Abisso
III
Luce
Giungemmo presso la zona costiera di fronte a Nodens nel tardo
pomeriggio. Lungo la strada ci eravamo fermati a mangiare qualcosa;
meglio, io avevo mangiato ma Itachi si era limitato a bere,
perché sembrava indifferente al cibo, come se non gli
riguardasse.
Nonostante
l’acqua e il fatto che si fosse bagnato sotto uno dei
lavandini presso le stazioni di servizio, vedevo chiaramente la pelle
seccarsi: le minuscole scaglie che rendevano la superficie simile a un
caleidoscopio di colori erano ora spente, prosciugate dalla luce del
sole e da un’idratazione evidentemente non sufficiente.
Parlammo poco,
anche se io sentii una sorta di fastidio in gola, quasi un raschiare
alla base dell’epiglottide e poi giù, lungo la
trachea, quindi per colpa della mia tosse nervosa il viaggio non era
proseguito nel più completo silenzio.
Fermai la
macchina in un parcheggio poco distante dal mare. Non dovetti nemmeno
faticare per trovare posto perché era totalmente deserto:
sembrava quasi che quella zona costiera fosse nota solo a noi, persino
i cartelli segnaletici posti qualche chilometro più indietro
erano sbiaditi e scavati dalla ruggine, come se a nessuno importasse
mantenere la conoscenza di quei luoghi.
Non appena
uscimmo dall’auto mi sembrò che Itachi, respirando
l’aria odorosa di salsedine, avesse ripreso vita, simile a
una scarica elettrica sparata in pieno petto, capace di far ripartire
un cuore. Provai una fitta al torace, di sollievo misto a disagio, un
disagio che mi lambiva anche la gola come sabbia divorata fino a
soffocarmi. Appoggiai per riflesso il palmo della mano sulla tasca,
dove c’era il leggero rigonfiamento del fazzoletto con
all’interno il frammento di vetro; ovunque fossimo andati,
anche in mezzo all’acqua dove la pistola non poteva sparare,
avrei comunque avuto un’arma per difendermi. Non esattamente
il meglio del meglio, ma dovevo farmelo bastare.
Spostai lo
sguardo verso Nodens: c’era bassa marea, dunque in
realtà l’isola era collegata alla terraferma da
una sottile striscia di terra sabbiosa che si allungava per interi
chilometri, con in lontananza barche da pesca di legno consumato dal
sale arenate in pozze d’acqua. Si intravedevano alghe
rattrappite e molluschi rifugiati nelle loro conchiglie che avanzavano
pigri, in attesa di venire lentamente lambiti dal mare.
Al fondo del
percorso sabbioso si stagliava l’isola che pareva concentrare
su di sé le ombre e le nuvole della sera prossima, regalando
scorci di una notte precoce ed edifici dal profilo aguzzo, frastagliato
come i pendii scoscesi che finivano a strapiombo nelle onde spumose.
Attorno, invece, il sole in procinto di affondare
all’orizzonte regalava ancora raggi dalle sfumature rossastre
e aranciate, portando l’acqua a risplendere simile a un cesto
pieno di cristalli.
Senza dire una
parola Itachi si tolse le scarpe, lasciandole ordinatamente disposte
all’inizio della strada, poi cominciò ad avanzare.
Lo seguii da breve distanza, guardando la sua figura alta e longilinea
stagliarsi su quell’infinito percorso che poche ore prima
apparteneva al mare, circondata dall’ultimo sole capace di
far risplendere ancora le sue scaglie disidratate e i capelli che
raccoglievano in sé vita millenaria.
Dopo qualche
metro, a mia volta senza pensarci particolarmente tolsi le scarpe e le
lasciai indietro; fu liberatorio affondare nella sabbia morbida, coi
granelli umidi che s’infilavano tra le dita. Tra poco quel
sentiero sarebbe stato inghiottito a sua volta dal mare, con la sabbia
e le conchiglie, per poi venire trascinate chissà dove dalla
corrente. Una parte di me riteneva che tanto le scarpe stesse non mi
sarebbero più servite.
A
metà del percorso, però, mi arrestai. Itachi
continuò per un paio di metri, ma più lento,
così io lo chiamai, mentre lenta l’acqua
cominciava a risalire in un lento gorgoglio di risacca che divorava il
terreno, accarezzandolo.
“Dimmelo.”
Lui si
voltò. Il corallo delle ciglia folte sembrò
più rosso, abbandonando l’antracite che la notte
prima gli aveva impolverato le gote.
“Cosa
vuoi sentirti dire, Shisui?”
Mi
sembrò ci fosse una nota di affetto nel pronunciare il mio
nome, il che mi trasmise ancora più dubbi e tristezza.
“Hai
ucciso tu Sasuke Uchiha, un anno fa? Era tuo fratello.”
Sapevo di aver
dato un istintivo tono d’accusa in quell’era tuo fratello.
Non mi
rispose, ma continuò a guardarmi. Sentii uno scroscio
d’acqua più forte, voltai la testa e vidi che il
mare stava avanzando con una velocità del tutto innaturale,
come sospinto da mani invisibili capaci di riversare in un bicchiere la
forza sconfinata dell’oceano: l’alta marea stava
arrivando. Presto, quella striscia di terra sarebbe scomparsa e io con
essa.
“Dobbiamo
andarcene, Shisui.”
