Capitolo 7
“Naturalmente non siete riusciti ad aspettarci, o ad arrestare il
sospetto senza scenate,” fa Donovan roteando gli occhi, mentre Lestrade
si massaggia il collo e butta giù in fretta un po’ d’acqua.
“Ha provato a fuggire, Donovan. Lo avresti atterrato anche tu.”
“Umph! Pronto?”
Lestrade annuisce deciso: “Pronto.”
“Cosa vogliamo?”
“Tutto.”
Entrano nella stanza degli interrogatori.
Bolton e l’avvocato d’ufficio smettono di parlare. L’uomo non ha l’aria
soddisfatta dall’atteggiamento del suo cliente, quando Lestrade lo
saluta e sbrigano le formalità necessarie. Donovan fa partire la
registrazione dell’interrogatorio.
“Ok, cominciamo. Conosci i tuoi diritti, David, e il tuo avvocato ti ha
sicuramente ribadito che non sei obbligato a rispondere alle nostre
domande, ma se vuoi un consiglio spassionato, io credo proprio che ti
convenga farlo,” comincia Lestrade. “Perché abbiamo richiesto un
mandato per perquisire il tuo appartamento e la tua macchina, e se
anche ti sei sbarazzato della bici e degli scarponi che indossavi
mercoledì sera, quelli che avevi ai piedi mentre infierivi sul viso di
James Clarke, sfondandogli il cranio, be’, sono sicuro che qualche
traccia di sangue sui tappetini o nel bagagliaio della tua macchina è
rimasta di sicuro. Se non ne troveremo lì, forse saremo più fortunati
col filtro della tua lavatrice, che ne pensi?”
“Non so di che cazzo parli, te l’ho già detto,” risponde Bolton a denti
stretti.
“Ispettore, credo che dovremmo fare un passo indietro, prima di parlare
di macchie di sangue ancora da rinvenire,” interviene l’avvocato.
“Molto bene. Allora, dall’inizio: signor Bolton, conosceva Kala
Jawanda?” domanda Lestrade scrollando le spalle.
Lui non ha altri impegni o altri pensieri, e se preferiscono fargli
fare il Tenente Colombo, facendogli fare domande di cui conosce già la
risposta, allora starà al gioco. Lui e Donovan avranno una confessione.
Ci vogliono ore.
Bolton non ammette di conoscere Kala Jawanda prima che Tennyson e
Davies portino una deposizione raccolta a tempo di record da
un’ex-collega della ragazza alla libreria: contiene il nome proprio di
Bolton e una sua descrizione piuttosto fedele.
“‘Non so da quanto si conoscessero, ma vivevano assieme. Kala diceva
sempre cose come ‘vado a casa da Dave’ o quando lui chiamava gli
chiedeva a che ora sarebbe tornato a casa, quindi…’” legge ad alta voce
Donovan.
Sul movente non riescono a smuoverlo, nonostante Lestrade e Donovan si
alternino alla ricostruzione dei fatti ancora e ancora.
“Quindi Clarke e Latimer volevano diventare soci…ma non hanno chiesto a
te di essere il terzo. Ingiusto, vero? Io sarei stato furioso…”
“Eri geloso di Latimer come eri geloso di Riggs, ai tempi del vecchio
locale. Poi finalmente Riggs si toglie dai piedi, Clarke apre la nuova
caffetteria, e ti preferisce ancora qualcun altro!”
“Dopo tutto quello che facevi per lui…lavoravi col pubblico, gestivi il
magazzino…eri l’unico a dirgli le cose in faccia, l’unico che non si
nascondeva dietro un dito…e lui…”
Non vanno da nessuna parte.
Lestrade e Donovan si scambiano un’occhiata fosca e Lestrade fa portare
dell’acqua per tutti.
Donovan esce un minuto e Lestrade lascia che Bolton e il suo avvocato
si godano qualche secondo di silenzio.
“Non ti importava niente di James Clarke,” fa, alla fine, appoggiato
allo schienale della scomoda sedia di metallo. Fissa il soffitto.
