
miseramente a metà strada; come da quel momento in avanti
era destinato a
evaporare chiunque altro, e qualunque cosa, che provasse ad avvicinarsi
senza
il suo consenso.
Calida lo sentiva,
il freddo metallo della corona attorno
al suo capo, il potere puro che le pulsava nelle vene. Era grande, era
immenso,
smisurato al punto che in un certo momento, se lei avesse sofferto il
dolore,
le avrebbe procurato un male indicibile: lo sentiva spingere,
come se il suo corpo non fosse stato sufficiente per
contenerlo, come se volesse schizzare fuori dalla sua pelle, come
l’acqua che
stava cercando di penetrare con violenza in quel tunnel divenuto un
reticolo di
crepe in ogni sua parte.
Urlò. Un
suono selvaggio, delirante, che segnò la
distruzione definitiva delle pareti e della volta di pietra. Le acque
ancora
calde del lago di Vynumeer si riversarono con forza devastante
all’interno del
cunicolo, ondate feroci che cercarono di attaccare Calida dai lati, una
cascata
proveniente dall’alto che cercò di schiacciarla,
mentre la sua pelle veniva
gonfiata da protuberanze sottocutanee in continuo movimento, come
l’interno del
suo corpo fosse stato invaso da enormi scarafaggi.
La Lusan strinse i
denti, strinse tanto i pugni da far
sanguinare il palmo delle mani, mentre dalla profondità
della sua gola risaliva
un ringhio.
Quello era il potere
cui aveva sempre anelato.
Quello era il
momento in cui doveva dimostrare di essere in
grado di sostenerlo.
Il ringhio si
trasformò in un ruggito, e l’acqua che aveva
cercato di investirla si trasformò in vapore.
Calida
sollevò il capo, senza interrompere quel ruggito
disumano che avrebbe distrutto le corde vocali di una creatura normale.
Strinse
i pugni ancor di più mentre il suo corpo cominciava a
gonfiarsi, a ingrossarsi,
diventando più mastodontico di quanto fosse mai stato. Le
parve di sentire
buona parte dei suoi vestiti strapparsi e, osservando le proprie mani
con gli
occhi ormai color cremisi, vide che sul suo manto decisamente scurito
erano
comparse striature e ghirigori dorati, brillanti, tanto da rendere il
vapore di
una luminosità accecante.
“Accettalo,
Calida. Distruggi, Calida. Distruggi. Distruggi!” urlò Rubedo
nella sua mente.
Calida, con la mente
obnubilata dal nuovo potere e
dall’impulso distruttivo che stava provando, serrò
la mascella.
“No”
pensò “Non
‘distruggi’…”
«Brucia»
sentenziò, con voce cavernosa e ancor più
mascolina di quanto già fosse.
“Brucia
tutto,
Calida! BRUCIA TUTTO!”
Il vapore era
diventato talmente tanto da non riuscire a
distinguere più nulla. La Lusan sollevò un
braccio e, un istante dopo, una
potente ondata di energia investì quel poco che restava
della volta del
cunicolo, distruggendola assieme all’acqua, assieme a ogni
briciola d’ossigeno
dell’aria che svelta era andata a occupare il vuoto lasciato
da essa, mentre la
terra continuava a tremare, continuava a rompersi, col fragore che
sembrava il
grido ultimo di un mostro in agonia.
Rendendosene conto a
stento, Calida uscì volando dalla
voragine che aveva creato, veloce come il proiettile di un hrat’san, di un fucile: il
vapore, la sua mole, l’aura nera e oro
che la circondava, tutto la identificava come un demonio vomitato fuori
da
chissà quale inferno -e tale descrizione non era lontana
dalla realtà dei
fatti.
La Lusan rimase
immobile a mezz’aria, osservando i resti di
quello che era stato il “villaggio maledetto”:
tutti gli edifici presenti,
nessuno escluso, erano crollati su loro stessi a causa del terremoto da
lei
provocato, il lago era ormai prosciugato, e le ossa dei Lusan erano
state
bruciate dal suo raggio energetico assieme alla terra.
“BRUCIA TUTTO!”
urlò nuovamente il suo cervello, con una voce che era un
miscuglio della sua e
quella di Rubedo “Tutto! TUTTO!”
«Non
tutto. Quasi» disse Calida, lentamente
«Quasi».