Sgranai gli
occhi, furente. Avanzai verso Itachi che non mosse un passo, anche se
l’acqua ormai aveva cominciato a lambire i margini della
sottile strada sabbiosa, con le barche in secca che ora galleggiavano
inquiete:
“Io devo andarmene,
a te cosa importa?! E non hai risposto alla mia domanda! Sasuke era tuo
fratello, vero? L’hai ucciso, tu e quella famiglia di
pazzi!”
Non tirai
fuori il vetro, in quel momento, preso dalla rabbia e dalla paura me ne
dimenticai completamente per scattare di fronte a Itachi e slanciarmi
in modo da spingerlo, come se ci stessi lottando e dovessi sopraffarlo.
Sentii che in quel gesto e da quella scelta sarebbe dipesa la mia
stessa vita, cambiata per sempre.
Ma appena i
miei polpastrelli toccarono i petto squamoso della creatura,
quest’ultima mi afferrò i polsi, con una forza
tale da bloccarmeli.
Non lo spostai
di un millimetro, pareva anzi aver assorbito tutta la violenza del mio
colpo, senza però rispedirmelo indietro. Lo sentii spostare
una gamba e lo guardai negli occhi: il tempo sembrò
fermarsi, un solo istante in cui le sue pupille oscure mi
intrappolarono, con il mare che rispettava quel momento, arrestando la
sua furiosa avanzata.
La creatura
torse il busto e avvertii il mio corpo muoversi con lui, leggero,
fluttuante, capace di elevarsi sopra la spuma e la sabbia.
“Itachi.”
espirai.
Non seppi
perché lo avessi pronunciato, fu un’evocazione.
Con quel nome
che si elevò nell’aria, Itachi mi
lanciò via.
Uno slancio
potente, carico di una forza ancestrale che mi fece saettare
nell’aria, incapace di respirare o aprire gli occhi mentre
sentivo il mio corpo cadere, fendendo il cielo, anche le nuvole e le
stelle stesse, in alto, per sempre, fino al collasso profondo fatto di
vuoto capace di risucchiare le viscere.
Sconquassai la
terra, in un’esplosione di calcinacci, sabbia e resti oscuri
che schizzarono verso altra terra. I miei polmoni già
rarefatti si svuotarono con l’urto e sgranai gli occhi in
maniera tanto improvvisa da pensare che sarebbero saltati fuori, come
la vita e i denti che vibravano. Mi resi conto che ero io a tremare,
per la paura e lo shock, con i muscoli rigidi che tentai di muovere
mentre annaspavo in cerca d’aria, con la vista che tornava
lenta, al pari del calore dopo il gelo della neve.
Mi alzai in
piedi, appoggiandomi a un muro: lo sentii viscido, coperto di alghe
come se fosse stato immerso per anni e le acque si fossero appena
ritirate. Per qualche minuto credetti di essere sott’acqua a
mia volta, incapace di respirare o di avere controllo sul mio corpo, ma
quando cominciai a camminare realizzai di trovarmi su di una
superficie: opprimente, oscura, eppure era pur sempre la terraferma.
“Dove
sono…” mormorai. La mia voce era ridicola, un
suono debole, roco, che si perse tra le strade di quella che sembrava
una cittadina antica. Sollevai lentamente lo sguardo e rischiai di
perdermi ancora, scorgendo edifici dalle guglie aguzze che ricordavano
mani fatte di unghie demoniache capaci di squarciare il cielo,
costruiti nella roccia nera, opaca e contaminata da strati viscidi di
alghe altrettanto oscure. Le poche finestre presenti erano
più fenditure simili a quelle dei bastioni, attraverso le
quali ombre danzavano in attesa che calasse il buio; o forse ero solo
io a credere che ci fosse della vita in quel posto dove
l’unica cosa che avvertii era il mio stesso, rantolante,
respiro.
Per il resto
le strade strette inerpicate in salite ripide erano deserte,
caratterizzate da massi piatti incassati nel terreno, con gli edifici
immensi e oscuri che sembravano volerle inghiottire, cadendo su loro
stessi nell’ambiziosa risalita verso il cielo.
“Questa
è Nodens.”
Mi voltai e
vidi Itachi: il suo corpo gocciolava acqua, le labbra sottili e
violacee sembravano voler parlare ancora, eppure non provenne alcun
suono. I suoi coralli erano sfumature nere ma lucide, vibranti di vita
millenaria al pari dei suoi occhi e i capelli fluttuavano, simili a
radici in cerca di terra, capaci di sfiorare quelle pietre e rivestirle
di nuovo fulgore.
“Mi
hai scaraventato fino a qui.” abbassai gli occhi e con orrore
vidi delle bruciature all’altezza del petto, scavate nella
mia pelle. Schiuma biancastra del mare gorgogliava attraverso,
macchiando i vestiti.
Realizzai di
aver perso la pistola, mentre la camicia era strappata.
Risollevai la
testa e guardai la creatura di fronte a me. Mi toccai la tasca,
sentendo il vetro ancora all’interno; mi ritenni stupido per
aver aspettato tutto quel tempo.
“Riprenderò
il controllo!”
Esclamai e,
quando dissi quelle parole, quando estrassi il frammento di vetro
facendo volare il fazzoletto, mi accorsi di star piangendo.
Parallelamente, realizzai che Itachi era triste, così triste
da bucarmi il petto e farmi venire voglia di ingoiarmi il cuore.
