Resen-Lhaw 2
Salve
gente!
Secondo
capitolo del mappazzone orrendo. Ringrazio tantissimo tutti quelli
che sono passati da queste parti, mi hanno messo in qualche lista o
sono stati così gentili da lasciarmi un loro parere.
Capitolo
2
L’aquila
si posò con uno strido, arruffò le penne sul collo, si scrollò e
fece scorrere lo sguardo grifagno tutt’intorno. Res, che stava
trasportando un sacco di provviste, si fermò per un istante a
fissarla: non era un’aquila di quelle parti, aveva penne più
chiare ed era più piccola di quelle che si vedevano nel Daishrach.
Il
rapace si voltò nella sua direzione e dall’alto del ramo su cui si
era posato sembrò guatarlo con sdegno.
In
quel momento, un colpo di verga sulla schiena lo fece sussultare.
“Ancora a guardare le nuvole, specie di fannullone?” abbaiò un
graduato.
Res
fu attraversato da un fremito, ma non rispose. Si limitò a
bilanciarsi meglio il sacco sulla spalla e a proseguire verso i carri
fermi al centro della piazza d’armi.
“Vieni
qua, muoviti!” lo incitò uno dei soldati che stavano allestendo i
carichi. “Non abbiamo tutto il giorno.”
L’altro
depose il sacco di granaglie, di almeno centoventi libbre, su uno dei
pianali.
“Non
qui! Su quello dei cucinieri, imbecille.”
Senza
parlare, il soldato sollevò di nuovo il sacco, se lo caricò in
spalla e procedette verso l’altro carro. Aveva colto uno scambio di
sguardi di intesa fra i due equipaggi, ma preferì far finta di
niente.
Prevedibilmente,
quando arrivò a destinazione, il cuoco protestò: “Chi ti ha detto
di portare qui questa roba? Rimettila dove l’hai presa.”
Res
non disse una parola. Raccolse nuovamente il suo fardello e si
allontanò.
Lo
fermò un sottufficiale: “Si può sapere dove stai andando?”
“Il
cuoco mi ha detto di riportare questo sacco dove l’ho preso,” fu
la risposta.
“E
tu ti fai dare ordini da un cuoco, razza di idiota? Che accidenti
vuoi che ne sappia un cuoco? Mettilo sul carro delle provviste e fila
a prenderne un altro!”
Il
soldato obbedì senza replicare e mentre si allontanava sentì il
graduato che diceva: “Per i volti di Dras, cosa dovrei farmene di
quel deficiente? Questo ormai non è più un esercito, è un ospizio
per mentecatti.”
Strinse
i denti e si allontanò in direzione dei magazzini. Si terse gocce
gelide dalla fronte: stava sudando più del solito, e non era una
buona cosa: significava che il suo problema stava tornando a farsi
sentire. Si chiese se sarebbe mai riuscito a liberarsene.
Si
appoggiò con le spalle contro un muro e inspirò profondamente ad
occhi chiusi, cercando di ignorare i segnali di bisogno che il suo
corpo gli stava mandando. Si passò fra i capelli una mano tremante e
la ritrasse fradicia. “Non ci siamo,” mormorò fra sé e sé.
Una
voce irata lo riscosse: “Datti una mossa, non abbiamo tutto il
giorno!”
Res
strinse i denti e tornò al lavoro.
All’alba
del giorno dopo, la colonna era pronta a partire. Nessuno gli aveva
detto dov’era diretta, ma Res aveva capito abbastanza presto che si
trattava della scorta per il principe Herich che andava al Primo
Tempio. Quello che lo stupiva era che anche lui era stato scelto per
farne parte: con l’aria di non capacitarsi della cosa, un graduato
gli aveva detto di raccogliere la sua roba, indossare la lorica e
unirsi alla scorta.
Mentre
prendeva posto in fondo al plotone, notò di nuovo l’aquila. Gli
parve che fosse la stessa del giorno prima, o perlomeno che fosse
delle stessa razza. Pensò che il rapace avesse deciso di seguire la
spedizione nella speranza di recuperare qualche avanzo. Se lo
facevano i gabbiani con le navi, era plausibile che lo facessero
anche le aquile con le carovane.
