Lì,
dove non possono odiarsi
«Crepa,
lurido topo!»
Esce,
sbattendo sonoramente la porta dietro alle sue spalle –
l’ennesima che si sarebbe rotta. Non che gliene freghi
qualcosa, in realtà. Quella casa non è neanche la
sua.
S’issa
sul tetto, mentre si lascia cadere sopra le tegole lateritiche della
vecchia tenuta boschiva; pensa. A cosa, questo può solo
indovinarlo: ha persino dimenticato il perché di quella
lite. Non ha ideato neppure un piano per dirlo a Shigure e risparmiarsi
così la sonora ramanzina che potrebbe scaturirne. In un modo
o nell’altro, il cugino darebbe comunque ragione a quel ratto
schifoso.
Il
ricordo di quei profondi occhi scuri che lo fissano indispettiti gli
serra il petto; più si ostina a dimenticare quel volto
familiare, più la sua mente s’ingegna per
farglielo apparire più nitido, proprio lì,
davanti al suo sguardo smarrito. Un’istantanea definita dai
connotati tipici della famiglia Sohma: rigidi e severi, intrappolati
nella loro spregevole casta di famigli maledetti e senza futuro. Sì certo, come no.
Se
ne stavano tutto il santo giorno a credere d’essere loro, i maledetti.
Come se fosse davvero una maledizione, quella.
Fissa
il bracciale che porta al polso, indugiando col dito sulle bicromatiche
perline: bianche e nere, come le due metà che sembrano
spaccarlo in due. Persino in quel momento, non riesce a fare a meno di
sentirsi un po’ colpevole per quanto accaduto.
Non
gliene importa niente di Yuki, eppure è lì, steso
sul cumulo d’embrici, senza alcun altro pensiero per la
testa. Perché dev’essere così?
Perché non può fregarsene, una buona volta?
È
l’unico lì a farsi delle domande; non ha mai visto
il topo preoccuparsi di simili sciocchezze. Ancora una volta, il
carattere dei Sohma vince sulla sua nefasta esistenza.
Da
piccolo si sarebbe messo certamente a piangere, pensa, mentre vaga con
lo sguardo alla ricerca dell’unica nuvola sopra la sua testa.
«Sei
anche tu una pecora nera, ah?» le mormora, rapito dal modo
implacabile con cui fende l’azzurro del cielo terso.
Non
si sarebbe scusato – in realtà, non
l’aveva mai fatto – e perché avrebbe
dovuto? A Yuki di quel suo stupido dolore non fregava proprio niente.
Il
topo aveva già preso in giro il gatto in passato, davanti
agli occhi di Kamisama. Si fece beffe di lui, perché sapeva
che lo stupido felino si sarebbe fidato.
Stupido,
stupido gatto.
Forse
sarebbe stato meglio non nascere affatto. Il sorcio, così,
non avrebbe più potuto prendere in giro nessuno,
crogiolandosi della solitudine che solo i geni possono provare,
invisibili agli occhi della gente comune. Sarebbe stata una bella fine,
per quel bastardo. Avrebbe urlato magari, sperando che qualcuno
riuscisse ad ascoltarlo. Che idiota.
Kyo
sa di essere un disgraziato, forse è per questo che lo odia
tanto: lì dove lui s’infratta
nell’ombra, mal visto da coloro che gli piacerebbe chiamare
famiglia, Yuki risplende nel bagliore dell’affetto che ogni
membro dello Zodiaco prova per lui. Il primo, il graziato da Dio.
Eppure,
il topo non sembra capirlo quanto sia fortunato. Se ne sta tutto il
giorno con lo sguardo perso e la bocca ridotta ad una fessura; non
c’è niente, su quel volto – o almeno
niente che valga la pena guardare. Risplende dell’unica luce
che gli conferiscono gli altri, ma in lui nulla può
più essere rischiarato.
Il
felino sbuffa, tirandosi via dal viso una ciocca di capelli.
«Che diavolo me ne importa?»
Ce
l’ha con sé stesso perché non
è in grado di fregarsene, perché lui non
è come Yuki. A lui, per quanto dia fastidio ammetterlo, di
quella stupida pantegana addolorata importa ancora qualcosa.
È per questo che sta male, perché in quello
sguardo vede il riflesso della sua impotenza: lui, che tanto vorrebbe
essere come il topo, è costretto a vivere incatenato alla
sua natura incline alla contraddizione, aggressiva e gioconda come il
più bizzarro degli ossimori della vita. Scambierebbe
volentieri la sua intera esistenza per quella più placida e serena che
il padre Fato ha concesso così amorevolmente alla persona
che la ripudia. A Yuki, che intorno a sé vede solo le fiamme
di una luce troppo forte.