Ma il mio
corpo continuò a muoversi e io non riuscii a fermarlo: la
mia razionalità mi diceva che quella creatura era un
pericolo, sarei morto, per cui doveva andarsene per sempre, anche se
era doloroso e non sapevo perché.
Ti
conosco, Itachi?
Sentii delle
parole scorrere nella mia testa fino a strabordare come acqua.
“Non
preoccuparti, me la caverò. Ma tu sei il prossimo,
è scritto nelle stelle e Idra ci ha parlato: se rimani qui
morirai, Shisui.”
Le aveva
già dette quelle parole, o me le stavo sognando, o la mia
mente… il tempo era confuso, giocava con i miei sentimenti e
i miei ricordi devastati.
La mia mano si
mosse in un gesto rapido, fulmineo, senza quasi ricevere un comando:
affondai la lama di vetro nel collo della creatura, recidendone la
pelle dalle scaglie lucenti fino a vedere sgorgare del sangue; melma
vischiosa, oscura, un fondale marino che si stava riversando al di
fuori della sua gola tranciata. Itachi continuava a guardarmi e
realizzai che non rantolava come mi sarei aspettato, avvertii dei
brividi per la potenza del gesto compiuto, travolto da quella massa
oscura che mi si addossò gelida.
In
quell’istante, la creatura mi afferrò il polso:
avvertii il gelo, la forza d’acciaio della sua presa capace
di stritolare le ossa. Cercai di oppormi ma questi mi piegò
il braccio, fino a costringermi a lasciare la presa dal vetro. Percepii
il bruciore del taglio sui miei palmi, vista la mia presa massiccia e
ostinata, ma provai un senso di panico e allo stesso tempo di vuoto
quando Itachi tenne nelle sue mani il frammento dello stesso bicchiere
che mi aveva portato.
Cercai di
aprire la bocca, di dire qualcosa, ma non feci in tempo: con ancora la
gola dilaniata, la creatura mi afferrò il capo, liberandomi
il polso, e in un gesto altrettanto rapido mi tagliò con il
vetro. Non la gola, né gli occhi, o qualsiasi zona esposta
della mia patetica persona.
Bensì
il punto più nascosto della mia testa: la pelle dietro le
orecchie.
Compì
due tagli veloci eppure precisi, affondando la lama talmente dentro che
sentii le mie vene e le mie arterie spingersi contro fino a venire
recise. Percepii il sangue schizzare, l’aria defluire anche
se non era stata toccata la trachea, il mio ossigeno venire consumato,
mangiato, inglobato da quelle ferite capaci di risucchiarmi anche il
pensiero.
Mi aggrappai a
Itachi e provai rabbia, disperazione, all’idea di essere io a
rantolare in quel momento, con il cuore che batteva feroce fin dentro
la testa, come per illudermi di poter vivere ancora.
La creatura mi
lasciò la testa, afferrandomi la gola sanguinante con una
mano, mentre l’altra era sul mio braccio. Avvertii i suoi
polpastrelli affondare in me, esattamente come lo sguardo abissale, nel
quale ancora cercavo di intravedere un uomo, quando invece scorgevo il
mio riflesso, tragico, sporco di sangue e di melma oscura che lenta
scivolava dalla ferita di Itachi.
Poi,
all’improvviso, senza lasciarmi scaraventò il mio
corpo contro una delle porte di legno scuro, simile a pregiato ebano,
incassata nelle pietre scintillanti nere al pari
dell’inchiostro. Non riuscii neanche a svuotarmi i polmoni:
non avevo aria da espellere con l’urto, anche se faceva male
e i tagli bruciavano, come cosparsi di fuoco e sale.
Avvertii un
rombo distante, il suolo sotto ai miei piedi tremò: scosse
brevi eppure in rapida successione, anche se nessuno degli edifici si
mosse, non perché massicci e imponenti, ma quasi come se
fossero essi stessi la terra.
Itachi
avvicinò le sue labbra alle mie orecchie, mentre io con le
mani tentai di scavare nel suo petto, terrorizzato, con la vista
sfocata e la paura folle, tremenda, di morire. Lì, in quel
posto, senza sapere nulla di me, o di quello che sarebbe stato del
mondo.
Poi, la sua
voce. L’eco del mare gettato nella conchiglia delle mie
orecchie.
“Sasuke
– rabbrividii, quasi fossi anch’io fatto di terra
– in realtà avevi ragione…
l’ho ucciso io. Per
te.”
Sgranai gli
occhi, spalancai la bocca in un rantolo fischiante di dolore e
incredulità. Annaspai.
No.
Non è possibile. Io…
La porta si
aprì e la terra tremò in un rombo che
ricordò l’urlo di un gigante in procinto di
risvegliarsi dall’abisso. Avvertii il mio peso e
l’inclinazione del corpo cambiare, all’improvviso,
fino a sentire la gravità spingermi con una mano invisibile
fin dentro la stanza oltre la porta, nel mezzo
dell’oscurità. Il pavimento, realizzai, si stava
inclinando e Itachi, ancora con le sue mani su di me, aveva cominciato
a scivolare al mio fianco.
“Ti
terrò io – mi disse all’improvviso
– l’aria presto non sarà più
un problema.”
Fu come
un’esplosione. Il pavimento si inclinò sempre di
più e con esso le mura, la porta che cigolò fino
a spalancarsi, i pochi mobili presenti all’interno
scivolarono assieme a noi, gli oggetti più piccoli
slittarono rapidi sul terreno fatto di mattonelle simili a riquadri
d’ombra.
