Cari lettori,
siamo
alla fine del mappazzone, spero che abiate apprezzato la vicenda.
Ringrazio come sempre tantissimo chi mi ha seguito, chi mi ha messo
in qualche lista e chi è stato così gentile da lasciarmi un
commento.
Grazie
a tutti, sono i lettori che fanno vivere le storie, non gli
scrittori.
Capitolo
3
“Perché
trenta minuti?” chiese Lyles, guardandosi intorno con aria quasi
offesa. La sua espressione era quella di chi è rimasto vittima di
uno scherzo di pessimo gusto. “Anche se avessimo a disposizione
dieci ore, come accidenti facciamo a uscire di qui, con quegli affari
ancora in giro?”
Il
sergente scosse la testa e rispose: “Una falla nel contenimento
significa che non esce più nessuno. Qualsiasi cosa sia qui dentro –
noi inclusi – è considerata a potenziale rischio biologico.”
“Cioè,
mi faccia capire,” ringhiò Lyles, “questi ci vogliono friggere
come calamari?”
“È
così.”
“E
noi non possiamo far sapere a quelli che stanno là fuori che non c'è
nessuna cazzo di contaminazione biologica? Che abbiamo solo delle
stronze bestie invisibili che ci stanno aprendo il culo?”
Nessuno
rispose.
“Eh?
Non possiamo comunicarlo a qualcuno? Dobbiamo stare qui a farci
arrostire le palle come degli stronzi?”
Westbrook
gli mise una mano sulla spalla, ma lui si svincolò bruscamente e
ringhiò: “Fanculo!”
A
quel punto intervenne il sergente: “Ora basta, soldato.”
Beau
si voltò verso di lui con lo sguardo di un toro che sta decidendo se
caricare o no, ma il graduato proseguì: “Abbiamo mezz'ora, vediamo
di non sprecarla in stronzate.”
Lyles
emise il fiato che aveva trattenuto, poi fra i denti rispose:
“Sissignore.”
Ewing
annuì, quindi disse: “Problema numero uno: individuare una via
d’uscita. Problema numero due: raccogliere i superstiti...”
Lyles
lo interruppe: “Problema numero tre, anzi, numero zero virgola
cinque, visto che viene prima di tutti gli altri: se non troviamo il
modo di scrollarci di dosso quegli affari, possiamo pure risparmiarci
di pensare a come risolvere gli altri due.”
Nonostante
il suono ritmico dell’allarme rosso, si udirono in lontananza il
rumore di qualcosa di metallico che cadeva e un urlo d’agonia.
Seguì qualche raffica di mitra, poi un altro urlo.
“Merda,”
ringhiò qualcuno fra i denti.
Il
ferito gemette tentando di muoversi, il suo compagno gli disse
qualcosa a basa voce e controllò la fasciatura di fortuna che gli
aveva applicato, già rossa di sangue.
Il
sergente si voltò a fissare i due, quindi si rivolse a quello illeso
e indicando l’altro chiese: “Che cos’ha?”
Per
tutta risposta, egli con voce dura replicò: “Non lo lascio qui.”
“Non
dire stronzate, soldato, nel mio plotone nessuno viene lasciato
indietro.” Detto questo, il sergente si chinò sul ferito e lo
esaminò. Una ruga gli comparve tra le sopracciglia aggrottate, poi
rialzò la testa con un gesto brusco e disse: “Ora troviamo il modo
di uscire di qui.”
Intervenne
il nerd in camice bianco: “Tutti gli accessi sono sigillati, la
procedura di sicurezza non può essere fermata.”
“Ma
che bella notizia,” commentò il sottufficiale in tono sardonico.
L’altro
si strinse nelle spalle e rispose: “Qui vengono messe a punto armi
biologiche per cui non esistono antidoti, una fuga di materiale
contaminato potrebbe creare un’epidemia impossibile da contenere.”
“Beh,
mi dispiace per le sue armi biologiche, dottore, ma io ho intenzione
di portare i miei ragazzi fuori di qui.”
“Non
creda che io invece abbia voglia di stare qui ad aspettare una dose
letale di raggi gamma,” fu l’asciutta replica. Lo scienziato fece
poi una breve pausa, durante la quale gettò un’occhiata alla porta
scardinata e al corridoio scuro che da essa si dipartiva, quindi
proseguì: “Credo di aver capito perché quelle cose non entrano
qui dentro: evidentemente si orientano seguendo l’energia
bioelettrica degli esseri viventi.”
Il
sergente lo fissò dubbioso. “E quindi?”
“È
semplice: il campo elettrico dei generatori copre il nostro. Non
riescono a vederci.”
In
quel momento, il quadro di una delle enormi apparecchiature si fece
buio. Pochi secondi dopo, altri si oscurarono in successione.
Ewing
fissò i macchinari come se fossero stati belve pronte ad assalirlo.
“E adesso che cazzo succede?” ringhiò.
Intervenne
Fisher: “Il sistema li spegne, tanto non servono più.”
“Quindi
tra un po' rimaniamo al buio e senza copertura?”
“Tra
quindici minuti saranno operativi solo i generatori d'emergenza.”