Si
disinteressò dell’uccello e lasciò vagare lo sguardo sulla
colonna: il generale Kierev aveva mandato addirittura il capitano
Arahad, che passava per essere il suo miglior ufficiale, a comandare
la spedizione. Il plotone di soldati, a parte lui, era composto da
elementi scelti, e anche sui carri c’erano solo veterani dai nervi
saldi.
Il
principe Dewrich, in armatura completa, stava girando su e giù in
sella al suo intrattabile roano, che impaziente di partire frustava
l’aria con la coda e scalpitava sul selciato. Il ragazzino, gli
pareva di ricordare che si chiamasse Herich, montava una snella
puledra grigia. Accanto a lui, su un mulo di proporzioni commisurate
al suo fisico, c’era un imponente chierico di Dras.
Seguivano
le truppe una serie di carri con i bagagli pesanti e le salmerie. In
fondo c’era un carro più piccolo e completamente coperto. Il
veicolo era di foggia civile e proveniva direttamente dal palazzo
reale.
A
un segnale del principe Dewrich, la colonna si mise in marcia. Dalla
piazza d’armi percorse tutta la Via d’Onore tra due ali di folla
esultante, quindi uscì dalla porta orientale e prese quella che nei
tempi antichi, quando il Daishrach era ancora un territorio vasto e
potente, veniva chiamata la via di Dras.
Da
allora erano passati decenni e le sempre più frequenti incursioni
dei predoni di As’del avevano reso pericolose le regioni di
confine. A parte chi doveva recarsi agli antichi templi, erano pochi
i coraggiosi che si avventuravano in quelle zone ormai selvagge.
Il
cielo era terso, solcato da poche nuvole. Una lieve brezza faceva
ondeggiare le messi ormai pronte per la mietitura. Res si rallegrò
che il caldo non fosse ancora quello della piena estate, perché
altrimenti marciare sotto il sole con l’armatura d’acciaio e lo
scudo sarebbe stata una pena.
Nello
stesso momento, Herich si guardava intorno, vagamente intimidito
dagli enormi spazi aperti che di colpo si trovava davanti. Fino a
quel momento era uscito poche volte dalla città, e sempre verso le
regioni occidentali, dove i monti Kelis creavano piccoli declivi,
foreste e anfratti ombrosi.
Quella
pianura che si perdeva all’orizzonte gli dava una strana
inquietudine.
“Che
meraviglia, vero?” disse Dewrich al suo fianco. Aveva la testa alta
e un’espressione spavalda sul volto pallido. Il vento scherzava
appena con i suoi capelli scuri e con la criniera del suo cavallo.
“Vuoi fare una corsa?” gli propose.
“Ma
io...” istintivamente si voltò verso Cresdan.
Il
fratello notò il gesto e disse: “Non essere sempre così fifone,
Herich. Come farai a diventare re dopo nostro padre, se non hai
nemmeno il coraggio di galoppare un po’ su questi prati?”
“Questi
non sono prati, sono campi,” obiettò il più giovane, “e se li
roviniamo?”
L’altro
alzò gli occhi al cielo come di fronte a un puntiglio assurdo.
“D’accordo,” sospirò, “allora sulla strada?”
Herich
si morse il labbro inferiore: a quel punto non poteva più esimersi.
“Va bene.”
“Ah,
ottimo. Fino alla quercia là in fondo, d’accordo? Cresdan, dà tu
il segnale di partenza!”
La
puledra sembrava aver capito cosa si aspettavano da lei, perché
aveva cominciato a scalpitare nervosa, con le orecchie dritte e le
froge dilatate. Herich faticava a tenerla. Fissò con apprensione il
nastro grigio della strada, il cui lastrico gli appariva quanto mai
scivoloso e malsicuro, e si pentì di aver acconsentito alla corsa.
Già si vedeva a terra in qualche curva, magari anche con un osso
rotto.
Poi
l’animale scattò in avanti. Cresdan doveva aver dato il famoso
segnale, perché Dewrich era al suo fianco e stava facendo del suo
meglio per superarlo. Strinse convulsamente le redini e le ginocchia,
con l’impressione di trovarsi in groppa a un dragone di Iarrim. Il
vento gli faceva lacrimare gli occhi e gli rendeva difficile
respirare. Per quel poco che riusciva a vedere, la quercia solitaria
si stava avvicinando a velocità vertiginosa.
