L'elsa
che mai tremò
Il
vaut mieux être détesté pour ce que
vous êtes
que
d’être aimé pour ce que vous
n’êtes pas.
~
Andrè Gide
La
Spada della Shinsengumi.
È
così che lo chiamano; pensa che non possa esistere
soprannome più azzeccato di quello, per descrivere
ciò che è lui,
la sua inconciliabile natura di spadaccino al servizio
dell’unica giustizia che conosce: la sua. Quella fatta
di paura, terrore, sgomento. Come quando trapassa le pulsazioni
adrenaliniche dei suoi avversari, da petto a schiena, in
quell’ennesima morte che Okita non ha mai sperimentato.
Non
ancora.
È buffa la vita,
pensa, mentre sfila via l’elsa della katana dal torace
trafitto del suo avversario. Il corpo inerme cade a terra con un tonfo
sordo, gli occhi vitrei del soldato rimangono per sempre incatenati al
cielo di quel giorno, ch’è più terso
del solito.
Tira
vento e fa freddo, ma Okita non lo sente. Rimane lì, con lo
sguardo affilato e meschino, intanto che può ancora bearsi
dell’immagine che ha dinnanzi a sé: ne ha
sconfitto un altro, senza problemi. È questo quello che si
prova, quando ci si abitua alla Falce, s’impara a cogliere
l’aspetto più ironico della vita; quel ragazzo
morto ai suoi piedi, avrebbe potuto avere l’età di
Heisuke. Un moccioso, per la precisione.
Non
che sappia la differenza tra uccidere un bambino o un adulto, non
è tipo da fare queste distinzioni: è quello che
gli dicono di fare, ciò che davvero conta. E la sua
volontà è di ferro, non può vacillare
davanti all’evidenza di un comando. È per questa
ragione che è sempre lui a sporcarsi le mani, lì
dove i suoi compagni d’armi falliscono miseramente, per
paura, per quella stupida compassione
che vede dipinta sui loro volti bonari e pacifici.
Non li sopporta.
Non sopporta la loro maschera di benevolenza, così falsa e
dissonante rispetto alla katana che stringono intorno alla cintola. Non
sopporta il loro sguardo speranzoso di un futuro migliore, mentre
temporeggiano sempre un istante in più per estrarre
l’arma dalla fodera che la cela. Così facendo, a
lui non rimane altro che intervenire prima che qualcuno li ammazzi.
Quei poveri scemi.
Oramai
la lega della sua arma non è altri che un metallo forgiato
col sangue delle persone che ha ucciso.
Una.
Dieci.
Cento.
Mille.
Non
fa differenza. Quella spada rimane rossa, di quella linfa
indispensabile alla vita e di cui lui si appropria per sfuggire ancora
una volta alla propria dipartita.
Magari
un tempo riusciva anche a sentirsi in colpa, ma ora è
diverso. Quando tornerà al quartier generale,
potrà lavare via il vermiglio che gl’impiastriccia
le mani, dimenticandosi dell’ennesimo volto che pare averlo
maledetto davanti agli occhi di Thanatos.
Ne
avrà di cose di cui scusarsi, quando lo
incontrerà.
***
«O-Okit…a,
maledet-to.» Vomita il sangue, stramazza a terra.
Lo
spadaccino pulisce la sua katana con un rapido movimento del braccio,
portandosela nuovamente al fianco, mentre il sangue esule
s’incolla al muro lì vicino. Le gocce grumose
iniziano a disegnare dei rivoli porporini che scendono fino a terra, a
macchiare il terriccio di quella strada deserta.
Un
altro nemico è andato. Quanti ne restano?
Ritorna
al quartiere: sente gli sguardi degli altri soldati addosso. Riesce a
percepirlo chiaramente, il loro disprezzo per i suoi modi disumani e
brutali, privi di pietà. Non che gl’importi, in
realtà; ci è abituato da quando è
nato, ad esser visto in quel modo.
C’è
chi lo odia perché lui è un vero samurai, nato
da una famiglia di guerrieri. C’è chi lo odia
perché è un affabulatore scaltro, bugiardo e
fiero. C’è chi lo odia semplicemente
perché è lui, Souji Okita.
Perfino i suoi sottoposti lo disprezzano, accusandolo di essere la
ragione per cui tutti continuano a chiamarli “i Lupi di
Mibu”.
Avrebbe
potuto pentirsi, se ne fosse stato in grado, ma non lo è;
perché non è mai stato vicino alle sofferenza
altrui, e la misericordia non gli ha mai sfiorato il volto.
È
per questo che, ogni volta che si sporca le mani, può
ripulirsele, in quell’atteggiamento pusillanime e per nulla
avvezzo alla pena. Poco importa che si senta in colpa, fin quando
può attingere ad una fonte che lavi via le sue colpe. A lui
è concessa, l’indifferenza del peccato.
Per
questo fa così paura, Souji Okita.
