Salve gente,
eccomi qui con il secondo
capitolo del mio mappazzone distopico. Ringrazio tantissimo tutti/e
coloro che mi hanno commentato, perché mi hanno dato grandi spunti
di riflessione, oltre a grande soddisfazione per essere riuscito io
stesso a fornire qualche spunto di riflessone ai lettori.
Grazie davvero a tutti, a chi mi
ha commentato ma anche a chi si è solo fermato per leggere o mi ha
messo in qualche lista.
Capitolo 2
In sala insegnanti c'era un
sottofondo di suoni della foresta tropicale e didgeridoo australiano.
Sul tavolino basso c'erano bicchieri da tisana dai quali si levava un
fumo aromatico.
“Questo
l'ho fatto io,” annunciò una donna di colore alta e magra, con una
pettinatura afro ormai ingrigita. “È succo di carote giamaicano.”
Un'altra, lineamenti misti
asiatici e caucasici, sovrappeso di diversi chili, con gli angoli
della bocca all'ingiù e un'espressione di disapprovazione stampata
in viso, in tono arcigno la rampognò: “Non si parla più di realtà
nazionali.”
“E
dai, siamo tra noi,” rispose l'altra. “Era una cosa che faceva
sempre mia madre quando ero piccola e all'epoca non c'era niente di
male a dire giamaicano o inglese o russo.”
“Beh,
adesso abbiamo superato i nazionalismi e gli sciovinismi, per tua
norma e regola, e queste parole equivalgono ad altrettanti insulti.”
Per tutta risposta, la donna si
limitò a spingere verso di lei una tazza. “Tieni, Naranna,” le
disse, “addolcisciti un po'.”
“Appena
una si addolcisce,
mia cara, il patriarcato fallocratico riprende il sopravvento. Non
aspettano altro che di trovarci dolci e arrendevoli, per ricominciare
a opprimerci.”
La prima si limitò ad alzare le
spalle. Soffiò sulla tazza per raffreddarne il contenuto e bevve un
sorso.
Poco
dopo entrò nella stanza una giovane docente con un fascio di fogli
sottobraccio. “Questi sono i compiti della sezione Fiore,”
annunciò. “Le classi Azalea, Garofano e Caprifoglio. Titolo del
tema: che cosa
farei per l'Umanità se fossi di un genere diverso dal mio.”
Fissò le colleghe con l'aria di chiedere la loro approvazione.
“Metti
da parte i compiti dei maschi,” si limitò a suggerirle Naranna,
“tanto quelli sono stupidi, non vale nemmeno la pena si guardarli.”
Fece una pausa in cui la sua smorfia arcigna si accentuò, quindi
soggiunse: “Non so nemmeno perché continuino a farli venire a
scuola, tanto non ci arrivano.”
“Noi
siamo per l'uguaglianza, no?” intervenne la donna di colore.
L'altra le rivolse un'occhiata
velenosa. “Dopo secoli di oppressione, Jamaree? Dopo secoli in cui
i maschi hanno schiacciato le donne, ucciso la loro anima e
violentato il loro corpo? Io dico che non meritano altro.” Si
rivolse alla nuova arrivata: “Dico bene, LaBrion?”
“Ecco...”
cominciò la ragazza, facendo guizzare lo sguardo alternativamente
dall'una all'altra. Stava per rispondere quando in corridoio passò
un addetto alle pulizie.
“Ehi!”
sbraitò Naranna, alzandosi addirittura dalla sedia, “Sono tutte
tue quelle chiappe, bel biondino?”
L'operaio ebbe un sussulto e
ritirò la testa fra le spalle. Continuò a camminare fissando
ostinatamente il pavimento.
“Che
c'è, sei timido?” lo provocò la donna. “Avanti, facci vedere un
po' di pettorali, forza!”
L'altro continuò a camminare
senza sollevare lo sguardo dalle piastrelle, Naranna si affacciò
alla porta e gli gridò dietro: “Fai il prezioso? Non lo sai che io
ti denuncio per molestie e ho anche ragione? Vieni qua e tirati giù
i pantaloni spontaneamente, è meglio per te!” Rise con fare
sguaiato.
“Lascialo
perdere,” disse alle sue spalle la donna di colore.
L'altra le rivolse un'occhiata di
fuoco. “Perché? Loro l'hanno fatto per secoli, adesso scoprono
cosa si prova.” Di nuovo fulminò la più giovane con lo sguardo.
“Non ho ragione?” ringhiò.
La ragazza si aggrappò al fascio
di compiti come se essi avessero avuto il potere di renderla
invisibile. “Devo scrivere i pareri costruttivi,” balbettò.
“Beh,
buon per te,” la rimbeccò Naranna. “Buon per te che esaurisci
tutto con i tuoi pareri costruttivi. Ma non lo sai che in ambito
scientifico c'è ancora qualcuno che si permette di affermare che ci
sono differenze biologiche fra maschi e femmine? Questa è
discriminazione,
cara mia, e tu pensi ai tuoi pareri costruttivi.”
Fece qualche passo nella stanza,
girandosi ogni tanto di qua e di là come un toro infuriato che non
sa bene dove dirigere le proprie cornate, quindi disse: “Lo so che
vi sembro una fanatica, ma io ho visto così tanto sessismo e
maschilismo che so riconoscerlo molto bene quando lo incontro. Lo
sapete dove lavoravo prima di venire qui?”
“No,
dove?” chiese LaBrion.
“Ero
all'Istituto per
l'Abolizione dei Contenuti Nocivi.
Correggevo gli eventi storici e i finali delle opere letterarie.”
LaBrion sbatté gli occhi
stupefatta e chiese: “Vuol dire che modificavi i libri?”
“Certo.”
“E
perché?”
Naranne ghignò. “Tu non hai
idea di quanti contenuti fallocratici, maschilisti, patriarcali e
discriminatori ci sono nei libri precedenti al Mondo dell'Amore.
Tutta roba tossica, che non può essere letta senza traumi. Non c'era
nessun controllo all'epoca: potevano essere pubblicati anche libri
con protagonisti maschi, che addirittura avevano un ruolo di maggiore
importanza rispetto alle figure femminili.”
“Davvero?”
“Certo.
E anche la Storia è basata solo sui maschi. La gente merita di
sapere quanto grande è stato il contributo delle donne nella
Storia.”
“Ma...”
LaBrion sbatté gli occhi di nuovo. “Ma ecco... così non si
rischia di modificare le vicende storiche?”
