Napoleon non si è mai illuso di poter
conoscere Illya attraverso i file della CIA. Sa perfettamente che il
russo è ben più di un mucchio di parole inchiostrate in un dossier,
ma tutti i tasselli che formano il mosaico del suo passato sembrano
seppelliti nella neve di Mosca o sulla cima di qualche montagna in
Siberia che di certo l’americano non si metterà a scalare, non con
il paio di Oxford fresche d’acquisto che sfoggia nella sala d’attesa
della sua sartoria di fiducia.
Scopre tuttavia che la soluzione è la
più ovvia – è così stupida che nessuna spia che si rispetti ci
sarebbe mai potuta arrivare. Per fortuna, Gaby si mostra ancora una
volta più sveglia della media degli agente segreti.
La tedesca prende posto sul divano da
cui Illya ha commentato per tutto il tempo le scelte stilistiche di
Napoleon e gli sfiora la tempia con le dita.
«Come te la sei fatta questa
cicatrice?»
«Calcio di fucile.»
Dunque, tutto quello che serve per
ottenere una risposta è chiedere.
Napoleon li guarda attraverso la
specchiera; diventato il puntaspilli della nuova creazione del suo
sarto, non osa muoversi più del necessario.
Illya gli tira un’occhiata curiosa, ma
Gaby ne riconquista l’attenzione. «Continua.»
Il russo incassa la testa tra le
spalle, incurva la schiena, tenta inutilmente di restringere
quasi due metri d’altezza, come se non meritasse, ora, di
occupare tutto quello spazio.
«Specnaz[1]
mi ha colpito e cicatrice rimasta. Ma io ridotto lui peggio.» Omette
il quando, il dove e il perché. Tratteggia solo il finale di una
storia più complessa, di un sé diciottenne da solo contro il
disprezzo di reclute e superiori, del capo chino e dei pugni in
faccia, dei tentativi di spezzarlo finché i pugni non sono più stati
sufficienti.
Chiude le dita nel palmo, cercando di
trattenere lo scatto d’ira che sente montargli dallo stomaco.
Di domande non ce ne sono più, Gaby
gli apre una mano alla nuca e lo costringe a chinarsi verso di lei.
Non c’è vergogna quando Illya obbedisce docile, ci sono invece occhi
socchiusi e un bacio soffice della tedesca posato sulla tempia.
Nel riflesso allo specchio, Napoleon
legge tutti i suoi non detti. È il primo minuscolo tassello che
Illya ha consegnato loro e l’americano lo custodisce come fosse il
pezzo raro di una collezione più ampia.
Il secondo tassello giunge con la
silenziosa insidia del fiocco di neve insinuato sotto al colletto
della maglia: si adagia danzando e, quando posa sulla pelle, il
brivido scuote violento l’intero corpo.
È così che Napoleon percepisce il
sussurro masticato di Illya.
«Ho vissuto in gulag con mat'[2]
per qualche tempo.»
È il vetro chiuso della finestra ad
accogliere le sue parole, nel punto in cui il respiro l’appanna e la
New York notturna si ricopre di nebbia alitata.
Napoleon perde il filo di un discorso
che è appena cominciato e di cui già sente di essersi fatto sfuggire
la pare più importante – di non averla, anzi, mai avuta.
Illya si volta, ne incrocia lo sguardo
per un attimo e corregge il tiro, imbarazzato.
«Non come zeka[3],
ma per imparare disciplina.» Che per lui non sarà la stessa
cosa, ma per Napoleon ha un suono orribilmente identico. E si
vergogna, ora, di aver bussato alla porta del russo con l’offerta di
una bottiglia di brandy a mascherare la voglia di compagnia – un
paio di lattine di birra sarebbero state più adatte. Il brandy sa di
beata ostentazione, la birra invece ti lascia sulla lingua un sapore
di realtà e ti ributta coi piedi a terra, tra i mortali.
Si vergogna anche di tante cose che
gli ha detto per deriderlo, da bravo gradasso americano. L’ultima è
fresca di quella mattina e quando Illya si sfiora il collo con la
punta delle dita, sa che sta pensando la stessa cosa.