Itachi non
aveva paura. La ferita si stava rimarginando e la sua mano aveva fatto
cadere lentamente il vetro che cadde nel vuoto, fino a schiantarsi
contro la parete dove si stavano accumulando i mobili ribaltati in
scricchiolii sinistri e poi schianti potenti, man mano che
l’inclinazione ci fece cadere a nostra volta.
Finii con la
schiena accanto alla finestra, la cui imposta era stata spalancata e
ora ondeggiava nel vuoto. Con gli occhi incapaci di battere ciglio e il
peso inconsistente di Itachi addosso a me, i suoi capelli che mi
solleticavano le guance gocciolando lentamente acqua, realizzai che da
quel punto potevo vedere la strada in verticale, gli altri edifici
sulla cui muratura erano finiti ciottoli un tempo presenti nel vicolo,
mentre il rombo della terra assordava le orecchie e la risacca del mare
riecheggiava in un ringhio feroce.
Una sedia si
schiantò contro la finestra, spezzandosi; vidi schegge
volare, ma ero talmente sconvolto da non riuscire nemmeno a chiudere
gli occhi. Il legno cadde oltre l’apertura, continuando a
precipitare, finché non lo sentii impattare contro la roccia
traslucida dell’edificio di fronte.
Avvertii un
senso di nausea allo stomaco, uno dei miei organi ribaltati per via del
cambio d’inclinazione esattamente come i mobili.
“Cosa…
sta… – cercai di dire, rantolando, con gli occhi
che bruciavano e l’odore del mare che mi stordiva –
succedendo…”
“Nodens
è la chiave, te lo avevo detto. R'lyeh aprirà le
sue porte per noi, ma agiremo appena loro ci
vorranno.”
Loro? Rilessi
nella mia mente le scritte sul muro della cantina, il sacrificio... R'lyeh. Allen aveva
ragione, credeva io sapessi cose… come? Come poteva
sospettare di me?
Voltai la
testa di scatto e udii il gorgogliare dell’acqua oltre la
finestra. Ogni cosa stava venendo inondata, lambita da onde feroci che
sembravano crescere di potenza, portando con sé Nodens fino
a farla scomparire.
In
quell’istante, la stanza si ribaltò ancora.
In un rombo
terribile, arrabbiato e sordo, venni bruscamente sbalzato sul soffitto
e Itachi sembrò quasi sospingermi. Evitai un’altra
sedia; in realtà fu Itachi a trascinarmi con sé,
facendomi rotolare sul fianco, mentre in cigolii e schianti secchi ogni
oggetto sopravvissuto si accatastava sul soffitto. Trattenni un conato
di vomito, avvertendo le viscere rimestarsi; in un getto di spuma
grigiastra, simile a pietre liquefatte, l’acqua aveva
cominciato a entrare dalla finestra ormai totalmente al contrario.
“Andiamo,
dobbiamo uscire da qui.”
Annunciò
Itachi. Mi resi conto di non respirare da tempo, tanto tempo. E di non
riuscire a oppormi quando la creatura mi alzò in piedi e
camminammo su quello che prima era il soffitto della stanza, mentre il
pavimento adesso era sopra le nostre teste.
I suoi capelli
cominciarono a fluttuare, resi vivi, meravigliosi, dalla potenza del
mare, la pelle richiamava i colori dell’oceano con le sue
scaglie vibranti di sfumature blu e gli occhi riflettevano
l’intensità delle onde, schiantate contro la
cornea fatta di spuma.
Il corpo si
sollevò nell’aria rarefatta e io con lui; capii
che voleva lanciarsi oltre la finestra, nel turbinio
dell’acqua che stava sgorgando inondandomi i piedi. Fino a
poche ore fa avrei pensato che sarei morto, schiacciato dalla pressione
e soffocato; ma ora… non avevo vie d’uscita e in
un certo senso pensavo che sarebbe stato meglio così,
piuttosto che rantolare ancora. Mi sembrava giusto.
Con un salto
ci fiondammo nel gorgoglio che eruttava dalla finestra e quando misi
una prima parte di me, del mio corpo, a contatto con quello specchio
turbinante, sentii che tutto sarebbe cambiato. Avrei smesso per sempre
di essere Shisui, di toccare ancora la terra o avere preoccupazioni
mortali, perché mi sarei ricongiunto con l’abisso
e l’accettai.
Venni
accarezzato, sballottato, schiaffeggiato dalla spuma fatta di bolle
frenetiche e dalle correnti, fino ad avvertire la presa di Itachi che,
ancora, mi trascinava via. La luce era cambiata: c’era buio e
fiotti azzurrognoli di una luminescenza oscura provenienti dagli
spiragli delle finestre, nient’altro che questo.
Lo realizzai
quando mi ritrovai a galleggiare nell’acqua, acqua del mare.
Attorno a me c’erano gli edifici, le feritoie e le pietre
lucide ma... l’intera città, l’isola con
la sua terra e gli scogli erano stati totalmente ribaltati. Le
guglie e i tetti aguzzi che fino a poco fa avevano cercato di sfondare
il cielo ora erano artigli immersi, le cui estremità
scomparivano nelle oscurità abissali.
L’isola
si era del tutto capovolta.