“Chiaro,”
fu l'immediata risposta. “Il valore formativo di un episodio è di
certo più importante della mera realtà dei fatti. E questo vale
anche anche le opere letterarie: è più importante che comunichino
le idee giuste o che traumatizzino con contenuti sbagliati?”
La più giovane accettò una
tazza fumante da Jamaree, ma subito dopo tornò a rivolgere la sua
attenzione a Naranne. “Quindi... Mandela era veramente una donna?”
“Lo
è diventata,” rispose l'altra con aria ispirata, “perché chi
combatte per la libertà senza timore dei potenti non può che essere
una donna.”
Stavano così discutendo quando
entrò nella stanza anche Mo'Nique con in mano il disegno di Leo. Si
sedette al tavolo e appoggiò il foglio incriminato, quindi si voltò
verso Jamaree e chiese: “È il tuo succo di carote gia...” Si
interruppe. “È il tuo succo di carote speziato?” si corresse
poi.
“Certo
cara. Ne vuoi un po'?”
“Sì,
grazie. Penso di averne proprio bisogno.”
La donna di colore sollevò
interessata le sopracciglia. “Come mai? Problemi con i bambini
della sezione Frutta?” Riempì a ogni buon conto una tazza e gliela
porse.
Mo'Nique prese il recipiente fra
le mani, ne annusò il contenuto socchiudendo gli occhi, quindi
rispose: “È per un bambino della classe Limone. Oggi ha fatto un
disegno che mi dà qualche preoccupazione.”
“È
quello sul tavolo?” chiese Jamaree.
Mo'Nique annuì.
“Cos'è
che ti preoccupa tanto?”
“Beh,
intanto il bambino ha voluto usare solo il bianco e l'azzurro.”
Alzò lo sguardo sulla più anziana aspettandosi di vederla annuire
gravemente, ma la donna si limitò a chiedere: “E con ciò?”
“Sono
colori... inadatti. Io credo che possano essere un segnale del fatto
che il piccolo sia esposto a contenuti negativi in famiglia.”
“Del
tipo?”
“Cose
razziste e sessiste.”
“Eh?”
“Il
bianco e l'azzurro. Il primo simboleggia la razza bianca e il secondo
il sesso maschile. E poi ha fatto discorsi strani su una nazione e ha
parlato di Adolf.”
“Di
Adolf?” intervenne Naranne in tono indignato, fissandola come se
avesse avuto intenzione di assalirla fisicamente.
“Non
so di chi stesse parlando.”
“Te
lo dico io di chi stava parlando: di Adolf ce n’è solo uno. Qui
bisogna chiamare con urgenza la psicologa, perché quei genitori
schifosi gli stanno facendo il lavaggio del cervello.”
Jamaree scosse la testa, facendo
ondeggiare il cespuglio di capelli crespi. “Ma figurarsi,” disse
poi con un sorriso indulgente. “Come ti vengono in mente queste
cose?”
“Ha
nominato… quello là,” ringhiò Naranne.
“Ha
disegnato cose sospette,” aggiunse la più giovane col tono di chi
ha la ferma intenzione di dare il proprio contributo alla risoluzione
di un serio problema.
La nera sorrise di nuovo. “Ma
no, non agitatevi, è solo un bambino che ritrae la sua famiglia.”
Mo’Nique ritirò
impercettibilmente la testa fra le spalle, tuttavia non demorse.
“Vedi la figura paterna così grande e quella materna invece
piccola? È segno che il padre è vissuto come tirannico.”
“Potrebbe
essere solo alto di statura, e la madre magari più bassa.”
Mentre
le due stavano così parlando, Naranne si avvicinò, seguita poco
dopo da LaBrion. La prima scrutò il disegno da sopra la spalla di
Mo’Nique, quindi in tono funesto proclamò: “La situazione è
molto
grave.”
“È
solo un bambino che ha disegnato la sua famiglia,” minimizzò
Jamaree, ma l’altra replicò: “Solo
un bambino che ha disegnato la sua famiglia, dici?” Fece girare
sulle colleghe uno sguardo di bragia, quindi proseguì: “Certo, ma
bisogna vedere come
l’ha disegnata.” Ghermì il foglio, lo tenne sollevato per
mostrarlo. “Qui abbiamo un padre tirannico, non vedete? Una figura
preponderante, che schiaccia le altre, ma alla quale il figlio sogna
in realtà di assomigliare, altrimenti non lo terrebbe per mano.”
“Tiene
per mano anche la madre,” le fece notare Jamaree.
“È
una catena di dipendenze affettive. Nell’atteggiamento succube
della donna, il bambino vede rinsaldata la propria posizione di
sottomissione alla schiacciante figura paterna.” Si interruppe, di
nuovo fece girare tutt’intorno uno sguardo feroce. “Qui ci sono
chiaramente una donna plagiata, che ha subito il lavaggio del
cervello, e un uomo razzista, intollerante e sessista, che rifugge il
pluralismo e si rifugia nei retaggi di una prevaricante tradizione
patriarcale per rinsaldare il proprio privilegio.”
Jamaree scosse la testa. “Ma di
cosa stai parlando?”
Naranne
di nuovo sollevò il disegno, quindi disse: “La situazione è
gravissima, direi. Propongo di chiamare immediatamente la psicologa
della scuola, affinché possa procedere a una valutazione del livello
di disagio presente in questa immagine.” Fissò alternativamente
LaBrion e Mo’Nique con sguardo spiritato e proclamò: “Quando
succederà qualcosa di terribile per colpa di questo padre tirannico
– perché io so
che succederà, ho visto troppi fallocrati violenti per sbagliare –
poi non venite a lamentarvi.”
Mo’Nique, responsabile della
classe Limone, deglutì a vuoto e le chiese: “Perché, cosa
potrebbe succedere?”
“Difficile
dirlo, con un uomo del genere. Potrebbe fare di tutto. Potremmo
trovarci a rimpiangere di non essere intervenute prima.”
La più giovane represse un
brivido. “Forse è meglio chiamare la psicologa finché siamo in
tempo,” disse. LaBrion si limitò ad annuire con espressione
fervida.
Melanie – piccoletta,
rotondetta, abitino a fiori – si aggiustò sul naso gli occhiali
dalla montatura rosa, quindi si rivolse a Mo’Nique e soavemente le
chiese: “E quindi, il bambino ha fatto questo disegno
spontaneamente?”