“Riggs dice che eravate amici, o comunque vicini, ma non è vero,
giusto? Era il tuo capo e basta, non andavate d’accordo, ti faceva
infuriare la maggior parte del tempo e quando c’è stata l’occasione di
dimostrarti un po’ di apprezzamento, niente. Preferiva Latimer.”
“Ispettore…” sospira stancamente l’avvocato, ma Lestrade lo ignora.
“Lo capisco. Che fossi così arrabbiato da volergli fare del male, che
tu sia andato da lui per affrontarlo e l’abbia ucciso.”
“Non l’ho ucciso io,” risponde Bolton, pronto.
Donovan rientra e si siede senza una parola. Lestrade fa un gesto con
la mano, alle parole di Bolton, come a dire che non è importante.
“Davvero, chiunque nelle giuste condizioni potrebbe pensare di uccidere
il proprio capo,” continua. “Ma Kala?
Perché uccidere Kala?”
Allarga le braccia e guarda Bolton, perso. A Bolton tremano le labbra.
“Perché lo hai dovuto fare, David?”
“Non le avrei mai fatto del male,” mormora Bolton, abbassando lo
sguardo. “Io l’amavo.”
“Lo so. Lo so che l’amavi. So che le dicevi tutto, so che sapeva quanto
Clarke ti facesse impazzire, e cercava lo stesso di calmarti, vero? Ed
era preoccupata: era troppo buona e si preoccupava anche per quello
stronzo di Clarke. Per questo era andata da lui, la sera che tu volevi
affrontarlo. Magari non voleva che tu facessi stupidaggini. Lo so che
l’amavi,” ripete Lestrade. “Come so che ti senti in colpa per averle
fatto del male. Hai perso il controllo, non sapevi quello che facevi.
Sei quasi impazzito dal dolore, quando te ne sei reso conto…”
“Io…io…” Bolton deglutisce e non continua.
“L’amavi e non volevi lasciarla lì, sdraiata nel fango. I suoi
bellissimi capelli sporchi di fango…”
“Basta…” sussurra Bolton. “Non volevo farle del male…”
“Se l’amavi e non volevi farle del male, perché è morta, David?”
“Non è stata colpa mia!”
“Di chi è stata?”
“Clarke!” strilla Bolton, con voce rotta. “Di Clarke, dannazione, di
Clarke!” Picchia il pugno sul tavolo con forza.
“Cos’ha fatto Clarke?”
“Ha lasciato che lei lo difendesse!” grida Bolton. “Quel verme ha
lasciato che lei lo difendesse da me! Ha lasciato che colpissi lei…”
Bolton deglutisce a vuoto e ansima pesantemente. “E poi è scappato,”
aggiunge.
“Tu l’hai inseguito.”
Bolton sbatte le palpebre. Pare rendersi conto di quello che ha appena
ammesso. Alza gli occhi al soffitto.
“Sì,” risponde.
“L’hai raggiunto e l’hai pugnalato. Poi hai infierito sul cadavere,
perché ti aveva fatto colpire Kala.”
“Sì.”
“Hai spostato i corpi, perché volevi ritardare il momento in cui li
avrebbero scoperti. Hai preso i documenti di Kala, e la sua bicicletta,
perché sapevi ci avrebbero portato a te. L’unico che conosceva entrambe
le vittime.”
“Non rispondere,” ordina l’avvocato e Bolton scrolla le spalle, ma non
conferma né smentisce le ultime parole di Lestrade.
Lestrade sbuffa dalle narici e scuote la testa.
“D’accordo, non importa.” Alza le mani e poi si alza a sua volta.
“Continueremo dopo. Donovan.”
“David Bolton, è formalmente accusato dell’omicidio di Kala Jawanda e
James Clarke,” dice Donovan e non riesce a trattenere un sorriso.
“Donovan,” la riprende Lestrade a bassa voce, appena escono dalla
stanza per gli interrogatori, “è pur sempre della morte di due persone,
che si parla…”
“Lo so, boss. Ma è stato fantastico,” sorride ancora lei.