Provai un
fiotto di terrore all’idea di essere schiacciato da quella
massa di terra, circondato solo dal gelo oscuro del mare rischiarato da
spiragli azzurrognoli, intermittenti come il respiro stanco di una
creatura gigantesca.
Non potevo
più respirare. Le ferite bruciavano e la pressione mi stava
comprimendo, assieme alla paura. Stavo morendo e dovevo concludere i
miei giorni così, dimenticato, anche da me stesso.
Itachi mi
guardò: non sanguinava più, il taglio si era
rimarginato. Poi mi prese per il collo e io non riuscii a fare nulla
eccetto piantargli le mani sulle braccia, con disperato orgoglio. Forse
poteva uccidermi allora, mi avrebbe risparmiato un’agonia
finale.
Ma, in quel
momento di ultima lucidità, di disperazione e vuoto, Itachi
fece tutt’altro: mi baciò.
E io avvertii
il mare nel mio petto, ma anche tutta la vita che lo abitava, la sua
forza, il moto delle onde che sospingeva le barche e gli esseri viventi.
Lui prese qualcosa di me, ma
io entrai nella sua mente.
“Quando
diventiamo Abitatori del Profondo tramite il rituale, Itachi, ci
portano fino a Nodens e ci lasciano sull’Isola,
finché con la marea si ribalta per farci ricongiungere con
coloro che ci hanno preceduto. Sarò io ad aprire il
passaggio: Idra ci è apparsa in sogno, portando angoscia e
richiamo. Ma non la voglio ascoltare, non più.
I
nostri predecessori si connettono alle profondità abissali,
lo so. Però... si nutrono di ciò che siamo,
disprezzando quanto invece ospita gli umani, tenendoli al sicuro.
Posso
contaminarmi una volta trasformato, e portare con me, fino a R'lyeh, la
traccia della mia umanità.
Morirei.
Ma morirebbero anche loro.”
Guardai
Shisui, ascoltando i suoi discorsi pericolosi. L’avevo sempre
reputato una persona capace di farmi stare bene: per questo se ne
doveva andare, altrimenti sarebbe stato più difficile
realizzare quello che avevo in mente; il suo piano era altrettanto
folle, ma non potevo accettarlo.
Lo
pensai nel guardarlo seduto sulla banchina del porto avvolto dalla
nebbia, chiedendomi in che maniera trovasse la forza per sorridermi nel
voltarsi. Sentii una stretta al cuore, mentre le stelle nel cielo ci
comunicavano le variazioni astrali di ogni anno e Idra lo reclamava a
sé.
“Domani
scappa. Fallo.” Gli dissi serio. Quanti sorrisi ero riuscito
a dargli, io, in tutti quegli anni?
“Non
posso, Itachi. Tutto questo finirà – mi prese la
mano, facendomi sussultare – né tu, né
tuo fratello avete buona compatibilità, nemmeno proveranno a
iniziare il rito: ogni cosa sarà distrutta.”
Gli
osservai le dita, leggendovi lo sguardo:
“Ti
perderò, Shisui.”
Dovevo
avere un’espressione dura, forse distante, anche se dentro
sentivo il peso schiacciarmi. La tunica di canapa grezza che aveva
addosso solleticava la pelle: sarebbe svanita, assieme alla sua
umanità.
“Pensi
troppo, Itachi. Non essere arrabbiato con me – mi
mostrò un sacchetto e realizzai che c’era della
terra dentro – nella prossima vita... andrà
meglio.”
“La
contaminazione...”
Ma
cambiò improvvisamente argomento, impedendomi di continuare.
“Dai,
ricordi come faceva quel motivetto in stile charleston? Un giorno
dovrai ballarlo e conquistare qualche bella ragazza giù a
Boston.”
Batté
una mano sulla coscia per tenere il tempo e, dopo qualche istante, lo
seguii, mentre il mare immobile di Innsmouth rifletteva gli spiragli di
luna attraverso le nuvole.
Aprii gli
occhi.
Quello ero io,
a Innsmouth. Confuso, avvertii un calore irradiarsi dal mio petto
mentre Itachi galleggiava di fronte a me, le sue mani su di me.
Abbassai lo sguardo per vederle e realizzai che i miei vestiti erano
scomparsi, mentre la mia pelle... la mia pelle era vernice brillante
che si sgretolava tramite la pennellata dell’acqua, lasciando
dietro di sé scaglie,
scalini rifrangenti metallica luce cobalto, onde marittime che
disegnavano il mio torace e il ventre.
No.
Impossibile.
I miei arti...
le mani velate da un guanto trasparente che si intersecò
alle dita, rendendole palmate, le mie unghie erano andate perse per
sempre, nel cuore del mare. Sollevai lo sguardo e mi portai una mano
tra i capelli: più lunghi, consistenti, li sentii fluttuare
al mio contatto, alghe intrecciate alla mia testa e accarezzate dalla
corrente.
Respiravo il
mare e la sua vita millenaria. Dentro di me. Piansi, le mie lacrime
erano la salsedine racchiusa nel mio petto, resa salata dalla
realizzazione di chi fossi e di quanto avevo amato la vita, al punto da
lasciarla per chi amavo di più: Itachi.
Lo dissi nella
mia testa e lui mi rispose. Lo vidi così umano, con le sue
scaglie e le sue alghe, vestito di stupidi abiti per nascondersi,
quando era così bello da farmi piangere di più.
Perché non saremmo tornati ancora in superficie, su quel
porto con la luna e il charleston da ballare.