Scrutò il foglio, sul quale la
famiglia in bianco e azzurro pareva a tutte più inquietante che mai.
“Sì
è messo in un banco per conto suo e ha cominciato a disegnare.”
“Ah,
per conto suo,” ripeté la psicologa. “Questa è una notizia di
grande importanza. Il bambino ha chiaramente problemi nella
socializzazione: tende a isolarsi e a vivere gli eventi esterni
attraverso il registro dell’introversione. Sicuramente avrà un Io
coartato, inibito. È bravo a scuola?”
“Uno
dei più bravi.”
“Certo,
tipico di questa struttura di carattere,” confermò Melanie. “Cerca
di entrare in contatto con gli altri tramite le materie di studio,
dal momento che ha gravi problemi nel gestire i rapporti
interpersonali. Peraltro, il fatto che la sua scelta cromatica sia
stata così ristretta mi conferma un’affettività povera,
decisamente immatura.”
“E
il padre tirannico?” intervenne Naranna, che fin lì non si era
persa una parola.
“Non
è da sottovalutare,” confermò Melanie. Prese una penna con un
brillantino rosa in cima e con quella cominciò a indicare i vari
elementi del disegno. “Vedete questa figura paterna incombente? È
sinistra,
non trovate?”
Tranne Jamaree, che si limitò a
scuotere la testa e a versarsi un po’ di tisana, tutte convennero
che lo fosse.
“Vedete
com’è più alta delle altre? Sono sicura che in quella famiglia ci
sia una quantità di violenza da far accapponare la pelle.”
“Davvero?”
chiese LaBrion, fissando la figura paterna come se d’un tratto
avesse potuto balzare fuori dal disegno e saltarle addosso.
“Certo,
vedete che il bambino è vestito quasi allo stesso modo? Si chiama
identificazione
con l’aggressore:
la vittima esorcizza il proprio terrore vivendosi simile, e quindi
ugualmente potente, rispetto al proprio aguzzino.” Emise un
sospiro, quindi proseguì: “Credo che avrò gli incubi stanotte,
per la quantità di violenza subliminale che contiene. Comunica una
ferocia primordiale, che mi ha sconvolta nel profondo. Quei colori
sono glaciali, esprimono un'affettività coartata, sotto la quale può
esserci qualsiasi cosa. Lo confesso: mi fa venire i brividi.”
“L’avevo
detto, io,” brontolò Naranna. Rivolse al disegno un’occhiata
velenosa e soggiunse: “Guardatelo lì, quel porco abusatore e
violento. Pensava di farla franca, eh? Ma ha sottovalutato il potere
della psicologia e la grande forza delle donne.”
A quel proclama seguì qualche
secondo di silenzio, durante il quale la psicologa osservò di nuovo
attentamente il disegno.
“Tisana
per tutte?” propose Jamaree. “Ci beviamo sopra e a mente fredda
decidiamo il da farsi.”
Melanie la fissò quasi con
degnazione, quindi rispose: “Io capisco che la forte angoscia che
questa situazione ti comunica possa spingerti a un atteggiamento di
negazione, tuttavia sei un’insegnante esperta, non puoi
sottovalutare il pericolo insito nell’immagine che stiamo
analizzando.”
Le assistenti sociali arrivarono
il giorno dopo. Erano in due, come accadeva solo nei casi più seri:
una nera che sembrava una burrosa bambola, con lunghi boccoli che le
ricadevano sulle spalle e occhi pesantemente truccati, e una bianca
ossuta, con pantaloni cargo mimetici, una maglietta, capelli a
spazzola color carota e piercing a entrambe le arcate sopraccigliari.
La seconda aveva sottobraccio un corposo fascicolo.
“Dove
possiamo sederci?” esordì la nera, che invece teneva in mano solo
una lucida borsetta di ecopelle fucsia.
Si accomodarono intorno al tavolo
della sala insegnanti. La bianca distribuì a tutte robuste strette
di mano, presentandosi come Sam, l'altra fece sapere che si chiamava
Marvellous.
Le maestre si presentarono a loro
volta, ci fu un nuovo giro di strette di mano e successivamente una
distribuzione di tazze fumanti da parte di Jamaree.
Quando ebbero bevuto la tisana di
tiglio e zenzero, Sam annunciò: “Abbiamo portato i fascicoli
socio-sanitari del nucleo in oggetto.” Posò sul tavolo, dopo aver
spostato con gesto deciso la tazza, un corposo faldone di colore
bigio, chiuso da due fettucce annodate. Fece poi girare lo sguardo
sulle astanti, fermandolo infine sulla collega Marvellous, che
graziosamente annuì con un battito delle lunghe ciglia.
Sam slacciò allora le due
fettucce, aprì il faldone e cominciò ad allineare sul tavolo
documenti su documenti: certificati di nascita, atto di matrimonio,
esiti di esami clinici, titoli di studio e contratti di lavoro.
C'erano persino le buste paga e il rogito dell'appartamento nel quale
la famiglia viveva.
Alla fine alzò gli occhi e in
tono di oscura minaccia proclamò: “Ci sono cose, qui dentro, che
non mi piacciono per niente.”
“Lo
sapevo,” esclamò Naranna soddisfatta. “Per quello vi ho chiamate
con questa urgenza.”
Tutte si chinarono sui documenti
sparsi. Chi era troppo lontana si alzò e si appoggiò al bordo del
tavolo per osservare meglio.
Jamaree inforcò un paio di
occhiali, raccolse una fotografia di una giovane donna dai capelli
biondi e lisci e chiese: “Che cosa ci sarebbe di così brutto?”
“Piccoli
elementi,” spiegò Sam con l'aria di chi se ne intende. “Cose da
nulla, prese singolarmente.”
“Sono
come le tessere di un mosaico,” intervenne Marvellous. “Da sole
forse non vogliono dire nulla, ma tutte insieme compongono un disegno
che è davvero spaventoso.”
Sfilò dalla mano di Jamaree la
foto della giovane donna, trasse dalla distesa di documenti la foto
di un uomo e tenendo le due immagini una accanto all'altra le fece
lentamente girare in modo che tutte potessero vederle. “Non notate
niente?” chiese poi.
Maestre e psicologa si
scambiarono occhiate dubbiose.
Infine, fu Naranne a ringhiare:
“Sciovinisti.”
Sam annuì. “Biondi con gli
occhi azzurri tutti e due,” proclamò. La frase suonò come una
condanna.