Davies e Tennyson fanno partire un applauso e Lestrade si concede
un’espressione soddisfatta: quella mattina non sapevano neppure il nome
della ragazza, ora hanno arrestato il suo assassino.
Non lascia che tutti si perdano nel giubilo: “Ok, d’accordo, bene. Un
lavoro fantastico, tutti quanti. Sul serio. Ma abbiamo appena iniziato.
Dobbiamo chiarire un sacco di questioni, ci sono ancora un sacco di
buchi.”
Ed è vero: bisogna rintracciare la famiglia di Kala Jawanda; perquisire
casa di Bolton; trovare la bici e gli scarponi, magari (ma Lestrade ci
spera poco) l’arma del delitto; qualcuno dovrebbe aggiornare Riggs e
Margareth Clarke; Latimer deve venire a deporre…
Donovan annuisce, come se avesse sentito i pensieri di Lestrade
riordinarsi: “Ci mettiamo al lavoro.”
La domenica si trasforma in lunedì.
Nell’appartamento di Bolton trovano la bicicletta di Kala Jawanda,
troppo voluminosa per disfarsene discretamente, a quanto pare. Trovano
anche due computer portatili, che vengono impacchettati e spediti a
Tecnologia e Informatica all’istante. Lestrade si prende due minuti,
alle otto in punto di lunedì, per chiamare Jeff e ricordargli che la
faccenda è urgente; così per le 11.30 sanno che uno appartiene a Bolton
e uno a Jawanda: Bolton ha usato quello della ragazza per scrivere alla
famiglia di lei a Manchester, negli ultimi giorni, ed ecco perché
nessuno si è accorto della sua scomparsa.
Lestrade ha un collega a Manchester che gli deve un favore; lo prega di
avvertire i genitori della ragazza, dopo averlo istruito sul caso.
Lascia anche il suo numero, nel caso i genitori vogliano parlare con
lui di persona, prima di dover venire a Londra.
“Dio, povera gente…” sospira con Donovan. “Come si fa ad accettare una
notizia del genere?”
“Almeno sanno da subito che il responsabile pagherà,” risponde lei.
“Non hanno dovuto passare l’inferno di Margareth Clarke.”
“Mh, non so. Margareth Clarke ha vissuto il peggio e ora avrà almeno
questo conforto, ma i Jawanda non sapranno mai che il dolore potrebbe
essere anche peggio.”
“Il dolore è dolore. Li tormenterà comunque, boss. Non ci pensare: noi
abbiamo fatto tutto quello che potevamo.”
“Hai ragione.”
Che idiozia mettersi a questionare una cosa del genere, ma il pensiero
di una famiglia che scopre la morte della figlia dopo quasi una
settimana lo riempie di tristezza.
È una buona cosa che aver risolto il caso abbia dato una scossa a
tutti, li abbia riforniti di nuove energie: nonostante i pensieri,
riescono a sistemare tutte le questioni urgenti, interrogatori e
deposizioni e acquisizioni delle prove, incidenti probatori e perizie.
Il caso è sicuro e solido, anche se il lavoro non è finito (non lo sarà
fino alla sentenza), e il lunedì sera Lestrade può congedare tutta la
squadra con l’ordine di non farsi vedere il giorno dopo.
Lui ha ancora una faccenda da sistemare prima di andarsene a casa, e
sale fino alla divisione Risorse Umane.
“Ispettore Lestrade!” lo saluta con calore Khaty Wilkies.
La donna si sta preparando ad andarsene e una collega dell’Ufficio
Legale la aspetta vicino alla porta.
“Abbiamo sentito dell’arresto per il caso di Parsons Green,” fa Khaty.
“Bel lavoro,” offre l’altra donna. “Chi è l’avvocato d’ufficio?”
“Uh…Wood?” risponde Lestrade scrollando una spalla. “Non voglio
trattenerti, Khaty, ma mi servirebbe un consiglio.”