Era difficile
resistere al richiamo all’annientamento
totale, quello di un odio puro che non sentiva suo e che le scorreva
nelle vene
ed era infuocato come magma, però doveva cercare di
ritrovare il controllo,
sebbene le grida di quella voce-miscuglio fossero diventate continue.
“Ora
siamo una
cosa sola. Ora tu e io siamo uno. Bruciali, Calida. Bruciali!”
Fece un respiro
profondo, chiuse gli occhi, li riaprì.
Aveva il potere. Il
potere di Rubedo era suo, proprio come
nei suoi sfrenati sogni di bambina, di ragazzina e poi di adulta
-almeno fino a
quando lo aveva incontrato davvero.
Allargò
le braccia, abbassò lo sguardo. Sì, i vestiti si
erano decisamente rotti, ma non importava: che tutti potessero vedere
quel
corpo! Era o non era Potere incarnato?!
Sempre restando a
mezz’aria fece un breve giro su se
stessa. Nonostante il trauma iniziale si stava trovando a proprio agio,
come se
fosse nata per essere così, come se avesse trovato una parte
mancante di sé e
l’avesse spinta con forza nel posto che le competeva. Parte
del merito era
della voce-miscuglio che urlava ancora ma che, al contempo, stava
facendo
venire a galla tutte le informazioni che servivano
sull’utilizzo di quella
grande, immensa potenza.
Atagash,
l’alieno che Rubedo aveva fuso con se stesso,
potenziava in base al livello di malvagità chi ne veniva
posseduto.
Rubedo era stato un
mago malvagio, ed era diventato potente…
ma lei era Calida Delle Croci Infuocate.
Socchiuse gli occhi,
concentrò l’udito e sentì
distintamente il rumore della battaglia che si stava svolgendo a
Sarumeer.
Nel silenzio di
tomba che regnava a Vynumeer -quel che ne
rimaneva- Calida esplose in una risata gutturale.
Era tempo di
mostrare ai nemici di Ulthmeer, i suoi nemici,
che Q’thulu non era più il
dio cui dovevano adorazione e suppliche.
***
La doppia cinta
muraria di Sarumeer, bersagliata dai
cannoni delle armate di ben quattro città, aveva ben presto
ceduto, e il
fossato non avrebbe tenuto lontani gli aggressori.
«Hogevor Dolmer,
che facciamo?!» gridò uno dei suoi ufficiali
«Sono troppi!»
“Che
facciamo?”
Buona domanda. Non
c’era molta scelta tra morire, morire o,
magari, morire. I colpi dei cannoni e le palle di pece infuocata, dopo
essersi
occupati delle mura, stavano distruggendo il resto; quello stesso
edificio,
quello in cui si trovava in quel momento, era stato parzialmente
sfondato da
una cannonata che per puro miracolo non lo aveva colpito.
«Dov’è
la Hogevor
Calida?!»
Altra buona domanda.
« Hogevor
Dolmer!...»
«Quanto al
cosa facciamo, c’è solo un’opzione:
vendiamo
cara la pelle e portiamo all’inferno con noi quanti
più possibile di quei
bastardi! Calida dal canto suo dovrebbe essere ancora a Ulthmeer, ma
tornerà»
mentì il Lusan, non volendo che i soldati si
demoralizzassero anche per quello
e combattessero con meno foga «Alle armi!»
urlò, uscendo fuori dall’edificio
«Alle...»
Il secondo urlo gli
morì in gola: nonostante il crepuscolo,
l’altezza cui era stato costruito l’edificio e
l’ubicazione dell’ingresso gli
stavano permettendo di vedere molto chiaramente delle volute di fumo -o
altro?-
sollevarsi dal punto in cui si trovava Vynumeer, il villaggio maledetto.
«Che sta
succedendo, adesso?!» esclamò, sgranando gli occhi
dorati nel notare in aria una creatura luminescente in rapidissimo
avvicinamento.
Sapeva che in teoria
avrebbe dovuto preoccuparsi più della
battaglia in corso, eppure quella cosa
strana sotto i suoi occhi gli stava causando una terribile stretta allo
stomaco, e un’ altrettanto terribile voglia di mettersi a
pregare Q’thulu, più
di quanto stesse già facendo- mentalmente- per la propria
sorte e quella dei
suoi uomini.
Soprattutto quando
iniziò ad avvertire la strada lastricata
di pietre sussultare sotto i propri piedi.