Arrivarono
all’albero. Il cavallo di Dewrich, addestrato da guerra, girò
stretto intorno al tronco e ripartì nella direzione opposta, ma la
puledra rischiò di scivolare e Herich dovette aggrapparsi alla
criniera per non essere sbalzato a terra.
“È
bello, vero?” esclamò Dewrich al suo fianco, spronando il cavallo
per fargli aumentare ulteriormente l’andatura.
Concentrato
nel compito di rimanere in sella, il ragazzo non rispose.
Lentamente
i campi coltivati si trasformarono in una steppa incolta. Le case
coloniche, prima disseminate un po’ ovunque, divennero sempre più
rare e poi scomparvero del tutto, lasciando il posto a qualche rudere
abitato dai corvi. Dopo il crocevia di Luktavn, la strada lastricata
venne sostituita da una larga pista di terra battuta.
Sorsero
rilievi montuosi, dapprima appena dei corrugamenti del terreno, poi
pian piano tali ondulazioni si alzarono fino a diventare una parete
montuosa scabra e rossiccia, ai cui piedi si muoveva la spedizione.
Herich
si voltò verso il fratello: “Che monti sono questi?”
“La
Cresta di Kenegan, la seguiremo fino alla gola di Os’lak.”
“Dove
c’è il Primo Tempio?”
“Esatto.
È strano pensare che una volta la Capitale fosse qui, non è vero?”
“Già.”
Il
ragazzo si guardò intorno. A parte il sibilo del vento, c’era un
silenzio raggelante. Cosparsa di duri fili d’erba, la pianura
sembrava disabitata e inospitale. La falesia che stavano costeggiando
si faceva più incombente a ogni passo.
Di
tanto in tanto si vedevano in lontananza pezzi di muro, a volte anche
qualche arco. Il candore dei blocchi di marmo che spuntavano dalla
terra faceva pensare a vecchie ossa consumate dalle intemperie.
Herich non poté fare a meno di notare che la pietra era la stessa
con cui era stato edificato il palazzo reale di Dyat.
Era
pomeriggio inoltrato quando il capitano Arahad diede l’ordine di
allestire il campo per la notte. La luce stava scemando rapidamente,
il freddo cominciava a farsi sentire. In lontananza si udivano i
richiami rochi dei tanroth-ath.
Res
fece scorrere lo sguardo sull’orizzonte. Animali strani non se ne
vedevano, ma la cosa non lo tranquillizzò per nulla. Peraltro, gli
animali erano probabilmente il problema minore di quelle regioni
inospitali, battute in lungo e in largo dalle bande di predoni che
sconfinavano dalle steppe di As’del.
Di
sicuro la voce del loro passaggio era già arrivata alle orecchie di
chi di dovere, e presto avrebbero dovuto prestare molta attenzione
alle incursioni notturne.
Si
voltò verso il capitano Arahad, che stava parlando con il principe
Dewrich e pareva piuttosto sicuro di sé. Sapeva che aveva
combattuto, ma era troppo giovane per aver preso parte a qualcosa di
più serio di scaramucce di confine. Si augurò che fosse almeno un
uomo di buon senso.
Alzò
lo sguardo e vide che nel cielo roteava un rapace. Si fece ombra con
la mano per vedere meglio e notò che si trattava di un’aquila.
In
quel momento si fece sentire una voce irata: “Tu, laggiù! Credi di
essere in taverna a fine servizio? Datti una mossa!”
Il
soldato raggiunse gli altri.
Presto
sorse una palizzata tutt’intorno all’accampamento e furono
organizzati posti di guardia. La tenda dei principi fu allestita al
centro del campo, in mezzo a quelle dei soldati. Venne distribuito il
rancio.
Seduto
in un angolo in disparte a consumare la sua razione, il soldato
lasciava vagare sul campo uno sguardo stanco. Come sempre verso
quell’ora, il suo problema si faceva sentire e i crampi gli
facevano dolere tutti i muscoli. Si portò il cucchiaio alla bocca,
ma la mano gli tremava talmente forte che quasi gli cadde per terra
il suo contenuto. Lo ripose nella gavetta.