“Io
mi sento offesa,” sospirò Marvellous in tono sconsolato, “è
come se questa coppia avesse appena manifestato disprezzo nei miei
confronti e nei confronti di tutte le persone con la pelle nera.”
Si rivolse a Jamaree: “E tu non ti senti offesa?”
La donna scosse la testa.
“Veramente no.”
A quel punto, Sam riprese: “Per
quanto molto grave, questo non è il solo elemento disfunzionale di
questo nucleo.” Raccolse alcune carte, le scorse come per preparasi
una linea di intervento, quindi proseguì: “Regolarmente sposati,
nessuna relazione precedente, niente famiglie allargate, altri
partner o altro. Un solo figlio.”
“Quello
di cui stiamo parlando?” intervenne LaBrion.
Sam si limitò ad annuire.
“Bambini
adottati?”
“Nessuno.”
Di
nuovo intervenne Naranne: “Parliamo del maschio.” La frase suonò
come 'Parliamo
della merda.'
L'assistente sociale scorse di
nuovo le sue carte, poi elencò: “Massimo titolo di studio
consentito a un maschio, conseguito a pieni voti. Non sono segnalati
problemi sul lavoro, né si rilevano segnalazioni dalla tessera per
la Salute Armoniosa. I referti medici sono quelli di una persona
sana, svolge attività fisica regolare. Non è noto alla Giustizia.”
“La
donna?” chiese Naranne.
“Laureata
in ingegneria gestionale, nemmeno su di lei ci sono segnalazioni.”
“Altre
figure di riferimento?”
“Si
sono trasferiti qui da un'altra città.”
“E
quel nome?”
L'assistente sociale la guardò
dapprima con l'aria di non capire, quindi sollevò le sopracciglia e
disse: “Certo, quel nome. Pare sia quello del bisnonno del
bambino.”
“E
loro lo pronunciano così, come se niente fosse?”
Un mormorio di disapprovazione
attraversò la stanza.
Nella generale costernazione, la
psicologa disse: “Sebbene la psicanalisi sia il prodotto di una
mente maschile frustrata, non tutta è da buttare. In ambito
psicanalitico è ben noto che vengono ripetute solo le cose
inconsciamente approvate.”
“È
un branco di nazisti!” boccheggiò LaBrion, con l'espressione con
cui avrebbe annunciato che sotto il tavolo c'era una bomba pronta a
esplodere. Detto questo deglutì, inspirò profondamente, poi in tono
contrito soggiunse: “Chiedo scusa a tutte per aver pronunciato
quella parola. Spero che non vi siate sentite troppo turbate.”
“Alle
volte il nostro dovere ci obbliga a sopportare, per il bene delle
categorie fragili,” replicò Naranne, poi si voltò verso Melanie
come per invitarla a proseguire nella sua disamina.
La psicologa annuì e cominciò:
“Come tutte avrete già notato, qui ci troviamo davanti un nucleo
familiare profondamente disfunzionale, gerarchizzato sulla figura
maschile dominante e attestato su modalità di funzionamento
arcaiche, chiuso, incapace di stabilire relazioni sane con l'esterno,
oserei dire addirittura coartato in un rispetto ossessivo delle
regole sociali che in realtà nasconde una profonda e radicata base
di oppositività e rifiuto.”
Sam annuì come se quelle parole
confermassero in pieno la teoria che anche lei aveva elaborato.
“Fanno i bravi, così noi non ci accorgiamo di quanto in realtà
siano marci.”
“Precisamente,”
confermò Melanie.
“Pare
che ci sia anche una faccenda di sciovinismo,” buttò lì Naranne.
“Oh,
sì,” intervenne volenterosa Mo'Nique. “Il bambino ha parlato di
una nazione. La Beviera,
se non sbaglio.”
“Baviera,”
la corresse Jamaree. “E non è una nazione, è una regione della
Germania.”
A
quelle parole, Naranne intervenne con durezza: “Lo era,
vorrai dire. Ora abbiamo superato i nazionalismi di stampo
fascistoide. Grazie al Femminile, che ha spazzato via le
prevaricazioni di stampo patriarcale, siamo un'unica Terra felice e
unita nell'amore.” Si interruppe, di nuovo atteggiò il viso a
un'espressione di disgusto, quindi aggiunse: “E chi non lo capisce,
chi insiste ad attestarsi su posizioni violente e reazionarie, deve
fare la fine che merita.” Fece girare lo sguardo tutt'intorno, come
sfidando le altre a contraddirla, e nel silenzio generale brontolò:
“Andrebbero ammazzati, per il bene di tutti.”
§
Rick aggrottò le sopracciglia e
fissò poco convinto il Consultorio Familiare. L'edificio, una
vecchia costruzione neoclassica, era stato ridipinto in modo che gli
elementi architettonici fossero ognuno di un colore diverso. Le
statue che rappresentavano figure maschili erano state rimosse e al
loro posto c'erano pannelli con slogan che inneggiavano al Femminile.
Uno
di essi recitava: “Anche
di fronte a una sola donna, l'uomo è comunque in inferiorità
numerica.”
“E
grazie al cazzo,” brontolò.
Al suo fianco, una giovane donna
dai lunghi capelli biondi chiese: “Hai detto qualcosa?”
Rick si piegò per guardarla in
faccia. “No, niente,” rispose.
Un
altro aforisma recitava: “Le
donne sono frivole perché sono intelligenti a oltranza.”
L'uomo
emise un sospiro e chiese: “Cosa dice la lettera, Schatzi?”
“Non
usare quel nome fuori di casa, Rick.”
“Perché?”
“Ne
abbiamo già parlato: potrebbe essere frainteso.”
“Che
rottura,” sospirò l’uomo. “Comunque, cosa dice la lettera?”
L'altra alzò le spalle. “Niente
di che, all'apparenza. Ci chiedono di presentarci per un colloquio.”
Rick rallentò il passo come se
stesse ponderando l'eventualità di girare le spalle e andarsene. “Un
colloquio con chi?”
Paula
gli mise una mano sull'avambraccio e in tono gentile gli sussurrò:
“Rilassati, so che stanno chiamando le famiglie per chiedere le
preferenze sul soggiorno di Consapevolezza
Multietnica
dei bambini, sicuramente sarà per quello.”
“Hm,”
grugnì Rick, ancora poco convinto.
“Che
c'è?”