“Mi
dispiace – mi disse senza aprire bocca, lo sentii vibrare nel
mio encefalo – tu volevi sacrificarti un anno fa, ma io te
l’ho impedito.”
Luci azzurre
fluttuarono tra le feritoie, mentre io cercavo di ricostruire il
percorso della mia vita, le menzogne e le illusioni.
“Che
cosa hai fatto, Itachi? E io chi sono, adesso? Quelle memorie che mi
hai mostrato: sono reali?”
La mia testa
annaspava, come se dovessi ancora respirare per parlare: avevo paura,
però... volevo sapere e sentivo di non avere più
tempo, circondati da oscurità e la terra di Nodens che
incombeva su di me.
Itachi
allungò una mano e mi sfiorò la tempia. Sentendo
le sue dita, me la toccai a mia volta e realizzai che la cicatrice era
sparita.
“L’anno
scorso sarebbe toccato a te, eri predestinato, ma avevi il tuo piano
per farla finita. Io... non sono stato in grado di accettarlo: ti ho
quasi ucciso, costringendoti a dimenticare. Ti ho portato il
più lontano possibile, ma lui... deve averti trovato,
salvandoti, quando è venuto per mio fratello.”
Quante
immagini avevano preso a scorrere nella mia testa, ricordi, tanti,
così tanti. Mentre la mia identità veniva
plasmata e le ferite dietro le orecchie erano divenute branchie capaci
di farmi vivere.
Il fratello di
Itachi. Non avrebbero dovuto ucciderlo – ricordai le mie
parole dai ricordi trasmessi in un bacio – Sasuke non ha buona
compatibilità.
Senza
rendermene conto nella mia testa gli gridai:
“Io
ero pronto a morire per salvarti! Potevo riuscirci, potevo...
– le parole si accavallarono, ingarbugliate, non riuscivano a
star dietro alla mia mente iperattiva – lui.
Allen!”
Vidi il senso
di colpa, la tristezza, la nostalgia sul volto di Itachi. Quanto
dovevamo somigliarci e quanto mi sentii triste nel realizzarlo.
Le luci si
fecero più intense e mi ricordarono,
all’improvviso, le stelle nel cielo sopra una distesa lontana
dalla civiltà.
Ricordai di
averle guardate, un anno fa, e di essermi meravigliato per quanto
potessero essere intense lontane da Innsmouth. Non mi era venuto in
mente il nome, allora, ma ero certo di aver pensato al luogo della mia
nascita senza altro sentimento eccetto angoscia.
Non
so per quanto tempo avevo continuato a camminare. La macchina rubata
era entrata in panne e avevo temuto che toccandola ancora
l’avrei ulteriormente danneggiata. Avrei voluto non doverci
più avere a che fare.
Mi
sistemai meglio Shisui sulla schiena e ripresi ad avanzare, avvertendo
il sangue proveniente dalla sua tempia gocciolarmi sulle spalle in
ticchettii lenti. Ormai ero al limite delle forze, io non potevo
proseguire oltre: dovevo lasciare Shisui dove qualcuno avrebbe potuto
prendersene cura e rientrare, almeno per Sasuke.
Era
quasi l’alba.
Giunsi
presso un motel, dove pagai per una stanza in cui riposare qualche ora.
Stavo pensando di lasciare Shisui lì dopo avergli curato la
ferita, d’altronde gliel’avevo causata io per
imperdirgli di ricordare: siamo una razza fedele a Idra, manipolare la
mente è un processo invasivo ma fattibile.
Gli
ho lasciato l’occorrente per andarsene, finché nel
parcheggio non ho incontrato un uomo con un fedora in testa e
l’aspetto stanco, persino scavato. Quando mi vide mi
bloccò, fissandomi per poi dire:
“Tu
sei un Uchiha. Stamattina ne ho visti tanti come te. Siete uguali,
uguali e pazzi sanguinari.”
“Vattene
– ribattei, nascondendo la tensione – non so chi
sei, né di cosa stai parlando.”
“Seguo
le vicende di Innsmouth da una vita e non sono mai riuscito a fermarvi,
voi e i Marsh. Sono sicuro che tu sei un Uchiha, così come
sono sicuro che da anni uccidete la vostra stessa progenie, ma questa
è la prima volta che qualcuno chiama il Dipartimento
Omicidi, un vecchio ubriacone per giunta. Perché?
Cos’è andato storto nei loro piani?”
Il
respiro mi si bloccò. Cercai l’aiuto della mia
razionalità, perché non avevo Shisui cosciente in
grado di parlare con disinvoltura. Io non ero bravo con gli esseri
umani.
“Dipartimento
Omicidi?”
“È
da stanotte che sono in viaggio. Ritentro da Innsmouth. Tu ne sai
qualcosa, dell’assassinio di un ragazzino? Era uguale a
te.”
Non
mi mossi. Ma i miei organi, il mio cuore, si schiantarono al suolo,
liquefacendosi. Dovevo decidere in fretta.
“Dentro
la stanza c’è un uomo. Portalo via, rientra a
Boston. Tienilo lontano da Innsmouth o sarà la prossima
vittima.”
Si
tenne il fedora quando gli dissi quelle parole, come se non se le
aspettasse. Lanciò un’occhiata alle mie spalle e
replicò:
“Non
pensare di andartene. Ti prendo in custodia, tu sai troppe
cose.”