In
quel momento notò che il giovane principe gli si stava avvicinando.
Represse un’imprecazione: non era il momento.
Del
tutto inconsapevole del suo malessere, il ragazzo lo raggiunse e lo
salutò. “Posso stare un po’ qui con te?” gli chiese.
Res
strinse i denti. “Sei il principe, puoi stare dove vuoi.”
Il
ragazzo lo fissò incerto, poi si sedette su un sasso poco distante.
Per un po’ rimase in silenzio, poi gli chiese: “Sei stanco, Res?”
Notò che il recipiente che aveva in mano era ancora pieno a metà.
“Non ti va di mangiare?”
Il
soldato emise un sospiro. “Principe...”
Il
ragazzo assunse un’espressione preoccupata. “Ti disturbo, per
caso?”
Res
scosse la testa. “Questo non è il tuo posto, principe. Non è
opportuno che tu stia in mezzo ai soldati semplici.”
Il
ragazzo sgranò gli occhi. “Perché?”
Prima
che l’uomo potesse rispondere, si udì un brusco richiamo:
“Herich!”
Il
giovane principe si girò di scatto, poi tornò a voltarsi verso
l’uomo. “È Dewrich,” disse, quasi in tono di scusa.
“Ti
vuole dire, principe, che non è opportuno che tu stia qui. Il tuo
posto è in mezzo ai nobili.”
“Herich!”
Il
ragazzo corse via.
Res
rimase a seguirlo con lo sguardo. Lo vide raggiungere il fratello e
sentì il maggiore dirgli qualcosa alzando la voce. Il più giovane
ritirò la testa fra le spalle ed egli dovette distogliere lo sguardo
mentre un fremito di rabbia lo invadeva. “Non è il caso,” si
disse a mezza voce, “gli creeresti più problemi che altro.”
Riprese
la gavetta e ricominciò a mangiare, portandosi il recipiente vicino
alla bocca per evitare che il tremito della mano, nel frattempo
diventato più intenso, gli facesse rovesciare il contenuto del
cucchiaio.
§
Herich
riaprì gli occhi indolenzito dappertutto. Non aveva mai dormito su
un letto da campo e gli sembrava di essere stato tutta la notte sulla
dura pietra. Il sole stava sorgendo, da una fessura della porta
penetrava un raggio dorato, che faceva brillare i fregi della sua
veste da cerimonia.
Si
guardò intorno: da dietro una tenda proveniva il russare regolare di
Cresdan, ma il letto di Dewrich era vuoto. Da fuori provenivano voci
e ordini gridati.
Emise
un sospiro e si passò una mano fra i capelli arruffati dal sonno.
Aveva sognato di nuovo Resen-Lhaw. Questa volta il guerriero, sempre
girato di spalle, gli era apparso così vicino che per un breve
attimo aveva creduto di poterlo finalmente toccare. Ricordava ancora
le proprie dita che quasi sfioravano la rossa cotta d’arme
dell’eroe.
Si
mise a sedere sul letto, e in quel momento i lembi dei teli che
chiudevano la tenda si sollevarono ed entrò Dewrich. “Hai dormito
bene, fratello?” gli chiese.
“Sì,
benissimo,” disse subito il ragazzo.
“Allora
vieni, il cuoco ha preparato la colazione.”
Herich
si alzò un po’ perplesso. Nella sua breve vita non gli era mai
capitato di alzarsi dal letto e andare a mangiare così com’era. Di
solito la colazione era preceduta da lunghi preparativi, e da una
scrupolosa vestizione. Uscire così lo faceva sentire nudo.
“Ti
muovi?” lo richiamò il fratello.
“Ma
io...”
“Forza!
Se fa tanto di alzarsi anche Cresdan, per noi non rimane più neppure
una briciola.”
La
giornata trascorse così uguale alla precedente da far credere a
Herich che fosse esattamente la stessa: il paesaggio era talmente
monotono che se non fosse stato per i rumori della colonna in marcia,
avrebbe pensato di essere sempre fermo nello stesso posto. Il cielo
si era fatto bigio, lattiginoso, e nemmeno il movimento del disco
solare dava un’idea del passare del tempo.
