Ho visto una luce, eri
tu
«Che
razza di passaggio era?»
Quante
altre volte dovrà rimproverarlo, si chiede, mentre scuote la
testa, disilluso. Non che pretenda poi molto, da un novellino come lui.
Non solo non ha una buona tenuta di palla, ma è anche
schifosamente basso.
Sospira,
passandosi una mano tra i capelli sudati che gli pizzicano la fronte.
È lì da quanto, sei mesi?
«Kagami,»
lo chiama il coach, facendogli un gesto con la mano, «eri in
anticipo sulla ricezione.»
È quel piccoletto,
è lento come un mollusco, pensa, ma rimane in
silenzio, stringendo i denti. Non avrebbe alcun senso, polemizzare sul
campo.
Si
volta di spalle, afferrando l’asciugamano che gli passa il
preparatore atletico. «Devi capirlo,» dice
quest’ultimo, sospirando, «Brian non riesce a
starti dietro.»
Tutte balle. Il
rosso lo sa benissimo, è una scusa per giustificare
l’ennesimo errore del nuovo titolare. Non che
gl’importi, ciò che gli importa davvero
è solo giocare.
Il
suono del fischietto rende ufficiale la fine
dell’allenamento. Anche quella giornata volge al termine,
pensa, mentre afferra la bottiglietta d’acqua e si dirige
agli spogliatoi. Agguanta svogliato il suo borsone e si dirige verso
l’uscita, sul volto ha ancora la stessa espressione amorfa di
poco prima.
«Kagami!»
Non ha voglia di girarsi ad ascoltare le frottole di qualcuno, ma si
trattiene dal mandarlo al diavolo. Si volta, e nella sua visuale capita
a tiro proprio la pippa. «Scusami per oggi, starò
più attento.»
No, non lo farai.
«Ok, non preoccuparti.» Non è mai
capitato di essere così remissivo con qualcuno. Forse
è questo l’effetto che fa, crescere.
S’incammina
verso la solita strada che porta a casa, ma s’accorge di non
aver voglia di tornare. Fa una deviazione, certo che suo padre non se
la prenderà troppo a male. In fondo, non
c’è quasi mai.
Non
si sorprende affatto di dove i suoi passi l’abbiano condotto.
Lascia andare la tracolla, facendo rotolare il borsone giù
per gli spalti improvvisati. Afferra il pallone, portandosi al centro
dell’area dei tre secondi; il canestro è un
po’ dismesso, ma andrà bene comunque.
Tira.
Canestro.
Quanti
ne ha fatti nella sua vita, di tiri così? Quanti ne ha
sbagliati?
Palleggia,
alternando il ritmo delle mani. Fa scorrere velocemente la pesante
sfera sotto le sue gambe, riportandola in avanti un istante dopo.
È tutto un gioco di velocità, si dice, mentre si
volta di scatto e lancia ancora una volta verso il cesto. Sente il
fruscio della rete. Altri due punti.
Andando
avanti così, arriverà davvero lontano. Arriverò davvero
lontano?
Dribbla
via dei giocatori fatti d’aria, mentre si porta in avanti,
pronto per schiacciare: gli altri tiri li ha sempre considerati noiosi.
Supera con facilità l’altezza del canestro,
è pronto per infilare ancora una volta la palla nel luogo a
cui appartiene. Inizia la frenetica discesa verso il cestello, ma
quando s’accinge a premere la mano contro il materiale
sintetico che ha davanti, nella sua visuale appare la prima ombra del
pomeriggio inoltrato.
Sente
il rumore dell’anello di metallo, poi un rimbalzo prolungato.
Il pallone giace per terra, come la vittima di un suo fatale errore.
Ha sbagliato la schiacciata.
Rimane in silenzio, stringendo i pugni nelle mani, con lo sguardo che
vagabonda per il campo.
Scuote
la testa, ritirando indietro ciò che agli occhi pare lo
sfogo di non essere più sincero con sé stesso.
È per questo che ha voglia di piangere.
Gli
ha fatto una promessa. Gli ha detto che non avrebbe mollato, che non si
sarebbe arreso. Per questo sta pensando a lui, adesso.
«Dannate
ombre di merda» sospira, strofinandosi gli occhi arrossati.
Ce ne fossero di uguali a quella a cui ha dovuto dire addio.
Vorrebbe
tanto dire a Brian che non ha voglia di giocare con lui; la
verità è tutta lì. Anzi, non ha
proprio voglia di giocare con qualcun altro che non sia lui.
Da
adesso e per sempre, io… sarò la tua ombra.
Le
sente di nuovo. Corrono veloci lungo le sue guance, unendosi verso il
mento. Sono calde e familiari, le ha già sentite addosso in
passato. Perfino quel giorno, quando Kuroko gli ha detto quelle parole.