Vorrebbe
tanto dirglielo, ciò che pensa di lui. Vorrebbe dirgli che,
una parte di sé, brama davvero di essere come lui,
perché è stanco di sentirsi addosso gli sguardi
dei serpenti consanguinei, che lo guardano nella speranza che quel
maledettissimo braccialetto serri per sempre l’orripilante
eco della sua forma più vera, di quel fetore che lo
perseguita ancora quando i suoi ricordi tornano a molestarlo. La notte,
se presta attenzione, piange ancora, e ancora s’interroga sul
perché tutto questo sia capitato proprio a lui.
Spinge
la testa contro le ginocchia, avvolgendola tra le sue braccia. Non
è solo durante la notte che può permettersi di
soffrire; dopotutto, nessuno lo sta guardando.
Avrebbero
potuto essere amici, ma ciò non è accaduto.
Perché il gatto e il topo non possono andare
d’accordo. Non è nella loro indole, amarsi.
***
La tranquilla tenuta giace nel silenzio del bosco, nascosta dalle
fronde coriacee dei sempreverdi.
Kyo
entra dalla finestra, camminando silenziosamente verso camera sua. Ha
gli occhi gonfi; si ostina a credere che sia dovuto al troppo vento.
Non è mai stato molto sincero con sé stesso.
Passa
rapidamente davanti alla porta della camera del coetaneo, buttando di
sfuggita lo sguardo lungo l’uscio, che risplende ancora
d’un tenue chiarore. È
ancora sveglio?
Getta
un’occhiata svogliata all’orologio, chiedendosi
cosa ci faccia ancora alzato a quell’ora di notte. Lo sciocco
ratto, di solito, non regge fino alle dieci di sera.
«Idiota»
borbotta il gatto, bussando un istante dopo. Nessuna risposta. Forse
è ancora arrabbiato.
Si
dice che un secondo tentativo potrebbe solo aggravare l’umore
di quel ragazzo, già di per sé così
bipolare. Non ha voglia di rischiare di prenderle ancora, almeno non
per quella sera. Eppure, nonostante questo, se ne infischia del suo
raziocinio, poggiando istintivamente la mano sulla maniglia. Lascia
scorrere la porta di qualche centimetro, sbirciando dentro la stanza.
Lo
vede dormire, con la testa premuta contro il legno della scrivania e i
capelli tutti scombinati. A vederlo da lì, non appare
neanche così terrificante come al solito.
Gli
si avvicina circospetto, lasciando la porta aperta come unica via di
fuga, qualora l’ira dell’imbarazzo dovesse cogliere
il topo sorpreso a sonnecchiare. Si inginocchia davanti a lui,
scostandogli i capelli scuri dalle palpebre serrate; afferra la coperta
stropicciata sopra al futon, poggiandogliela delicatamente sulle spalle
indolenzite e rigide. Dovrebbe davvero riposarsi un pochino, quello
scemo.
In
quale mondo un gatto s’è mai preso cura di un topo?
Forse
non ha poi tutta questa importanza. Essere nati apposta per detestarsi
non rientrava nei loro programmi, in fondo.
Odiarsi,
e non riuscire a farlo. È quella la maledizione peggiore che
potesse capitar loro.
Lo
sguardo di Kyo trema alla pallida luce della lampada lasciata accesa.
Sta di nuovo pensando di voler piangere, ma è troppo vicino
alla fonte del suo malessere: se Yuki si svegliasse in quel momento, ne
rimarrebbe troppo scottato. Il suo orgoglio è già
abbastanza ferito, per rischiare che il membro dello Zodiaco possa
godere della sua più complicata debolezza.
Reprime
l’ondata di emozioni che l’ha colto. Ancora una
volta, taglia il filo rosso che li tiene uniti.
Ma
non importa. Quando Yuki non lo vedrà, di nascosto gli
farà un altro nodo, così da veder correre la loro
vita su quell’infinita matassa fatta di groppi che,
nonostante tutto, è ancora ben legata.
«Buonanotte,
stupido» sussurra, mentre sul volto gli si dipinge un
malcelato sorriso.
Non
esistono le luci, senza le ombre. È questo quello che si
dice, mentre richiude la porta alle sue spalle ed apre quella del
cuore.
Si
addormenta, con l’insolita immagine di un gatto che corre
verso il chiarore di un piccolo topo.
È
lì, che sente di dover andare. Lì, dove i gatti e
i topi non possono odiarsi.
Lì,
dove possono entrambi sentirsi a casa.
Nda:
Spero che questa breve oneshot vi sia piaciuta, mi era piaciuta l'idea
di scrivere qualcosa sui due Sohma che preferisco. Spero vi sia
piaciuto leggerla tanto quanto a me è piaciuto scriverla.
Baci,
_Vintage_