Indietreggiai,
lo vidi mettere mano alla pistola:
“Non
tornare più a Innsmouth. Togliti l’ossessione, o
morirai. Salva un essere umano, questo puoi farlo.”
Lo
vidi esitare. Pensai davvero di aver avuto fortuna quel giorno, presso
un motel lungo la statale.
Lui
ti porterà lontano, Shisui, avrai così nuove
memorie, senza essere contaminato dal ricordo di Innsmouth: non ti
troveranno. Per me, invece, non c’è speranza.
Camminerò, anche se cercheranno di riprendermi con loro,
percepisco la rabbia che li anima. Ho perso Sasuke, non mi rimane altro
che tentare.
“Mi
hanno trovato, alla fin fine.”
Mi
guardò nel dirlo e mi allontanai dal suo ricordo. Stavo
perdendo consapevolezza del mio corpo umano, non percepivo
più il freddo e la paura stava diventando un sentimento
distante.
“Allen
mi ha mentito. Tutti quei mesi.”
Era uno attaccato alla bottiglia.
Allora aveva parlato di Daves, come se lo conoscesse. E in effetti era
così: quel vecchio, un anno prima, aveva denunciato
l’omicidio di Sasuke.
“Daves
mi aveva detto di non fidarmi, perché sapeva chi fosse
Allen.” Conclusi.
“Daves
era un codardo figlio di puttana la cui mente è stata
piegata dagli Uchiha per asservire i loro scopi –
ribatté Itachi improvvisamente secco, al punto da farmi
provare ancora stupore – per colpa sua hanno richiamato
Allen, con il pretesto del mio omicidio. Gli Uchiha hanno visto la sua
ossessione e l’hanno sfruttata, sapendo tramite me che tu eri
con lui e non ti avrebbe lasciato andare. Io sono stato ingenuo e
disperato, errando a fidarmi di un poliziotto che ti ha usato con la
speranza che a Innsmouth ricordassi.
Ma nessuno ha
previsto una cosa: che io non ero morto davvero. Anche se tardi, la mia
trasformazione ha funzionato.”
Non ero mai
stato un detective, né avevo frequentato la Miskatonic. Allen si aspettava che io sapessi
leggere quelle righe del rituale. Soprattutto quando ha
capito che Sasuke era il fratello di Itachi.
Lo stesso
Itachi che, a distanza di un anno, aveva cambiato nuovamente le carte
in tavola.
“Ma
allora perché mi hai portato qui? Io cosa volevo fare,
sacrificandomi, come avrei potuto mettere fine a ogni cosa?”
All’improvviso,
la luce azzurrognola delle finestre divenne più intensa,
fino a far rilucere le nostre scaglie. Avevo paura di cos’ero
diventato: quel sentimento, in fondo, ritornava.
Sentii un
richiamo verso l’oscurità, nell’abisso
sotto di noi. Le luci sembrarono vive, forme animate unite per generare
fasci azzurri che iniziarono a tracciare un sentiero.
Ph'nglui
mglw'nafh Cthulhu R'lyeh wgah'nagl fhtagn.
Guardai Itachi
e mi ritrovai a pensare, intersecando alle mie parole nella testa le
sue, in perfetta armonia.
“Nella
sua dimora di R'lyeh, il morto Cthulhu attende sognando”
Ai nostri
piedi, c’era...
“L’accesso
a R'lyeh.”
All’improvviso,
dal nero delle profondità, degli occhi: due, quattro, dieci
e infine centinaia, centinaia di occhi azzurri e malati che ci
osservavano divorati dal buio, distanti chilometri di distanza eppure
vicini, addosso, senza pupille o ciglia, incapaci di chiudersi.
Delle voci
cominciarono a parlare, rese vibranti dall’eco
nell’acqua e riecheggianti nelle pietre lucide degli edifici
sopra le nostre teste che ci si addossavano, soffocando
l’accesso al cielo. Mi portai le mani alle orecchie, ma
sentivo comunque quei suoni, mentre Itachi immobile guardava.
Dopo
interminabili momenti d’agonia le voci sembrarono
sintonizzarsi su di un’unica frequenza e parlarono,
entità millenarie che trasmettevano ricordi folli.
È
per Idra che uccidiamo la nostra progenie, così che
abbandonino loro odiose spoglie mortali per diventare puri Abitatori
del Profondo.
I
Marsh sono immondi esseri corrotti. Tramite la nostra perfezione il
passaggio a R'lyeh sarà aperto e Cthulhu, Gran Sacrdote, si
sveglierà destando coloro che come lui sognano.
Noi
siamo voi. Raggiungeteci.
Gli occhi
cominciarono a riverberare di ulteriore luce: sembrò
allungarsi diventando consistente, tentacoli che fendettero il mare
oscuro per risalire e arrivare sino a noi.
Spostai lo
sguardo su Itachi:
“Io...
– le parole uscirono fuori controllo, la mia mente era nel
passato e nel futuro, io ero Shisui Underwood e Shisui Uchiha
– non volevo questo, quando eravamo umani entrambi.
Non dovevi
trasformarti, dovevi andare a Boston, ballare il charleston, trovarti
una famiglia, dei figli...”
Itachi mi
portò le mani sulle guance. Lentamente i suoi vestiti si
stavano digregando e fluttuavano attorno al suo corpo come i capelli.