“Ma certo,” risponde Khaty.
“Mi servirebbe un avvocato.”
La donna dell’Ufficio Legale sgrana gli occhi: “Riguarda il caso?
C’entra il tuo strano investigatore?”
“Cosa? No!” risponde Lestrade. Si schiarisce la gola: “Mi servirebbe un
avvocato divorzista,”
precisa. “È una cosa personale, ovviamente, e non mi andava di
discuterne davanti a una pinta con uno dei ragazzi…”
Lestrade non è certo il primo poliziotto a divorziare, ma ha già
sopportato la sua dose di chiacchiere e pettegolezzi quando se n’è
andato di casa la prima volta e poi è tornato, solo per andarsene
definitivamente dopo le feste natalizie. Khaty Wilkies è una consulente
psicologa e ogni conversazione con lei è protetta dal segreto
professionale. Vale lo stesso per la sua collega.
Khaty annuisce: “Ho qualche nome da consigliare. Posso inviarle una
mail domattina per prima cosa, Ispettore.”
“Lo apprezzerei molto.”
Lestrade vuole mandare avanti la faccenda, e tanto vale sfruttare la
botta d’adrenalina che gli ha procurato chiudere il caso. Una volta
fatto il primo passo si è instradati, e se dovesse perdersi di nuovo ci
penserà l’avvocato a pungolarlo a dovere.
Augura una buona serata alle due donne e se ne torna finalmente a casa
dopo trenta ore di lavoro quasi ininterrotto. Dorme non appena spenta
la luce, distrutto, soddisfatto e malinconico: è il primo caso grave
che risolve da quando è solo. È troppo stanco per rendersi conto si
tratta in effetti dell’unico caso che abbia mai risolto senza tornare a
casa e trovarsi sotto gli occhi il meraviglioso promemoria vivente che
il suo lavoro ha uno scopo, ma si sveglia comunque con l’insopprimibile
desiderio di vedere le ragazze.
Si fa bastare una telefonata estemporanea che manda in visibilio Vicky
e Grace e fa imbestialire Becky, perché ora sono tutti e quattro in
ritardo per la scuola e il lavoro, ma Lestrade deve pur sopravvivere a
un altro giorno, là fuori.
E sopravvive, pur se provato, a una giornata allo Yard solitaria,
passata a occuparsi di burocrazia a report sulle spese che si sono
accumulati durante la settimana precedente. Prepara una bozza sulla
chiusura del caso per i giornalisti consultandosi brevemente al
telefono con Donovan, e alle 17:30 è pronto ad andarsene, il peggio
delle pratiche sistemato.
Ha una mezza idea di passare da Baker Street, per dire a Sherlock che
il caso è risolto, ma dubita che a Sherlock interessi davvero e teme
che non riuscirebbe a dribblare un invito al pub da parte di John, e
non si sente ancora pronto a dire a qualcuno che ora ha un avvocato, e
un primo incontro proprio il girono successivo durante la pausa pranzo
(Donovan farà commenti? Certo che sì, dannazione).
Lestrade non ha ancora preso una decisione definitiva sulla sua
destinazione, quando esce dal suo ufficio e attraversa il piano.
Un’improvvisa cacofonia di strilli e una generale commozione lo
risvegliano dalle sue elucubrazioni: Sherlock gli sfila davanti
sbraitando in faccia a un furioso Ispettore Capo Hillerton. Un paio di
agenti sembrano indecisi se agguantare Sherlock o trattenere Hillerton
e John segue il gruppo con passo baldanzoso.
Lestrade si copre la faccia con le mani e geme disperato: “Perché,
Sherlock, cazzo, perché…John!” strilla poi. “Che succede, si può
sapere?!”
John allarga le braccia, l’espressione che dice ‘scusa, amico’ e
Lestrade sospira esasperato e si accoda al gruppo per salvare il
salvabile.