Talvolta
si incontravano scheletri abbandonati lungo la via, più spesso di
cavalli o bovini, ma ogni tanto anche umani, a testimonio dei
numerosi pericoli di quella desolata contrada.
La
sera venne di nuovo allestito l’accampamento, con l’unica
differenza che Herich non tentò più di avvicinare il soldato. A
prescindere da ciò che l’uomo gli aveva detto su quale fosse il
posto più opportuno per lui, aveva la sensazione di dargli fastidio,
o forse di metterlo a disagio. Si mantenne accanto alla tenda e la
abbandonò solo quando il capitano Arahad lo invitò accanto al fuoco
a condividere con lui e Cresdan un po’ di vino col miele.
Il
giorno successivo cadeva una pioggia battente. La visibilità era
ridotta a poche centinaia di piedi, l’aria era opaca, immobile e
fredda, la falesia era una vaga ombra scura che incombeva sulla
spedizione. L’acqua impregnava e appesantiva ogni cosa.
I
cavalli scuotevano di tanto in tanto la criniera, lanciando spruzzi
tutt'intorno.
Avvolto
in una mantella cerata, il cappuccio tirato fin sugli occhi, Herich
procedeva in silenzio.
Stava
quasi sonnecchiando in sella, ipnotizzato dallo scrosciare della
pioggia e dai monotoni rumori della colonna in marcia, quando un
grido lo riscosse bruscamente: “Tanroth-ath!”
Si
guardò intorno: la colonna aveva immediatamente assunto una
formazione di difesa e i soldati stavano scaricando dai carri le armi
lunghe. Un paio di balestrieri approntarono le loro armi.
Dewrich
estrasse la spada e gli disse: “Resta vicino a Cresdan e non
muoverti per nessun motivo.” La voce aveva un tono di apprensione
che costrinse Herich a deglutire spaventato.
Passarono
angosciosi secondi, poi vide due figure avvicinarsi rapide: erano
quadrupedi che procedevano a balzi, grandi come un cavallo, con una
lunga coda irta di aculei e i corpi coperti di squame sul
bruno-verde.
Il
muso, lo vedeva sempre meglio man mano che le bestie si avvicinavano,
era una specie di cranio allungato e scarnificato, appena coperto da
uno strato di pelle. Avevano chiostre di zanne seghettate lunghe
almeno quattro dita.
“Per
i volti di Dras,” mormorò Herich.
“Sono
della razza che non vola,” constatò Cresdan al suo fianco. Poi, in
tono rassicurante: “Resta accanto a me, ragazzo. Conosco qualche
incantesimo difensivo che può fare al caso nostro.” Subito dopo
cominciò a salmodiare in tono monocorde in una lingua sconosciuta.
La
puledra alzò la testa e appiattì le orecchie. Tentò di scartare.
“Buona,”
le raccomandò Herich.
Le
due bestie intanto si stavano avvicinando. I balestrieri scaricarono
le loro armi, ma i dardi rimbalzarono sulle squame dorsali delle
creature.
“Negli
occhi o nella gola!” urlò una voce, e Herich fu quasi certo che
fosse quella di Res.
Cresdan
continuava a salmodiare e presto il ragazzo ebbe l’impressione che
ciò che stava succedendo gli giungesse ovattato, come da una grande
distanza. I suoni si erano fatti flebili, l’aria era immobile. “Che
cos’hai fatto?” chiese.
L’altro
alzò le spalle. “Solo un piccolo cerchio di protezione, così quei
due mostri non si accorgeranno nemmeno di noi.”
“Non
potevi farlo per tutti?”
“Nemmeno
il Grande Sacerdote potrebbe, mi dispiace.”
“Ma
così tanti soldati moriranno!” E nel dire ciò, si accorse di aver
rivolto il pensiero a Res.
La
risposta lo gelò: “Sei
tu quello che deve rimanere in vita, ragazzo mio. Ai soldati spetta
di morire per proteggerti.”
I
soldati nel frattempo si erano attestati in posizione difensiva,
puntando i calzuoli delle picche sul terreno e rivolgendo le punte in
direzione dei due tanroth-ath. Il più piccolo dei mostri, forse più
giovane e inesperto, non riuscì a interrompere la carica e se ne
piantò parecchie nel corpo, ma l’altro scartò all’ultimo
momento e balzò sul fianco della formazione per attaccare in
posizione di vantaggio.