«Hogevor Dolmer,
che succede ora?!» gridò uno dei suoi uomini,
terrorizzato.
La sola memoria che
i Lusan avessero del terremoto era
relegata in libri che pochi di loro si erano degnati di leggere, motivo
per cui
quel fenomeno mandò tutti quanti in confusione, tanto gli
attaccanti, quanto
gli attaccati.
«N-non…»
balbettò il Lusan, avvertendo distintamente l’aria
farsi sempre più elettrica man mano che l’essere
luminescente si avvicinava; un
individuo di cui ora, grazie alla vista estremamente acuta che
caratterizzava
la sua specie, Dolmer riusciva a distinguere vagamente le fattezze,
notando con
suo sommo sconcerto che somigliavano a quelle di un Lusan.
“Tu
e i nostri uomini rientrate negli edifici che sono
ancora in piedi”.
Nel ricevere
quell’ordine mentale conciso e perentorio,
Dolmer sibilò di dolore, spalancando la bocca per la
sorpresa. Aveva
riconosciuto immediatamente la voce di sua moglie.
«C-Cal...»
“Dolmer.
Adesso”.
Per un brevissimo
istante pensò a un’allucinazione di
qualche genere, ma quando sentì il pelo rizzarsi su tutto il
corpo, quando
sottili saette di colore dorato iniziarono a crepitare nel cielo e le
macerie
più leggere iniziarono a volare in aria attratte dalla forza
invisibile e
indicibile che tutti loro stavano avvertendo chiaramente, la sua lingua
si
mosse da sola.
«RIENTRATE!»
urlò, con tutto il fiato che aveva in gola
«Entrate negli edifici che sono
ancora in piedi e riparatevi sotto qualcosa! RIENTRATE
SUBITO!»
I soldati,
percependo quel che lui percepiva, vedendo quel
che lui vedeva, non esitarono a spargere l’ordine e obbedire,
ormai incuranti
di nemici che avevano fermato la loro avanzata e la loro opera
distruttiva,
presi da qualcosa che non
riuscivano
a spiegarsi e di cui provavano un terrore viscerale.
Un
“qualcosa” che ormai era sopra le loro teste,
temporaneamente coperto da una nuvola scura che però venne
prontamente spazzata
via.
«Cosa
cazzo è?!» riuscì a dire Danae, capo di
Luthmeer, con
gli occhi violacei rivolti verso il cielo.
Dolmer, pur avendo
obbedito agli ordini, aveva dato retta
al desiderio di osservare a sua volta quanto stava accadendo e quanto
sarebbe
accaduto.
Stringendo in
maniera quasi convulsa il davanzale in legno
della finestra, non riusciva a smettere di fissare quella che, pur
essendo
quasi irriconoscibile, era sempre sua moglie.
Calida Ulthmeer
a-ghekavary, diventata un essere
mastodontico vomitato dal baratro infernale che avrebbe potuto essere
la bocca
di Q’thulu stesso; i vestiti strappati, i capelli allungati,
gli occhi rossi
come il fuoco, il corpo percorso da linee e segni simili a rune che
sembravano
quasi il ritratto vivente di una maledizione.
«Come?…»
sussurrò, cercando di contenere un’ondata di
panico
puro che minacciava di travolgerlo.
“Te
lo dico dopo”.
Quelle furono le
ultime parole che Calida, in
quell’occasione, rivolse al marito.
Abbassò
lo sguardo sui quattro eserciti nemici.
Com’era
riuscita a trovarli “problematici”? Non lo
ricordava più. Erano moscerini, formiche, insetti non meglio
definiti per i
quali essere uccisi da lei in persona non sarebbe stato altro che un
onore
immeritato.
Perché
aveva parlato con quel Lusan, con quel… come si
chiamava? Dolmer, sì, Dolmer. Perché lo aveva
fatto? Non c’era la necessità.
Non sarebbe stato una delle sue vittime ma non sarebbe stato nulla
più di un adoratore
senza importanza.
«Sottomettetevi
o morite» fu tutto quel che disse loro, in
un impeto di strana magnanimità nel concedere loro una
scelta.
«Muori tu,
orrendo abominio!» urlò Larraz, il vecchio Beremeer a-ghekavary «Perché
state tutti
immobili?! Colpite quel mostro con tutto quello che abbiamo! TEINE! Fuoco!»