“Non
lo so. Anche i ragazzi hanno figli, ma a nessuno è arrivata questa
lettera.”
“Tesoro,
lo sai che le mandano alle donne,” disse lei, quasi in tono di
scusa.
“Volevo
dire che nessuno ne ha parlato, né al lavoro né da Lonnie.”
Tacque per qualche secondo, poi in tono cupo ripeté: “Non lo so.”
Sulla
tenda che chiudeva l'entrata dell'edificio c'era scritto: “Le
donne sono come uragani. Diventano indomabili, quasi irraggiungibili.
Non si fermano davanti a nulla. Sono discrete e amano quasi in
segreto. Hanno sguardi sicuri e il cuore pieno di lividi. Sorridono e
ingoiano le lacrime. Loro, sono le donne che fanno la grande
differenza.”
“Mi
pare un mucchio di stronzate,” commentò torvo Richard.
“Anche
a me,” rispose Paula, “ma ora sta' zitto, da bravo. Lo sai che
parlare così è proibito.”
“Alla
faccia della libertà di pensiero e della tolleranza, eh?”
“Dai,
Rick, ora facciamo questo colloquio e poi ce ne torniamo a casa in
pace, d'accordo?”
“Hm.”
“Rick?”
Paula alzò la testa per fissare il marito negli occhi.
“Va
bene,” capitolò l'uomo. “Però se vogliono mandare Leo in mezzo
ai...”
“Rick,
cos'abbiamo appena detto?”
I
due entrarono nell'androne, che aveva le pareti decorate con murales
che rappresentavano madri che si dedicavano ai figli sullo sfondo di
prati fioriti e cieli azzurri, oppure donne intente a svolgere vari
lavori, tutte con espressioni sorridenti e sguardi fiduciosi rivolti
al futuro.
I
dipinti erano ricchi di colori chiari e brillanti. Le uniche tonalità
scure erano riservate agli angoli inferiori, nei quali uomini dai
lineamenti scimmieschi, sporchi, con la testa piccola e il corpo
sproporzionatamente gonfio di muscoli, combattevano fra loro,
brandivano armi tenendole all'altezza dell'inguine come grotteschi
falli o tiranneggiavano meste figure femminili che indossavano abiti
d'altri tempi.
In
un angolo della sala c'era un tavolino al quale sedeva una ragazza
dal volto olivastro e dai lunghi capelli neri, in quel momento
intenta a ripassarsi i tatuaggi all'henné ormai sbiaditi con una
matita da maquillage.
Paula
le porse la lettera di convocazione, lei vi diede una scorsa e disse:
“Certo, vi aspettano. Secondo piano, stanza Tormalina.”
“Ma
non è la stanza Pietra di Luna quella per la Consapevolezza
Multietnica?”
“Non
dovete andare alla Consapevolezza,” fu la soave risposta. “Vi
aspettano al gruppo di lavoro sui nuclei disfunzionali.”
Paula
ebbe l'istinto di fare un passo indietro. In tono diffidente chiese:
“Nuclei disfunzionali?”
“È
un controllo di routine,” le assicurò la ragazza distogliendo lo
sguardo e riprendendo la sua matita. “Un paio di colloqui e potrete
tornare a casa.”
Attraverso
uno specchio unidirezionale, Melanie e la sua collega Koko, un
trasgender che pur trovandosi nella sua fase femminile passava il
metro e novanta e aveva spalle da portuale, osservavano la coppia
seduta in sala d’attesa.
“Cosa
ne pensi?” chiese la prima a bassa voce.
Koko
si piegò per guardare attraverso la lastra di vetro, poi disse: “Hai
fatto bene a chiamarmi, tesoro. Anche se come tutti gli uomini sa
benissimo quello che rischia ad assalire fisicamente una donna,
rimane comunque stupido e impulsivo, incapace di prevedere le
conseguenze delle sue azioni.” Annuì come per confermare quanto
aveva appena detto, quindi premurosamente le assicurò: “Resto con
te quando fai il colloquio, gioia. Voglio proprio vedere dove andrà
a finire quella fisicità che ostenta con tanta tracotanza, quando si
troverà davanti una donna che se vuole è in grado di sbatterlo giù
dalla finestra.”
“Grazie,
Koko,” pigolò l’altra, che a stento le arrivava alla spalla e in
confronto alla sua struttura poderosa sembrava un chihuahua di fronte
a un bullmastiff. “Però prima chiamiamo lei. Voglio studiare il
livello di tolleranza allo stress dell’uomo.”
Koko
la scrutò dubbiosa, con le mani sui fianchi e la testa piegata da
una parte. “Cara, sei pronta?” volle sapere.
Melanie
sorrise. “Ma certo. Sta’ tranquilla, ho già fatto decine di
colloqui di questo genere.”
“Se
hai bisogno chiamami. Ricordati che è succube di quello là,
plagiata e incapace di avere una volontà propria. Potrebbe diventare
pericolosa, se intuisce che vuoi interrogarla su di lui.”
Melanie
si affacciò alla porta con il più radioso dei suoi sorrisi. “Paula,
non è vero? Sono felice di incontrarti, cara.”
Costringendosi
a ignorare lo sguardo duro che le stava rivolgendo l’uomo, le porse
la mano e quando Paula l’ebbe stretta vi aggiunse anche l’altra,
in una presa delicata che assumeva le connotazioni dell’affetto e
della protezione. “Vieni cara,” la invitò.
La
donna la seguì con andatura un po’ rigida, voltandosi di tanto in
tanto verso il marito. Melanie notò che stava cercando di guardare
al di là della porta socchiusa dello studio. “Saranno solo due
chiacchiere,” la rassicurò in tono amichevole. “Qualche piccolo
discorso fra donne.”
“A
che proposito?” chiese Paula.
“Un
aiuto,” le spiegò Melanie. “Tutte noi possiamo avere bisogno
d’aiuto nel corso della nostra vita, no? E allora è bello poter
contare su un’amica pronta a tenderci una mano, non è vero?”
“Che
cosa significa?” chiese la donna. “Io non ho bisogno d’aiuto.”
Poi, dopo una pausa: “Guarda che lo so benissimo che questo è il
gruppo di studio sui nuclei disfunzionali.”
Melanie
accentuò il sorriso. “Ma certo che lo sai, cara. Noi non lo
scriviamo da nessuna parte, perché qualcuna potrebbe leggere quella
parola così pesante e rimanerne traumatizzata, ma suppongo che
Jamila giù all’ingresso te l’abbia detto, non è così? Ora
vogliamo entrare?”