Quel giorno gli ha creduto davvero, per questo è stato in
grado di girarsi e puntare gli occhi sul tabellone su cui troneggiava
la grande scritta America.
Ha
fatto la cosa giusta, per il suo sogno. Ma ha fatto quella sbagliata
per il suo cuore.
Lo
sa, lo vede ogni giorno: quando si concentra troppo, si aspetta il
passaggio di sempre, quello rapido e scattante; quello a cui segue il
commento dei giocatori, che si chiedono chi sia stato a tirare. Come se
loro potessero davvero vederlo. Che razza di sciocchi. Eppure, lui
riusciva a farlo. Quei buffi e insoliti capelli azzurro cielo, e quegli
occhi così convinti di poter fare meglio, mentre dava tutto
sé stesso per assisterlo, con quel passaggio che sembrava
urlargli: “Vai. Vai e segna.”
Si
lascia sfuggire un singhiozzo, mentre ancora tenta d’asciugar
via le lacrime che sembrano tirargli via la pelle. Non credeva potesse
esistere un’emozione come quella, certo com’era di
riuscire ad andare avanti da solo. Perfino durante
quell’addio, ne era convinto.
Adesso
è diverso, perché Kagami è molto
lontano da Kuroko. Non potrà mai tornare da lui,
è troppo tardi.
Kuroko
– anche lui – andrà avanti,
imparerà a fare a meno di lui, riuscirà a trovare
un realizzatore all’altezza dei suoi passaggi. Ma non
sarà più lui. Non sarà più
Kagami.
È
terribile come quella consapevolezza gli serri il petto più
di tutte le angosce provate nella sua vita. Essere sconfitti in una
partita è un conto, ma perdere… non credeva mai
che potesse accadere.
«Ho
perso la mia ombra» mormora, stringendo le palpebre per
bloccare l’inarrestabile piena che gli bagna gli occhi, le
ciglia, l’intero viso.
Fa
male, male, male. Potrebbe smetterla di pensarci, ma la
verità è che non vuole. Significherebbe
dimenticarsi dell’unica persona di cui gli sia davvero
importato qualcosa: un giovane e goffo ragazzo, il cui unico scopo era
quello di far brillare lui.
Non ne ha mai capito il motivo, e nonostante questo non è
più così convinto che Kuroko ci sia davvero
riuscito.
Ma quale ombra.
Kagami, se si sforza, può ancora vederlo sfrecciare veloce
lungo il bordo campo, con lo sguardo concentrato e pronto
all’ennesima azione. Kuroko non poteva essere
un’ombra, non per lui. Kagami lo vedeva, ed era il
più luminoso tra tutti i suoi compagni di squadra. Perfino
più di lui.
«Eri
tu la mia luce, Kuroko» singhiozza, lasciandosi cadere per
terra, con le mani premute contro l’asfalto del campo.
Piange.
Piange come un bambino, piange perché capisce fin troppo
bene la differenza tra il vincere una partita e il perdere
sé stessi.
«Addio,
Kagami-kun.»
Cammina
svogliato, grattandosi la nuca. Deve ricordarsi di non comprare
più shampoo da mezzo dollaro, gli creano un fastidioso
prurito.
«Ohi,
Kagami,» lo chiama il playmaker della squadra, distogliendolo
dai suoi pensieri, «muoviti, sei rimasto indietro.»
«Sto
arrivando.» Entra in campo; è la prima volta che
ne vede uno così grande. Suppone che entrare
nell’NBA significhi anche questo.
Indossa
fieramente i colori della sua squadra, ricordandosi ogni giorno di
essere una persona diversa. Un campione, così come aveva
promesso. Dopo quel lontano giorno al parco, ha smesso di piangere.
Il coach si
porta davanti a loro, il suo sguardo brilla di una strana scintilla,
oggi. «A breve comincerà il campionato,»
lo sentono dire, «non ho alcuna intenzione di perdere,
quest’anno.»
«Sì»
rispondono in coro, convinti di poter dare sostegno al proprio
preparatore.
«È
per questo che voglio presentarvi la nostra nuova ala
grande.»
Appare
silenziosamente, sembra che nessuno l’abbia notato prima. Si
porta in avanti con fare umile, chinando subito il capo in segno di
rispetto. «Piacere di fare la vostra conoscenza.»
Kagami sbarra
gli occhi, portandosi in avanti per vederlo. Quella voce. È la sua.
Quando il
giocatore alza la testa, il suo sguardo azzurro si posa sul massiccio
esordiente dei Chicago Bulls. Sta sorridendo. «Ciao,
Kagami-kun.»
Il rosso rimane
in silenzio, ma sul suo volto appare un sorriso raggiante.
È
tornata.
La sua luce
è tornata da lui.