Riscossi
dall’immobilità cui la paura li aveva
intrappolati, le quattro armate -nessun componente escluso- presero
alla
lettera l’ordine di Larraz.
La terra sussultava
ancora, i fulmini continuavano a
squarciare il cielo, il mostro stava ghignando, ma tutto ciò
non li avrebbe
fermati: il clamore delle loro urla di battaglia tornò a
riecheggiare nella
valle, la rabbia atavica e la voglia di massacro derivati proprio dalla
maledizione del nuovo nemico -o meglio, di parte di esso- risorsero,
impetuose
più di prima.
«Cannoni! Teine!»
urlò Artas, in contemporanea con Galel che aveva dato alle
catapulte l’ordine
di fare fuoco e a Danae, la quale aveva ringhiato agli arcieri di
infilzare
“quella roba”.
Una pioggia di palle
di cannone, di frecce e di pece
infuocata si riversò addosso a Calida, le cui fauci si
snudarono in un ghigno
ancor più largo e feroce, mentre l’aura nera e oro
che la circondava si
estendeva, disintegrando tutto ciò che i quattro eserciti le
avevano lanciato
contro.
«Non
funziona! Non
funziona!» urlò Galel, nuovamente
terrorizzato.
Calida
inclinò leggermente il capo in direzione delle
città
degli insetti.
Non avevano compreso.
Lo avrebbero fatto
molto presto.
“BRUCIA TUTTO!”
urlò Rubedo, nel cervello di Calida.
Allargò
le braccia, i Lusan poterono sentire distintamente
una quantità immensa di energia sfiorarli, senza toccarli
perché non erano loro
il bersaglio.
Due boati e le due
città nemiche più vicine a Sarumeer
esplosero, creando enormi colonne di fuoco che tinsero le nuvole di
rosso, di giallo,
di nero fumo. Altri due boati, e le altre due città rimaste
subirono lo stesso
destino.
“Sottomettetevi
o morite”.
Loro avevano scelto.
Vide in lontananza
spauriti gruppetti di Lusan che per
qualche miracolo erano riusciti ad abbandonare le loro città
e a scappare in
tutta fretta, ma li risparmiò: in fin dei conti poteva anche
lasciare in vita
qualche futuro adoratore e schiavo, oltre a quelli che aveva
già.
«L-le
città!... l-le...» farfugliò Danae, col
riflesso del
fuoco impresso negli occhi e nella mente
«Tu…» rivolse lo sguardo al mostro
«Continuate a colpirlo! CONTINUATE!»
sbraitò, indicando Calida «Ha distrutto le nostre
città, facciamolo fuori!»
Pur avendo capito
perfettamente quanto fosse inutile, i
Lusan della valle non intendevano deporre le armi prima di aver
vendicato le
loro case, i loro familiari, le vite perdute e che avrebbero perso.
Loro erano
così, pensò Calida. Anche lei era stata
così,
fino a poco tempo prima -un tempo che nella sua attuale forma le
sembrava una
vita fa.
Ignorando i nuovi
attacchi degli insetti, diede ascolto a
una parte del suo cervello che le stava sussurrando qualcosa con una
certa
urgenza.
“Mèin a-aryun”.
«“Musa
di sangue”» disse con lentezza.
Aveva una mèin
a-aryun, una musa di sangue?
“Non
dimenticarla”.
Musa di sangue.
L’immagine
di una giovane lince dai capelli argentati si
affacciò con forza nella sua mente.
Musa di sangue,
Anise, sua sorella.
«Anise»
mormorò.
“Non
dimenticarla mai”.
«No.
Mai» promise a se stessa, mentre gli
“insetti” sotto
di lei tornavano ad avere un nome e delle identità che
avrebbero mantenuto
ancora per poco.
Il nero
dell’aura sprigionata da Calida inghiottì buona
parte del particellare dorato, la terra tremò ancora
più forte, tanto che
svariati Lusan caddero perfino a terra.
Da un momento
all’altro un numero indefinito di squarci si
aprì sotto i piedi dei soldati delle quattro armate, senza
che questi
riuscissero a cadervi dentro: come ferite infette che scernevano pus
caldo e
maleodorante, quelle spaccature nel terreno avevano iniziato a grondare
una
sostanza nera e viscosa, che ribollendo e muovendosi in un modo tale da
far
sospettare che fosse senziente stava inglobando dentro di sé
chiunque le
capitasse a tiro, senza far salvo nessuno, soprattutto i capi delle
quattro città.