Chiuso
nella sua bolla magica, Herich seguiva lo scontro con l’impressione
di assistere a qualcosa che si svolgeva a miglia e miglia di
distanza.
Vide
il tanroth-ath più grosso torcersi nell’aria come una specie di
serpente, poi assestare una zampata a un soldato, fargli perdere
l’equilibrio e intercettarlo a metà della caduta con un morso. Lo
vide sollevarlo di peso, scrollarlo e lanciarlo da una parte come uno
straccio.
Poi
il mostro diede una seconda zampata, facendo saltare la testa di un
altro soldato. Una picca gli penetrò nel fianco, la bestia urlò di
dolore, scartò e menò una sferzata con la coda, ma già un’altra
picca era in posizione.
Il
mostro più giovane frattanto, pur sanguinando copiosamente, si era
rimesso in piedi e stava di nuovo minacciando gli uomini.
Cresdan
alzò le sopracciglia e disse: “Già con uno di questi è dura, ma
con due...”
Poi
videro arrivare Dewrich a cavallo. Imbracciava una picca e si stava
dirigendo a tutta velocità verso il più piccolo dei due mostri.
Spronò il destriero da guerra e caricò, piantando l’arma in una
coscia del tanroth-ath. Questi si girò fulmineo menando una zampata,
ma Dewrich era già passato oltre. Il principe scartò, fece una
conversione e di nuovo si mise in posizione di attacco. Sfoderò la
spada.
“Oh,
no!” gemette Herich. “Ma che cosa vuole fare?”
Poi
vide un soldato che imbracciava con la sinistra il grande scudo
rettangolare, e nella destra aveva una spada corta. Aveva il
ginocchio destro appoggiato a terra e sembrava che si stesse
sostenendo sulla spada. La cresta scarlatta dell’elmo spiccava nel
grigiore della pioggia come una pennellata di sangue.
Impassibile
si alzò in piedi lentamente e batté la lama sullo scudo per
attirare l’attenzione dei mostri.
La
bestia più grande si voltò fulminea verso di lui, emise un ruggito
che a Herich giunse flebile, ma che faccia a faccia doveva essere
assordante. Spalancò le fauci insanguinate e partì in carica.
“Quello
non ha più voglia di campare,” commentò il chierico osservando la
situazione.
Il
tanroth-ath travolse il soldato, che cadde all’indietro
proteggendosi con lo scudo. Quando furono in corpo a corpo, l’uomo
strinse la spada e gliela piantò fino all’elsa nel ventre. La
bestia saltò all’indietro con un ululato di dolore. Il soldato si
rimise in piedi, di nuovo la invitò all’attacco.
Il
tanroth-ath si fermò. I fianchi gli battevano rapidi, segno che
stava ansimando. Frustò l’aria un paio di volte con la coda, ma
rimase immobile a studiare l’avversario.
Il
soldato fece un passo avanti, di nuovo batté la spada sullo scudo,
ora segnato da profonde intaccature.
La
belva scattò. Afferrò l’uomo a mezzo corpo, ma era indebolita e
il morso non fu poderoso come il primo. Le zanne scivolarono sulle
fasce d’acciaio della lorica. Il soldato le piantò la spada nel
collo una volta, due volte, il sangue prese a schizzare, ricoprendolo
nonostante la pioggia. Il mostro si torse ululando di dolore, cercò
di colpire con la coda, ma infine si accasciò e rimase immobile.
Il
soldato si svincolò dalla sua presa, poi si raddrizzò e si sfilò
l’elmo, rivelando capelli di un biondo chiarissimo. Piegò la testa
all’indietro e lasciò che la pioggia gli cadesse sul volto e lo
lavasse.
“Res!”
esclamò Herich.
“Sai
chi è?” chiese Cresdan stupito.
“So
solo il suo nome,” rispose avvilito il ragazzo.
“Ha
coraggio,” osservò il chierico, “ma combatte come se volesse
morire.”
Herich
lo fissò stupito. “Cosa?”