Napoleon sospira. Prende fiato. E
manda a fanculo l’orgoglio.
«Oleg potrà pur volerti rimettere il
suo guinzaglio e spaventarti con la minaccia della Siberia, ma fai
parte della squadra, Peril.» per questo – e per tanti altri motivi –
non permetterà che lo portino via. Non glielo dice a parole, ma
glielo imprime sulla spalla, sotto gli abiti e sulla pelle dove le
dita lo stringono e lo tirano a sé.
Il terzo, forse, è il più doloroso.
Ce ne potrebbero essere altri, ma in
questo momento Napoleon non è sicuro di poter sopravvivere
abbastanza a lungo per scoprirli: la pallottola che gli ha forato il
fianco racconta di una storia a cui si avvicina la parola Fine.
L’unico sollievo è il braccio di Illya
che gli circonda le spalle e la sua mano che preme alla ferita. Ha
chiamato i soccorsi «Stanno arrivando» continua a ripetergli, ma col
passare dei minuti, la speranza che facciano in tempo si fa sempre
più lontana. Di vicino c’è, però, il volto del russo. E la sua
bocca. A cui comunque Napoleon non riesce ad arrivare e si
costringe, quindi, ad accontentarsi del mento.
Il suo non è un bacio – Solo è il
Picasso dei baci, il Mozart della seduzione e quello, no, non può
definirsi nemmeno la brutta copia di un bacio, è, semmai, un
trovare appoggio per le labbra. Un palliativo di cui deve per
forza accontentarsi.
«Ti rendi conto che sto quasi per
morire… e tu non mi stai dando alcuna parola di conforto? Che razza…
di partner sei, Peril…»
Illya lo stringe più forte.
Dannazione, non è nemmeno riuscito a farlo sbuffare, sta proprio
perdendo colpi.
«Credevo preferissi lavorare da solo,
cowboy.» Il suo fiato scivola sul volto di Napoleon; del suo calore
non arriva nemmeno il riverbero, scompare tra la pioggia prima di
raggiungerlo, lasciando l’americano tremante.
Il sorriso è una curva storta e
incerta che preme al mento del biondo. «Già… beh… è così da… quando
il mio primo e unico socio… mi ha tradito, vendendomi alla CIA…»
Oh, ecco, di quel frammento di
passato riesce a percepirne il dolore come fosse il proprio, perché
gli appartiene. Ci sarebbe potuto arrivare prima, ma è così stanco e
le braccia di Illya sono una così dolce culla in cui lasciarsi
andare, che…
…
Che.
«Cowboy!»
Il primo pensiero di Napoleon, quando
riapre gli occhi in ospedale, riguarda una foto che ha visto di
recente. Tra i ricordi, la pronuncia zigrinata dello Zio Rudy
gli sospira “Kodachrome” – quel nano bastardo aveva ragione: i
colori erano così vivi che li ha quasi assaggiati.
Ricorda fosse lo scatto di un giardino
in fiore della Provenza e il riflesso del sole sulla lente della
macchina fotografica aveva dato forma a piccoli cristalli di luce
bianca, gli stessi che ritrova tra le ciglia quando, a fatica, le
solleva.
«Solo!»
Gaby? Il sapore di sangue,
morfina e antibiotici gli impasta la lingua e gliela incolla al
palato. Spera, quindi, che il pensiero possa raggiungerla, quando
ruota stancamente lo sguardo sulla tedesca e la vede avanzare verso
il proprio capezzale.
Dal modo in cui lo guarda, deduce che
debba avere un aspetto orribile.
«Non farci mai più preoccupare in
questo modo!»
Si è preoccupato anche lui, a dire il
vero. Con la morte ha un rapporto strano: convivono, ma non si
parlano, né, pensava, si sarebbero mai cercati.
«Cowboy?»
L’avanzata di Illya è più lenta e
plateale. La sua voce si fa largo tra le ombre della stanza, e
quando il russo esce a sua volta dall’oscurità, Napoleon finisce
piegato in due. Ancor prima di nascere, la risata muta in scariche
di dolore e colpi di tosse che gli aprono il petto e quasi gli
strappano i punti della ferita.
«Dio…» Almeno riesce a parlare.