Quando
furono sedute su due graziose poltroncine in una specie di salotto,
in tono premuroso Melanie esordì: “Qui puoi parlare
tranquillamente, cara.”
Paula
aggrottò le sopracciglia. “In che senso?”
“Lui
non ci può sentire.”
“E
quindi?”
La
psicologa si costrinse a mantenere immutata l’espressione, anche se
quello di Paula si stava rivelando un caso da manuale: plagiata dal
marito tirannico, la povera donna fingeva che tra lei e il coniuge
fosse tutto perfetto. “Puoi parlare in
tutta libertà,” le
spiegò, calcando sulle ultime parole.
“Davvero?”
“Ma
certamente. Apriti senza timore.”
“Beh,
allora vorrei proprio sapere qual è il motivo per cui avete
convocato me e Richard.”
Calò
un silenzio costernato. Di fronte all’atteggiamento pragmatico
della donna – era un’ingegnere, avrebbe dovuto tenerne conto –
Melanie decise di cambiare tattica. In tono più asciutto le chiese:
“Dimmi, Paula, va tutto bene tra te e Richard?”
L’altra
aggottò le sopracciglia. “Che significa?” chiese diffidente.
“Se
vi amate, se state bene insieme.”
“Certo
che stiamo bene, altrimenti non staremmo insieme, no?”
“Avete
rapporti sessuali?”
Paula
avvampò. “Non vedo in che modo la cosa ti riguardi,” protestò
offesa.
“Rispondi
alle mie domande, per favore. Se ti ostini ad avere questo
atteggiamento oppositivo sarà tutto molto più sgradevole. Allora,
avete rapporti?”
“Come
ogni coppia.”
“Eviti
le risposte dirette, vero? Con che frequenza avete rapporti?”
“Guarda
che mi alzo e me ne vado!”
Melanie
la fissò da dietro la sua montatura rosa e lentamente rispose: “Non
te lo consiglio proprio. Vuoi che sulle tue note venga scritto che
hai un atteggiamento oppositivo e provocatorio? Non fa bella
impressione, sai?”
Paula,
che si era già alzata per metà dalla sedia, si irrigidì per
qualche secondo, poi a malincuore riprese il suo posto.
“Molto
ragionevole,” approvò la psicologa. “Allora: la frequenza dei
rapporti?”
“Dipende,
certi periodi quasi ogni sera, certi altri ogni due o tre giorni.”
“È
lui che ti cerca?”
“A
volte lui e a volte io.”
“In
che posizione lo fate?”
“Melanie,
io non vedo come...”
“Gli
piace stare sopra?” Al silenzio della donna, la psicologa aggiunse:
“Gli piace farti sentire la sua forza? Schiacciarti con la sua
mole?”
“Lo
facciamo in varie posizioni, va bene?”
“Ma
certo, non ti scaldare,” rispose Melanie conciliante. “E con il
bambino come si comporta?”
“È
bravo, gli insegna le cose, lo fa giocare. È una figura paterna
molto presente.”
“Tu
controlli che gli insegni le cose giuste? Che non gli faccia fare
giochi di competizione o aggressivi? Sai, essendo un maschio...”
“Naturalmente,”
rispose la donna, in un tono che a Melanie parve un po’ troppo
precipitoso.
Boccoli
azzurri e giacca del tailleur che si tendeva sui bicipiti, Koko si
avvicinò all’uomo in sala d’aspetto e gli chiese: “Sei
Richard, per caso?”
“Chi
dovrei essere? Mi avete chiamato voi.”
“Siamo
un po’ arrabbiati, per caso?”
“Io
di sicuro. Dov’è mia moglie Paula?”
“Lei
sta bene,” rispose la psicologa, registrando l’atteggiamento di
controllo sulla compagna che il soggetto dimostrava, “ha finito il
colloquio e non è più qui. Ora vuoi accomodarti tu, per favore?”
Richard
si alzò, arrivando faccia a faccia con l’imponente interlocutrice.
“Sono pronto,” annunciò.
Entrarono
nello studio, si sedettero ai due lati di una scrivania. Koko
accavallò le gambe e arrotolandosi una ciocca turchina intorno
all’indice, chiese: “Tu rispetti tua moglie, Rick?”
L’altro
aggrottò le sopracciglia. “E questa che domanda sarebbe?”
“La
credi in grado di badare a se stessa o pensi che sia una bambina
incapace che ha bisogno della tua guida?”
La
domanda gli suscitò solo uno stupefatto: “Eh?”
“Dimmi
la tua opinione, caro. Puoi parlare liberamente.” Gli strizzò
l’occhio.
Richard
lasciò passare qualche secondo, quindi rispose: “Io qui non ho
nulla da dire liberamente.
Forse è meglio che sia tu a farmi le domande.”
“La
domanda te l’ho fatta prima, Rick: tu rispetti tua moglie?”
“Si
capisce che la rispetto,” replicò l’uomo piccato. “È mia
moglie.”
“È
una cosa tua, quindi?”
“Non
ho detto questo.”
“A
me pare che tu abbia usato un bel pronome possessivo. Mia
moglie.”
“Che
cosa avrei dovuto dire, secondo te?”
Koko
lo fissò in silenzio per qualche secondo, con l’aria di trovarsi
esattamente nella situazione che si era aspettata, poi disse: “A me
vengono in mente tante espressioni che non indicano necessariamente
possesso: la persona
con cui divido la vita,
ad esempio. Io la trovo molto poetica, e tu?”
“Io
la trovo lunga. Dove sei stato ieri, Rick? Oh, niente di importante.
Io e la persona con cui divido la vita siamo andati a farci un giro
in campagna.” Fece una pausa, poi lentamente sillabò: “Per me è
una stronzata.”
“Per
me invece è rispettosa,” replicò Koko sullo stesso tono, “non
tira in ballo categorie e non colloca l’altro in caselle rigide
attribuendogli forzatamente un ruolo nel quale potrebbe non
riconoscersi a pieno.”
Calò
un silenzio nel quale si sentì distintamente il rumore di una foglia
che cadeva dalla pianta che c’era sul davanzale. “Ripeto che per
me è una stronzata,” disse Richard.