“Ma
Dras evidentemente non lo vuole ancora fra i piedi,” continuò
pacifico il sacerdote, seguendo il filo del suo ragionamento, “si
vede che quaggiù ha ancora qualcosa da fare.” Poi dissolse la
bolla di protezione. Subito i suoni tornarono normali e l’aria
riprese a muoversi. Herich rabbrividì stringendosi nel mantello.
Avrebbe
voluto andare da Res, ma era sicuro che il soldato non gli avrebbe
permesso di parlargli. Lo vide raccogliere lo scudo e allontanarsi
come se non fosse successo niente, con l’andatura ingobbita che
ormai aveva imparato a conoscere.
Mentre
lo stava ancora seguendo con lo sguardo, si sentì mettere in mano
qualcosa di freddo e viscido: abbassò gli occhi e vide che si
trattava di un lacerto di carne rotondeggiante e sanguinolento. In un
moto di ribrezzo lo buttò lontano da sé, poi cercò di pulirsi
contro la cerata fradicia.
“Perché
l’hai fatto?” gli disse Dewrich al suo fianco, ridendo di gusto,
“Quello era un trofeo del mio primo tanroth-ath.”
“Che
cos’era?”
“Un
testicolo. Ora vado a prendere l’altro e stasera dirò al cuoco di
cucinarlo, dicono che doni forza e virilità. Vuoi assaggiarlo?”
Herich
chinò la testa. “Fratello, e tutti i soldati che sono morti? E i
feriti?”
L’altro
lo guardò come se non capisse. “Che intendi dire?” gli chiese.
“Non
sei triste per loro?”
“Sono
soldati, fa parte del loro dovere. Dras li accoglierà e li
ricompenserà per il loro sacrificio.”
“Ma
fratello...”
“Quando
sarai re dovrai prendere anche decisioni che comporteranno la morte
dei soldati. Come farai allora?”
Il
ragazzo chinò la testa. Ecco di nuovo la sensazione che Dras gli
avesse giocato uno scherzo crudele: perché aveva scelto lui? Non
aveva nessuna delle doti che si richiedono a un re, mentre suo
fratello le possedeva tutte dalla prima all’ultima. “Cresdan?”
mormorò.
“Sì,
principe?”
“Gli
dei non sbagliano mai?”
L’altro
emise un sospiro. “Gli dei fanno cose che noi non abbiamo gli
strumenti per capire.”
“E
allora perché facciamo quello che ci ordinano, se non ne capiamo il
motivo?”
“Forse
perché gli dei sono come dei genitori e noi come bambini piccoli.
Quante volte tuo padre ti ha fatto fare qualcosa che non capivi? Poi
crescendo si comprende il motivo di ciò che da bambini ci pareva
assurdo.”
“Ma
noi non cresceremo mai, rispetto agli dei,” rispose il ragazzo, poi
spronò la cavalla e si allontanò prima che il chierico potesse
replicare.
Girò
per un po’ ai margini della carovana, osservando i soldati che
raccoglievano i caduti e scavavano buche per seppellirli, ascoltando
distrattamente le parole di Cresdan che distribuiva erbe e
incantesimi curativi. La pioggia portava via il sangue, quello degli
uomini e quello dei mostri, lo faceva penetrare nella terra, dove
forse avrebbe fornito nutrimento per delle nuove vite.
Osservò
un rivolo rosso che serpeggiava nel fango, diventando via via più
sbiadito mentre la pioggia lo diluiva.
Forse
era quello in significato finale di essere dei sovrani: diventare
parte attiva in quel grande ciclo, decidere dove si sarebbero spente
delle vite e dove ne sarebbero state generate altre. Avere la
saggezza di capire quando e dove ciò dovesse accadere.
Strinse
le dita sulle redini mentre i soldati finivano di ricoprire le buche
che avevano scavato per i compagni. Non si sentiva pronto per questo,
era un peso troppo grande.
Cercò
con lo sguardo Res e notò che il soldato lo stava fissando. Aveva
un’espressione cupa, consapevole. Sembrava quasi che gli stesse
leggendo nel pensiero.
Gli
fece un cenno con la mano, ma l’uomo gli voltò le spalle e si
allontanò.
§
La
spedizione proseguì giusto quanto bastava per allontanarsi
adeguatamente dal luogo del combattimento, poi Arahad diede l’ordine
di erigere la palizzata, piantare le tende e accendere i fuochi da
campo. Fece raddoppiare le sentinelle.