Avvertii
qualcosa toccarmi i piedi, qualcosa di gelido, capace di bloccare
sangue e respiro: i tentacoli luminescenti, occhi che fendevano il
buio, si avvinghiarono attorno alle mie caviglie fino a cominciare a
risalire. Avevano preso anche Itachi e lentamente ci stavano portando
giù, tra scie di luce e macchie d’ombra.
“Shisui.
Io non potevo restare a guardare mentre ti sacrificavi per farmi vivere
una vita migliore. Non avrei mai voluto che tu tornassi, dopo
quello che ho fatto. Dovevi dimenticare e fuggire lontano –
le sue mani risalirono su di me, tra i miei capelli, e smisi di provare
paura mentre scendevamo nell’abisso – quando invece
mi sono trasformato e ho realizzato di essere ancora vivo, con te di
nuovo a Innsmouth dovevo... dovevo agire per fare qualcosa. Tu non
ricordavi nulla, Shisui, nemmeno me.
Se solo avessi
saputo, se solo non mi fossi fidato di Allen, forse non saremmo
arrivati a tutto questo.”
Gli presi le
mani.
Sopra le
nostre teste, la città di Nodens era scomparsa: attorno
c’era solo più buio totale e silenzio, eccetto i
mormorii delle entità millenarie che, come noi, erano
arrivate fino a lì, in attesa dell’energia e della
concessione di Idra per aprire il varco. I tentacoli erano arrivati
attorno al mio torce e stavano risalendo fino alla gola. Non avevano
consistenza, li avvertivo ma era come se non esistessero, schiarendo le
nostre scaglie e i nostri volti per vederci un’ultima volta
prima di venire avvolti dal buio.
Poi, lessi i
suoi occhi, uno spiraglio nell’oscurità.
“Abbiamo
ancora qualcosa di contaminato dall’umanità,
dentro di noi.”
Venne avvolto
dalla luce. Io lo guardai e nella mia bocca entrò quella
stessa luce, le scie luminose mi si incastrarono in gola, poi negli
occhi. Non lo lasciai, anche se persi consapevolezza del mio corpo e di
quello di Itachi, per vedere buio e luce assieme, gelo e calore,
pressione che schiacciava e sollevava.
Uscii
dalla camera del motel mentre Shisui dormiva. Strascicando
l’acqua e il peso del mio corpo inadatto alla lontananza dal
mare, andai fino al giardino sul retro e con un cucchiaio rimediato di
fortuna scavai. Scavai fino a tenere tra le mie dita palmate un pugno
di terra.
Socchiusi
un istante gli occhi.
Poi
entrai nella stanza dove contemplai Shisui dormire, inconsapevole. Mi
ricordai di quando l’avevo ammirato allo stesso modo un anno
fa.
Mi
sedetti al suo fianco e gli aprii la bocca, avvertendo il suo respiro
contro le mie mani. La memoria sarebbe ritornata dopo tutto quello a
cui aveva assistito e io non potevo più compromettergli la
mente cancellandola ancora. Ormai non potevamo più fuggire.
“Mi
dispiace. Un giorno rinasceremo e saremo più
felici.”
Gli
misi la terra in bocca e lui la divorò, inghiottendola
dentro di sé. Provò a rigettarla, ma glielo
impedii, sigillandogli le labbra con la mano mentre lo stringevo a me.
“Perdonami
e ricorda.” Mormorai.
Ma
almeno sarà davvero finita, avevi ragione tu.
Ci fu solo
oscurità e parole di una litania oscura che richiamava i
Grandi Antichi. Poi un istante di silenzio. Infine bruciore e, ancora,
urla: urla feroci, di rabbia e dolore, un dolore più
profondo perché dimenticato.
Le
entità stavano... morendo.
La terra.
Certo, certo,
che stupido, come avevo fatto a non capire?
La terra
dentro di me, l’ultima traccia di qualcosa che aveva ospitato
l’umanità ora contaminava l’intoccabile
abisso: nel trascinarci con loro, nel portarci fino ai cancelli di
R'lyeh, gli Abitatori del Profondo ci avevano assorbito.
Credetti di
sentire Itachi, la sua mano stretta attorno alla mia. Mi aveva baciato
e io l’ho corrotto: la splendida creatura che era, ridotta
come me a perire nel flusso di coscienze e di rancori, di sacrifici e
di vite spezzate.
Mi sentii
esplodere. Per un attimo fui luce e udii la musica di un locale: scorsi
Itachi accanto, delle donne e degli uomini ballare, mentre attorno la
serata a Boston si animava.
Nodens si
sgretolò, perdendo ogni contatto con la terraferma, e il suo
rumore per me fu il ticchettare delle scarpe durante i balli scatenati
sulle piste di legno, con cravatte allentate e pendenti che
ondeggiavano, fumo sulle teste che copriva il rombo della terra
sprofondante e vino che scorreva nei bicchieri, la spuma gorgheggiante
dell’abisso.
Il sorriso di
Itachi era la mia luce prima di scomparire e... fu come se stessimo
danzando, un’ultima volta.
Sproloqui
di una zucca
Ebbene, dopo settimane
di ritardo infine ce l'ho fatta. Ancora non ci credo, ma pure
quest'avventura è conclusa. Una storia strana,
sostanzialmente un racconto che nulla ha a che fare con una fanfiction,
ma tant'è, la challenge era per il fandom di Naruto XD
Grazie per aver letto
fino a qui, spero che questa storia vi abbia acchiappato.
Immagine: http://malignedaffairs.tumblr.com
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