«GALEL!» gridò
Artas, invischiato in quella sostanza mortale, al collega
«Galel aiut-»
Non
terminò mai quella richiesta disperata: tutto ciò
che
Galel riuscì a sentire fu un verso soffocato, e tutto quel
che riuscì a vedere
fu la marea nera che, nell’ultimo tentativo che Artas stava
facendo per
uscirne, si tendeva al punto da lasciar scorgere la protuberanza del
naso del
Lusan, le braccia e le mani disperatamente tese, il buco nero della sua
bocca
spalancata dall’orrore.
Una visione che lo
avrebbe perseguitato nei suoi peggiori
incubi da lì in poi, in tutte le notti che sarebbero venute,
se un secondo dopo
non fosse stato inglobato a sua volta; così come Danae,
Luthmeer a-ghekavary, presa dopo
un’ultima
imprecazione.
Larraz, il vecchio
Beremeer a-ghekavary, fu il solo
che non provò neppure a tentare di fuggire
dalla Disgrazia -così chiamava la marea nera. Rivolgendo gli
occhi azzurro
scuro verso l’alto, verso il mostro, prima di venire
inghiottito disse solo una
cosa: “Io lo avevo detto, che sarebbe finita male”.
La marea nera
continuò impietosa a mietere vittime, a
incorporare tutto dentro di sé. Armi, Lusan, qualunque cosa:
non c’era nulla
che quella roba risparmiasse, il tutto sotto lo sguardo soddisfatto di
colei
che l’aveva evocata e osservava i propri nemici venire
inghiottiti, morire,
urlare suppliche a divinità meno concrete
di lei che non li avrebbero mai ascoltati.
Quando la Disgrazia
ebbe preso tutti, Calida sollevò una
mano in aria e voltò in direzione delle quattro
città che stavano ancora
bruciando.
Quella parte di
valle devastata iniziò a gonfiarsi, poi si
ruppe, trafitta da quattro punte di pietra che iniziarono a crescere
verso
l’alto, divenendo man mano ampi pilastri che compensarono lo
spazio che c’era
tra loro andando a fondersi uno con l’altro e creando quella
che sarebbe
diventata la base di un immenso palazzo di roccia dura.
Dalla base si
originò un gran numero di nuove punte, che si
lanciarono anch’esse verso l’alto come a voler
trafiggere una luna che non
potevano vedere, intrecciandosi tra loro e creando una miriade di torri
relativamente piccole che ne circondavano un’altra immensa,
centrale.
La marea nera che
aveva inghiottito i suoi nemici schizzò
in alto e, come un mantello nero e vivo, andò schiantarsi e
a spalmarsi lungo
tutta la base del palazzo appena creato, ricoprendola interamente di sé e dei Lusan che aveva
inghiottito,
solidificandosi e solidificando anche loro in
“statue” fatte di cadaveri dalle
pose grottesche e dai volti, appena accennati, condannati a
un’espressione eternamente
orripilata.
Calida
atterrò in cima alla torre centrale e mosse qualche
passo avanti, lasciando crescere una passerella sotto i propri piedi
nudi,
pensando che ormai la sua nuova casa fosse completa, perfetta.
“Quelle
cimici
nascoste a Sarumeer. Uccidi anche loro!” urlò la voce di
Rubedo nel suo
cervello “E poi passa al resto del
pianeta! Al resto del sistema solare! Divora la galassia!”
Fece violenza su se
stessa e lo ignorò, pur sentendo le
tempie pulsare.
Potere.
Nemici annientati.
Palazzo.
La valle, finalmente
sua.
Rise, la sua aura
circondò l’intero palazzo e illuminò il
cielo.
Dolmer, vivo e
vegeto ma immobile come i Lusan che erano
diventati pure e semplice decorazioni, si ostinò a rivolgere
l’ennesima sentita
preghiera a Q’thulu.
Il capitolo
è lungo, il caldo abissale: sembrava
impossibile ma ce l’ho fatta. Nel prossimo capitolo
torneranno Anise e Beerus!
A voi eventuali
commenti, io mi limito a lasciarvi dei
disegni, uno qui, uno in fondo al primo capitolo in cui Dolmer compare
(il 23).
A presto!
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