Due ore dopo, Sherlock non ha ancora finito di fare i capricci, ma ora
bisticcia con suo fratello nell’ufficio di Lestrade. John è seduto in
un angolo e si lascia sfuggire un sorrisetto ogni tanto e quando
Sherlock esce come una furia dalla stanza lasciando la porta
spalancata, si alza per seguirlo.
“Credo che prenderemo un taxi,” butta lì a Mycroft, che fissa suo
fratello con le labbra ridotte a una linea sottile. “Ciao, Greg. Scusa
il disturbo,” fa invece a Lestrade, passandogli davanti sulla via per
l’ascensore.
Lestrade scuote la testa, poi si affaccia nel suo ufficio.
“Ispettore,” lo saluta Mycroft, l’irritazione ancora percepibile nella
sua voce. Ma le successive parole non ne recano traccia: “Grazie per
averci offerto la privacy del suo ufficio. Non che a Sherlock importi
granché, della privacy o della discrezione,” termina con un sorriso
asciutto.
“Già,” sorride Lestrade. “Senti, io…stavo andando a casa, quando
Sherlock e John sono piombati qui a mettere le mani nel sangue a
Hillerton, e…”
“Certamente,” risponde Mycroft annuendo e uscendo dall’ufficio. “Non è
mia intenzione farle perdere ulteriore tempo, Ispettore, dopo questa
settimana così impegnativa. Le mie congratulazioni per aver risolto il
caso, e di nuovo, le mie scuse più sentite per il comportamento di
Sherlock. Anche se non posso accompagnarle alla promessa che niente del
genere si ripeterà,” aggiunge scuotendo la testa.
“Nah, ci sono abituato,” risponde Lestrade scrollando le spalle. “Ti
accompagno giù.”
Si affianca a Mycroft e l’altro uomo sorride appena quando Lestrade si
dirige alle scale di servizio da cui lo ha fatto uscire quel venerdì,
prima della conferenza stampa.
“In ogni caso, non era necessario che venissi di persona, per sistemare
i casini di Sherlock. Potevi telefonarmi,” mormora Lestrade quando sono
a metà della prima rampa.
“Sì,” ammette Mycroft.
“E sapevi che Sherlock era ancora arrabbiato perché lo hai prelevato
all’aeroporto, l’altro giorno, e cercava un pretesto per fartela
pagare,” continua Lestrade.
“Sherlock…ha indubbiamente colto l’occasione per sfogare un po’ di
scorno su di me, nel più infantile dei modi,” conferma Mycroft.
Lestrade raggiunge il pianerottolo e si gira a guardare l’altro qualche
gradino più indietro. Mycroft torreggia su di lui, l’espressione
volutamente neutra.
“Sei venuto lo stesso fino a Scotland Yard…”
Nel corso della giornata, visto che suo cervello non era più
concentrato sul caso Clarke, Lestrade ha pensato parecchio a Mycroft, a
partire dal loro incontro di quasi una settimana prima.
Mycroft è stato rapido ad accettare i suoi inviti, espliciti e non
espliciti, in quell’occasione, e le sue parole erano state “Non c’è
niente di questo piccolo arrangiamento a cui lei debba pensare, se non
vuole.”
Ma poi era comparso allo Yard venerdì mattina, sapendo che Lestrade
aveva una conferenza stampa, e se davvero i giornalisti fossero stati
un problema, si sarebbe presentato in un altro orario, per parlare con
il vice-Commissario. Sempre che si trattasse di un compito che la sua
assistente, Anthea, non poteva sbrigare da sola.
Mycroft sostiene il suo sguardo e sul suo volto si disegna un
sorrisetto compiaciuto.
“Tutto questo è perché speravi che…accadesse di nuovo. Tra noi dico,”
fa Lestrade, dopo essersi schiarito la gola.
“Speravo che lei realizzasse che non sarei avverso all’opportunità,
Ispettore, sì,” sorride Mycroft.
“Ci sarei dovuto arrivare prima,” recrimina sottovoce Lestrade
sentendosi scaldare la faccia.