I
due si fissarono poi negli occhi per qualche secondo, infine Koko
distolse lo sguardo e in tono ammonitore disse: “Sta’ attento,
uomo delle caverne, perché io non sono quella che consideri la tua
femmina. È meglio che cambi tono, con me.”
“Altrimenti?”
In
quel momento si aprì una porta e Melanie, occhiali dalla montatura
rosa e abitino a fiori, fece il suo ingresso. “Abbiamo sentito
abbastanza,” annunciò in tono neutro. “Puoi andare, Richard.
Grazie per il tuo aiuto.”
“Dov’è
Paula?”
“Paula
sa badare a se stessa,” fu la secca risposta.
§
Melanie
spense il monitor interrompendo il filmato dei colloqui. Rivolse alle
due assistenti sociali uno sguardo cupo e proclamò: “Sono immagini
che non hanno bisogno di commenti.”
“La
situazione è grave,” confermò Sam. “Dobbiamo intervenire
subito, per il bene di quella donna e di suo figlio.”
Intervenne
a quel punto Koko: “Abbiamo a che fare con una figura maschile
fragile, che utilizza l’aggressività come modalità di
comunicazione primaria. Si tratta di un uomo dall’affettività
coartata, polarizzato su una possessività arcaica.” Fece una
pausa, quindi soggiunse: “È un uomo che deve essere aiutato a
raggiungere una piena consapevolezza di sé, ha bisogno di
apprendere, di liberarsi dei preconcetti del patriarcato. Deve
raggiungere un rapporto sano con la figura femminile, che attualmente
vive come minacciosa e sfuggente.”
“E
la donna?” intervenne Marvellous.
Si
fece avanti Melanie, che assunse un’aria di compunzione e rispose:
“Anche lei ha molto
bisogno d’aiuto. È una figura fragile, succube della figura
maschile, bisognosa di qualcuno che le faccia raggiungere una piena
consapevolezza di sé. Ha un Io coartato, modellato su quello
tirannico del marito. Teme di prendere decisioni in autonomia e ha
completamente delegato la gestione del figlio al marito.”
“Quindi
lascia che quello rovini il bambino?” intervenne Sam indignata.
“Permette a quello sporco maschio di creare un altro oppressore di
donne a sua immagine e somiglianza?”
Melanie
scosse la testa. “Non può fare altro, Sam,” rispose sconsolata.
“Non ci riesce. Non sarà mai in grado di opporsi, se noi non la
sosterremo.”
Marvellous
annuì con vigore. “La aiuteremo noi. Le consentiremo di
riappropriarsi del suo ruolo nel mondo, di non essere mai più
succube di fronte alla figura maschile.”
Tutte
si scambiarono sguardi decisi, pronte a svolgere al meglio il grande
compito. Infine Sam chiese: “Qualcuno ha valutato il bambino?
Quella faccenda delle nazioni mi piace davvero poco. Non vorrei che
quel bastardo stesse allevando un piccolo sciovinista.”
“Non
chiamarlo bastardo,” sospirò Melanie. “È solo un uomo fragile.
Ogni suo gesto è uno straziante grido d’aiuto, non te ne accorgi?
Dobbiamo accompagnarlo nel percorso della consapevolezza.”
§
Rick
entrò nel locale facendo sbattere la porta così forte che i vetri
tintinnarono negli infissi. Si appoggiò al bancone e disse: “Dammene
uno doppio, Lonnie.”
Il
barista lo sogguardò incerto, ma di fronte al suo cipiglio non ebbe
il coraggio di chiedergli la tessera. Gli mise davanti un tumbler
basso e cominciò a versarvi il bourbon. “Giornataccia?”
s’informò cauto.
“Di
merda.”
Prese
il bicchiere e lo vuotò d’un fiato. “Un altro,” disse
sbattendolo sul bancone.
“Rick...”
“Un
altro, cazzo!” ringhiò l’uomo senza sollevare lo sguardo.
Mentre
il barista lo fissava indeciso sul da farsi, da uno dei tavolini in
fondo alla sala si alzò l’uomo corpulento con la barba e il
capello da baseball. Rimise a posto la sedia, poi a passi lenti e
ponderati raggiunse il bancone e si sistemò accanto a Richard.
Questi non lo degnò di un’occhiata.
L’uomo
allora si rivolse al barista: “Fanne uno anche per me, Lonnie, e
versa un altro goccio a Rick.”
“Ma
Brunn, io non so se...”
“Versa,
Lon. Questo è un caso di forza maggiore.” Fece scivolare sulla
superficie del mobile una banconota.
Fu
solo alla fine del terzo bicchiere che Richard realizzò di avere
qualcuno di fianco. Si voltò adagio, cercando di mantenere
l’equilibrio nonostante il movimento gli facesse girare la testa, e
strizzò gli occhi per mettere a fuoco l’immagine. “Brunn?”
mormorò alla fine.
“In
persona, amico.” L’uomo gli diede una pacca sulla spalla che lo
costrinse a fare un passo di lato per non cadere. “Qualcosa non
va?”
“Niente
sta andando come deve andare.”
“Ti
va di parlarne?”
Richard
si voltò verso l’uomo, poi tornò ad abbassare lo sguardo sul
bicchiere. “È vuoto,” mormorò.
“Ed
è meglio che rimanga tale, almeno per un po’. Stai bevendo forte.”
Rick
lo guardò storto. “Che c’è, sei anche tu una di quelle? Magari
con una barba finta per spingermi a dire cose contrarie alla dignità
femminile?”
“Sei
già ridotto così dopo tre bicchieri?” ghignò Brunn. “Sarai
mica tu la donna travestita?”
I
due si scambiarono uno sguardo, Richard non poté fare a meno di
rivolgergli un pallido sorriso. Emise poi un lungo sospiro e disse:
“Ci sono momenti nella vita in cui non sai più da che parte
girarti per far funzionare le cose per il verso giusto. Io ho fatto
tutto quello che dovevo fare, te lo giuro, e adesso...” si
interruppe reprimendo un singhiozzo. Di nuovo abbassò lo sguardo sul
bicchiere. Brunn fece cenno a Lonnie di versare un altro po’ di
bourbon e il barista non pose obiezioni.
Richard
bevve di nuovo come se il distillato fosse una specie di medicina. Al
suo fianco, Brunn sorbiva in silenzio qualche sorso, con l’aria di
un estimatore che assaggia un single
malt particolarmente
pregiato.