«È possibile che non riesca mai a fare
quello che ti viene richiesto, Solo? Ho appena finito di dirti di
non farci preoccupare! Sembra che tu lo faccia apposta.»
Gaby fa dello spirito, ma le occhiaie
sotto ai suoi occhi parlano di nottate passate in bianco e quando
esce dalla stanza per cercare un’infermiera, lo fa correndo.
Illya prende il suo posto.
Nonostante il senso del tatto sfalsato
(è riuscito a stringere le lenzuola con una mano e premersi il
fianco con l’altra?), Napoleon riesce a sentire le sue mani quando
il russo lo raccoglie di peso dal centro del materasso in cui si è
rintanato per sfuggire – fallendo – alle fitte, e gentilmente lo
aiuta a ridistendersi.
Allunga il collo, cerca la sua spalla
e il suo mento. Il bacio che vi posa (questa volta un bacio vero)
è uno schiocco umido, brillo di farmaci, ma che imporpora il volto
di Illya e gli spalanca gli occhi nel modo in cui piace
all’americano: come se servissero occhi più grandi per farvi entrare
l’immagine di Solo.
«Dio, Peril…» riprende da dove ha
lasciato. «Hai una cera orribile, credevo che la pallottola avesse
messo K.O. il sottoscritto, non te.»
«Ti ho portato qui in braccio e mi
sono stancato.» Causa, effetto e una menzogna ridicola che,
tuttavia, Napoleon non se la sente di smontare. Non questa volta,
non mentre le proprie labbra hanno ormai trovato una ragione
d’essere nei baci con cui vezzeggia il mento di Illya, sfiorando in
tocchi casuali il suo labbro inferiore.
L’altro lo accetta passivo e passa le
dita tra i suoi capelli, pettinandolo con carezze leggere.
«A proposito…» La voce di Napoleon è
sempre più roca e l’accento americano si arrotola male nelle “r”
«Non mi hai detto che fine ha fatto il tuo primo partner…»
Illya sospira, la carezza si inceppa
per un brevissimo attimo.
«Morto.»
Chissà perché Napoleon non se ne
stupisce.
«Ucciso da me.»
Le labbra di Napoleon si stropicciano
in un sorriso amaro. Nemmeno di questo si stupisce.
Per i giorni a venire, la coscienza di
Napoleon avanza e si ritira, come marea durante la luna piena.
Illya è sempre il primo ad arrivare,
giunge con i raggi dell’alba che fa capolino dietro alla sagoma di
grattacieli su cui si affaccia la stanza.
Anche senza aprire gli occhi, Napoleon
registra i suoi passi, ne percepisce la presenza muoversi verso la
finestra, aprendola per far entrare aria fresca.
Finge di dormire – cosa che i farmaci
gli rendono particolarmente facile – per dargli il tempo di
raggiungere anche il letto e sedersi sulla sponda.
La mano di Illya è stata un tocco
tentennato ogni mattina: dita che sfiorano la fronte e si ritraggono
quasi oltraggiate per aver ceduto alla tentazione, solo per, infine,
avanzare lungo i tratti squadrati della mascella e soffermarsi sulla
fossetta del mento – Napoleon non ha avuto modo di farsi la barba in
quei giorni e la peluria scura gli dà un fascino maturo.
«Potrei abituarmi a questo tipo di
risveglio.» La convalescenza ha ridato verve all’insolenza
americana.
Apre gli occhi in tempo per ritrovare
quelli di Illya distolti altrove e la sua espressione seccata, e sa
di aver appena rovinato il momento. Oh, beh, c’è di peggio:
potrebbe essere morto e non avere occasione per dare ai farmaci la
colpa della propria mano alzata alla nuca di Illya e della pressione
delle dita, quando lo abbassano, calandone il capo sul proprio.
«Cosa devo fare con te, Peril.»
Ringraziarlo di averlo tratto in
salvo, potrebbe essere un inizio. Ma è vivo, ricambierà e
pareggeranno i conti. Prima o poi. Ora, invece, può raccogliere un
altro pezzo del passato di Illya (non che gli interessi di chi altro
abbia baciato prima di lui) e, per una volta, sostituirlo col
presente. |