È
il Sinistro Mietitore, colui che impugna la katana e non la falce.
Ciò
che fa il samurai non è altro che prendersi delle vite,
esattamente come il teschio incappucciato. Eppure, Okita è
terribilmente più spaventoso, perché non reca in
sé le fattezze del venerando psicopompo, che scorta
lealmente le anime nell’oltretomba, indicando loro la via. A
lui interessa solo afferrare le viscere di quegli spiriti e farle
proprie, imprigionandole per sempre nel putridume del ferro della sua
spada. Non vi è una destinazione da raggiungere, per quelle
vite.
È
così che vive, Okita, e se l’odio degli uomini
è l’effetto collaterale di quella continua sfida
tra lui e la divinità del Tartaro, allora ben venga.
È pronto. In fondo, non ci è tagliato per
l’amore.
Preferisce
vivere col peccato della tracotanza, piuttosto che sopravvivere
all’ombra di un sorriso forgiato da false speranze.
È fatto così.
***
Tossisce
un’altra volta. Con la bocca premuta contro il fazzoletto,
sente un po’ di sangue sfuggirgli e colargli sul mento.
Sorride
amareggiato, mentre tenta di afferrare col braccio tremante la fodera
della sua katana. Gli sembra passata una vita, dall’ultima
volta che l’ha usata.
Nell’oscurità
della sua stanza, tutto gli appare un progetto definito da tempo:
è lui, il Cavaliere dell’Apocalisse, che brama per
avere finalmente la sua anima. Che razza d’ingenuo, come se
gliela potesse concedere così facilmente.
Sente
mancargli l’aria e i polmoni farsi più serrati,
sul punto di affogare. Annaspa per un po’
d’ossigeno, mentre si mette a sedere e respira profondamente.
Quando riacquista un po’ di fiato, non può fare a
meno di ghignare.
È
un contrappasso onesto, si dice, per tutte le vite che ha rubato.
L’ironia più sagace è che sputa sangue
senza che qualcuno l’abbia ferito. Forse è davvero
l’odio di tutti coloro che ha ucciso, ciò che
adesso lo sta uccidendo a poco a poco. Non merita una morte rapida e
indolore, lui.
Se
ne sta come in trance, a contemplare il lenzuolo del suo futon,
cercando con lo sguardo quell’elsa che oramai non
può salvarlo, perché Souji Okita non è
più in grado di correre più veloce di lei, la morte, la
quale sembra spalancare le sue nefaste braccia intorno al suo corpo che
lentamente si consuma.
Si
alza in piedi, barcollando verso il metallo scheggiato dalle mille
battaglie. Sfiora l’impugnatura con la mano tremante, e
quando l’afferra s’accorge che il suo palmo non
vacilla più. In fondo, non è cambiato nulla.
Stringe
la katana con decisione, ignorando l’impulso di tossire e
avvicinarsi ancora una volta alla sua compare incappucciata.
«Dovrai
aspettare» le dice, mentre con lo sguardo vaga alla ricerca
della fialetta dal liquido purpureo, posta con cura sul tavolino.
La
sfida ancora una volta, mentre ingurgita avidamente il liquido che gli
brucia l’esofago, gl’irretisce i sensi. Si sente
molto più vicino a lei, in quel momento, e di nuovo le
sfugge, recuperando le sue facoltà mentali. Ancora una
volta, Okita ha sconfitto la morte.
Per
quanto ancora giocherà a braccio di ferro con lei?
È un po’ stanco.
Eppure
non può morire, non ancora. C’è troppo
odio intorno a lui, perché possa lasciarsi andare a quel
modo. La sua missione non è ancora finita.
Guarda
il nuovo sé riflesso sul metallo della katana, chiedendosi
cosa ci sia di così terribile nell’avere un paio
di occhi rossi e i capelli bianchi – la sete di sangue,
dopotutto, già l’aveva. Ciò che
è cambiato è solo il suo aspetto. Si sente pronto
ad affrontare le conseguenze di quella sofferta decisione, anche se
significa generare altri dissapori.
Fino
a quando ne sarà capace, poco gli importa che qualcuno possa
odiarlo davvero. Deve ancora combattere. Può ancora farlo.
Fa
scorrere lentamente la porta della sua camera, uscendo al gelo
dell’inverno imminente.
Alle
sue spalle, le cavità oculari dello scheletro spazientito
attendono risentite il loro prossimo incontro.
Il
giorno in cui la vittoria spetterà a lui.
Nda:
Ammetto con estrema facilità che AMO - e sottolineo AMO -
Okita Souji. E' inutile, ho provato in tutti i modi a scrivere anche
sugli altri personaggi, ma con lui scrivere mi viene davvero naturale.
T___T Spero che questa breve one-shot vi sia piaciuta, ci tengo tanto a
ringraziare il contest a cui è iscritta, indetto da eleCorti che mi ha
permesso di scriverla.
Baci baci!
_Vintage_