Sherlock avrebbe detto che guardava ma non osservava (ma meno Sherlock
sapeva di quella storia, meglio era per tutti).
“Era preso dal suo caso, Ispettore,” lo scusa Mycroft, con aria
magnanima.
“Puoi darmi del tu?” ridacchia Lestrade, sopraffatto dall’assurdità
della conversazione.
“Eri…distratto,” si corregge Mycroft.
“Ho dato per scontato che si trattasse di…una botta e via,” dice
Lestrade, in imbarazzo.
“Non deve essere niente, se non…” comincia Mycroft, irrigidendosi
appena.
“No, no! Cioè…non lo so cosa può essere. Non è un gran periodo, per me.
In Tribunale…ho avuto l’impressione che tu fossi…e il cielo sa se non
mi serviva un po’ di apprezzamento…”
“Nutro la più profonda ammirazione, per te, e questo sentimento non è
scevro da una certa attrazione fisica,” risponde Mycroft, sorridendo di
nuovo. “Devo confessare che mercoledì non ho saputo resistere
all’offerta.”
Lestrade ride e si pasa una mano sul viso: “Oh, dio. Chissà cos’hai
pensato di me!” Si schiarisce ancora la gola. “Io…uh…ce l’avevo scritto
in faccia? L’hai dedotto già in Tribunale che pensavo a noi due che
scopavamo?”
Si può morire di vergogna all’età di Lestrade?
“Non l’ho dedotto in Tribunale,” risponde Mycroft gentilmente,
scendendo un gradino verso Lestrade, “né al caffè. Ma ricordo il
momento in macchina in cui hai deciso che mi avresti invitato a salire.
Conto di ricordarmelo a lungo,” aggiunge a mezza voce.
Lestrade non può impedire a uno stupido ghigno di aprirsi sulla sua
faccia. Sale un gradino verso Mycroft.
“Forse vuoi tenere a mente anche il prossimo momento,” suggerisce.
“Mh?”
“Vieni da me,” sussurra.
Mycroft chiude gli occhi per un istante, come se davvero stesse
salvando quel ricordo nella sua memoria sterminata, poi li riapre e
annuisce: “Andiamo, allora?”
“Solo un attimo.”
Lestrade sale l’ultimo gradino che li separa e addossa Mycroft al muro,
una mano sul fianco e una che scorre lungo il braccio di Mycroft fino
alla spalla e da lì alla nuca, per fargli piegare il collo e poterlo
baciare.
Mycroft sussulta e si aggrappa alle sue spalle, preso di sorpresa.
Lestrade lo bacia con foga, schiudendogli le labbra, cercandogli la
lingua e succhiandola piano, mentre il suo pollice traccia piccoli
cerchi sul fianco di Mycroft, sfortunatamente sopra il tessuto della
sua giacca.
Poi Lestrade si ritrae piano e prima di staccarsi da Mycroft sfrega le
labbra su quelle socchiuse dell’altro, sospirando ad occhi chiusi.
Quando li riapre, Mycroft lo sta fissando con vago rimprovero.
“Scusa. Ci pensavo da venerdì,” sorride Lestrade.
Mycroft sbuffa piano. Non ha lasciato cadere l’ombrello, ma Lestrade è
certo che sia solo perché lui non ha insistito a dovere: per quanto
sprovviste di telecamere, le scale sono pur sempre un luogo pubblico.
Lascia andare Mycroft e lui si riassetta gli abiti senza commenti, ma
con un curioso sorriso soddisfatto. Lestrade è certo che il suo ghigno
non sia da meno.
“Andiamo?” ripete Mycroft e Lestrade annuisce e lo segue.
Note:
E siamo arrivati alla fine:) Grazie per aver letto fin qui, grazie per
le recensioni e il supporto!
Finalmente è tornato Mycroft. Mi spiace si sia visto così poco.
Nelle mie intenzioni questa storia dovrebbe far parte di una serie,
quindi potrebbe esserci qualche aggiornamento in futuro, ma non
garantisco sui tempiXD
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