Aveva
smesso di piovere. La luce stava scemando e tutto si confondeva in
una nebbia che andava facendosi sempre più densa.
Le
tende furono piantate, il rancio cotto e distribuito. Chi era ferito
fu visitato dal chierico.
Calò
la notte.
Attorno
a un fuoco, alcuni soldati consumavano la razione e intanto parlavano
fra loro. Forse per l’euforia di essere ancora vivi nonostante
l’attacco dei due tanroth-ath, erano tutti piuttosto vivaci.
Uno
saltò su e propose: “Che ne dite di una canzone?”
“Giusto!”
approvò un altro, “Va bene quella del Leone Rosso?”
“Sì,
sì! Il Leone Rosso del Waerund!” esclamarono altre voci.
Venne
intonato il canto. Tutti coloro che non avevano compiti particolari
da svolgere si unirono al coro, alcuni battendo il tempo con il
bicchiere di latta contro qualcosa di duro.
In
disparte come sempre, Res prestò solo un orecchio distratto a quei
vigorosi vocalizzi. Finì di mangiare, aggrottò le sopracciglia alla
salva di acclamazioni che fece seguito alla conclusione dell’ultima
strofa, poi lentamente si alzò e si avvicinò al fuoco.
“Tre
urrà per il Leone Rosso!” stava proponendo uno dei più eccitati.
Res
li fissò serio per un po’, infine con durezza proferì: “A me
risulta che le cose siano andate in modo diverso.”
Per
quanto avesse parlato con un tono di voce neutro, la frase ebbe il
potere di far calare il silenzio. Tutti si voltarono nella sua
direzione. “Che intendi dire?” chiese uno dei soldati.
“La
storia dell’eroe è una montagna di frottole, che solo allocchi
creduloni come voi posso prendere per buona.” Parlava a denti
stretti, ogni parola era un sibilo rabbioso. Prima che gli altri
avessero modo di replicare, proseguì: “A metà della Guerra
Orientale, Resen-Lhaw, o se preferite Tjeran Sonse, venne ferito da
una freccia mewen. Il guaritore gli somministrò del tau’zeel per
aiutarlo a sopportare l'atroce dolore della sua punta avvelenata e
lui, invece di rifiutarlo come avrebbe dovuto fare un vero guerriero,
ci si attaccò come un infante al seno della madre. La sostanza si
impadronì di lui, cominciò a influire sulle sue decisioni tattiche
e sul suo comportamento. Il leggendario Leone Rosso divenne pavido e
debole.”
Si
interruppe, fece scorrere lo sguardo sui compagni seduti intorno al
fuoco. Il silenzio si era fatto carico di aspettativa e tutti lo
fissavano immobili.
“Il
massacro di Brielar sarebbe stato una grande vittoria, se Tjeran
Sonse non fosse sceso in battaglia imbottito di tau’zeel: mentre i
suoi uomini combattevano e morivano, il Leone Rosso del Waerund
farfugliava ordini insulsi con la bocca impastata e l’unica
preoccupazione che aveva, in mezzo alla carneficina che lui stesso
aveva provocato, era salvare la sua miserabile pelle e andare a
recuperare la fiala di droga che aveva nascosto tra gli scogli di
Brielar.” Fece un’altra pausa, quindi a voce più bassa
soggiunse: “Quando tutto fu concluso, re Elkingar gli inflisse
giustamente la più terribile delle punizioni: non la morte, quella
sarebbe stata un castigo troppo pietoso per gli atti ignobili che
aveva compiuto. Lo condannò a vivere con la consapevolezza di ciò
che aveva fatto. Lo spogliò delle sue insegne e lo scacciò, e per
tutti coloro che avevano creduto in lui, e che non meritavano di
scoprire la miseria di ciò che era veramente, fu creata la leggenda
che sopravvive ancora oggi.”
Quando
Res smise di parlare, per parecchi secondi l’unico rumore che si
udì fu il crepitare del fuoco. Infine, un soldato chiese: “E tu
come lo sai?”
“Lo
so.”
“Ma
figurarsi! Eri là, per caso?”
“Sì,
c’ero.”
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