Passò
un tempo che Richard non riuscì a quantificare. Era come se ci fosse
una barriera tra lui e il resto del mondo, che gli rimandava indietro
tutti i pensieri dolorosi che lui stava cercando di allontanare da
sé. Gli tornò in mente un supplizio dei tempi antichi nei quali il
condannato veniva chiuso in un sacco con degli animali affamati e
infuriati, che tentavano di liberarsi, ma non ci riuscivano e lo
dilaniavano a morte.
“Io
non ho fatto niente di male,” riprese. “Amo mia moglie, mio
figlio è la mia vita...” si interruppe.
“Ma...?”
chiese Brunn con cautela.
“Ma
è arrivata una lettera a Paula. Nuclei disfunzionali, se sai di cosa
parlo. Leo ha fatto non so che disegno a scuola, e quelle là si sono
fatte l’idea che io sia una specie di mostro. Prima due psicologhe
hanno voluto parlare con me e Paula. Ci hanno fatto un sacco di
domande del cazzo, a lei hanno chiesto addirittura in che posizione
scopiamo, volevano farle ammettere che io la tratto male.”
“E
tu la tratti male?” intervenne Brunn in tono neutro, come se gli
stesse chiedendo l’ora.
“Stai
scherzando? Io trattare male Paula o il bambino?” Emise un sospiro
sconsolato, quindi riprese: “Sono venute a casa la prima volta.
C’era Leo che giocava, io stavo preparando la cena perché Paula
era ancora al lavoro. Si sono prese da parte il bambino e gli hanno
fatto dire un sacco di stronzate.”
“Del
tipo?”
“Che
facevamo giochi aggressivi e di competizione, che giocavamo ai
soldati. Non sa neanche cosa sono, i soldati.”
“E
poi cos’è successo?”
“Hanno
trovato la bandiera.”
“Te
l’avevo detto di metterla via.”
“Me
l’aveva detto anche Paula, ma è l’unico
ricordo che mi è rimasto di mio padre. Gliel’aveva data il nonno,
salvandola dai roghi di quando quelle là hanno preso il potere.”
“Avete
bruciato noi? Adesso noi bruciamo i vostri simboli!”
Citò Brunn con una smorfia. “Fossero state solo le bandiere a
finire in cenere. Ti ricordi i roghi di libri e di quadri in mezzo
alle piazze, le statue fatte a pezzi, i musei devastati?”
Richard
annuì grave. “Ero solo un bambino, però me li ricordo.”
Di
nuovo tacquero e per un po’ bevvero in silenzio. Alla fine, il
biondo riprese: “Dopo un po’ se ne sono andate. Mi hanno fatto
chiudere la bandiera in cassaforte e ho fatto fatica a tenermi la
chiave, perché se la volevano prendere loro. Non possono togliermela
e lo sanno, ma mi hanno proibito di tirarla fuori o di farla vedere
al bambino. Io pensavo che me la sarei cavata con qualche corso di
Tolleranza e Dialogo,
magari quello di Critica
Consapevole della Misoginia,
che te lo rifilano per ogni stronzata, ma le puttane sono tornate il
giorno successivo, in quattro e con il culo parato da una squadra di
Riduzione dei Conflitti
con i taser. Hanno portato Paula in una Casa
per la Tutela delle Donne Abusate
e Leo l’hanno sbattuto in una Comunità
per l’Infanzia Negata.
Dovevi sentire come piangeva, poverino.”
Brunn
gli diede un paio di pacche sulla spalla, poi gli chiese: “E tu?”
“Ah,
io sono il bastardo della situazione, l’abusatore, il porco, il
misogino, il fallocrate, lo sciovinista, schiavo del patriarcato e a
mia volta schiavizzatore. Mi obbligano a fare i loro corsi del cazzo,
stronzate tipo Consapevolezza
di Genere, Tolleranza e Ascolto, Valore della Diversità o
Rapporto con il Femminile,
con valutazioni periodiche del livello di consapevolezza conseguito.”
“E
se ti rifiuti? Mica possono sbatterti dentro, non mi risulta che tu
sia accusato di reati specifici.”
“Perderei
il lavoro, tanto per cominciare, e non posso permettermelo: ho
bisogno di soldi.”
“Va
be’, tutti abbiamo bisogno di soldi.”
“Ma
a me ne servono di più. Voglio pagare un’avvocatessa per
riprendermi la mia famiglia.”
Brunn
lo fissò grave, quindi gli disse: “Sai bene che non ne troverai
una che sia disposta a difenderti.”
“Basta
pagare. Andrò da una di quelle brave.”
“E
secondo te, una di quelle brave, che passano la vita a sbattere in
qualche Comunità, che poi è solo una galera chiamata in modo
diverso, maschi accusati delle cose più fantasiose, si accolla la
difesa di un – cito parole tue – porco abusatore e sciovinista?”
“Io
non sono né porco, né abusatore né sciovinista.”
“Perché,
secondo te Dave era un molestatore? Eppure è finito dritto dritto
alla Disassuefazione,
e ci starà per un bel po’.”
Richard
diede fondo al bicchiere, poi in tono grave disse: “Basta che hai
un cazzo in mezzo alle gambe e non hai difese, non hai voce in
capitolo e non hai diritti. Puoi solo imparare a malapena a leggere e
scrivere, spaccarti la schiena tutto il giorno per quattro soldi e
dire sempre sì, se no diventi un porco e un abusatore e hai finito
di vivere.”
Brunn
lasciò passare qualche secondo, poi buttò lì: “Non è così
dappertutto.”
Richard
alzò le spalle. “Questo fottuto Mondo dell’Amore del cazzo è
ovunque, non si scappa.”
L’altro
si voltò a fissarlo negli occhi e in tono fermo dichiarò: “Ci
sono luoghi in cui i maschi sono liberi.”
“Liberi
di farsi trattare a calci in culo, al massimo.”
“Non
proprio.” Brunn gli fece scivolare in mano un biglietto con un
numero di telefono. “Pensaci.”
Richard
scosse la testa. “Mi dispiace, amico. Non vado da nessuna parte
senza Leo e Paula. Io resterò qui e troverò un’avvocatessa che
faccia valere i miei diritti.”
“Diritti
che non hai,” gli ricordò l’altro. “Anche un gattino
maltrattato ha più diritti di te, ricordatelo sempre. Suscita più
sdegno e ha uno spazio maggiore nei media. Tu sei un porco, un
fallocrate e un abusatore, tutto ciò che ti sta capitando te lo
meriti.”
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