Il
sergente annuì brusco, quindi disse: “Beh, allora non c'è tempo
da perdere. Lyles e Westbrook, alla sala monitor. Controllate se ci
sono superstiti e nel caso mandate un comunicato per raccoglierli al
livello 1. Jones e Murphy, voi venite con me. So che nell'armeria del
livello 3 c'è dell'esplosivo ad alto potenziale. Dottore, lei...”
“Che
cosa vuole fare con l'esplosivo?” s'intromise il tecnico.
“Facciamo
saltare una delle porte.”
Fisher
scosse la testa. “Tutta la base è chiusa in un bunker di cemento
armato, le pareti sono spesse un metro come minimo. Le porte sono
blindate come quelle del caveau di Fort Knox.”
Il
sottufficiale annuì brusco. “Altre uscite?”
Di
nuovo, il tecnico scosse la testa. Dal corridoio provenne qualcosa
che sembrava un ruggito, poi si udì un tramestio metallico. Un
elmetto con il sottogola strappato arrivò rotolando e si fermò
contro uno dei generatori.
Ci
fu un muto scambio di occhiate, poi Fisher disse: “Si potrebbe
provare con il tunnel.”
“Che
tunnel?”
“Giù,
al decimo livello. È una galleria che porta all'esterno.”
“E
quella non è blindata?”
“Un
mio collega che lavora giù alle turbine dice...” si interruppe, lo
sguardo gli cadde sull'elmetto che era rotolato dentro. “...diceva
che c'è modo di sbloccarla. Diceva che chi aveva progettato la base
aveva lasciato una via d'uscita per il comandante e il suo staff.”
Ewing
lo fissò dubbioso. “Ed è vero?”
Fisher
si strinse nelle spalle. “George non era tipo da raccontare bugie.”
Seguirono
alcuni secondi di silenzio, rotti solo da un lieve gemito del ferito.
La sirena continuava a mandare i suoi segnali intermittenti, le luci
rosse e gialle dei lampeggianti d'emergenza spazzavano le pareti.
“Scendiamo,”
disse il sergente.
Ci
fu un altro giro di occhiate. Alla fine, Murphy della squadra Delta
diede voce al pensiero di tutti: “E quei cosi?”
Ewing
guardò l'orologio, sul quale le cifre stavano calando a una velocità
vertiginosa, quindi rispose: “Dobbiamo tentare. Ascensori e
montacarichi non sono più operativi, quindi sarà necessario usare
le scale.”
Nessuno
si mosse.
“C'è
una scala di servizio,” propose il tecnico. “Sarà al buio, ma
con le torce si può scendere.” Si diresse verso un armadietto di
metallo, lo aprì e controllò il contenuto. “Qui ce ne sono tre,”
annunciò.
Il
giovanotto in camice lo raggiunse e guardò a sua volta nel mobile.
Tirò fuori un paio di strumenti che sembravano telefoni cellulari di
tipo antiquato, con una sfera arancione grossa come una palla da
tennis fissata sopra.
“Rilevatori
di campi elettromagnetici,” disse, in risposta alla muta occhiata
del sottufficiale. Ne accese uno, che si illuminò ed emise un bip,
quindi proseguì: “Nel corso degli esperimenti, determinate
manifestazioni
erano sempre accompagnate da alterazioni del campo elettromagnetico.”
“Significa
che quegli aggeggi rilevano la presenza dei mostri?” chiese Lyles
dubbioso.
“Teoricamente
sì.”
“E
in pratica?”
§
“E
in pratica, vaffanculo,” brontolò Lyles, tenendo lo strumento
davanti a sé come la bacchetta di un rabdomante.
“Sta'
un po' zitto, Beau.”
“Fanculo.”
Il
display mostrava solo minime variazioni quando passavano accanto alle
luci intermittenti.
I
due continuarono a camminare cauti lungo il corridoio. Il pavimento
era ingombro di detriti, il rivestimento delle pareti era stato
strappato come vecchia carta da parati e lasciava vedere il cemento
sottostante, intaccato da solchi paralleli a quattro a quattro, come
lasciati da enormi artigli. Un cavo dell'alta tensione tranciato
dondolava sputacchiando scintille.
Scavalcarono
con cura un mucchio scuro al centro di una pozza di sangue.
“Ne
mancava metà,” borbottò Lyles.
“Ti
ho detto di tenere chiuso il becco.”
“Se
lo sono mangiato.”
“Vuoi
fare la stessa fine?”
“Col
cazzo.”
“E
allora sta zitto.”
Proseguirono.
A parte il suono martellante dell’allarme, non si udivano altri
rumori. Ovunque c'era sangue, ma corpi non se ne vedevano.
“Muoviamoci,”
sussurrò Chet, ma in quel momento il rilevatore ebbe un guizzo. I
due si immobilizzarono e si scambiarono uno sguardo preoccupato
mentre le cifre sul display aumentavano con velocità vertiginosa.
Arretrarono in silenzio, trattenendo persino il respiro.
Beau
fece scivolare il dito sul grilletto dell’M-4, l’altro scosse la
testa con espressione inorridita.
In
fondo al corridoio, l’aria sembrava tremolare come per l’effetto
del calore. Un cavo pendente oscillò, le scintille rimbalzarono su
qualcosa che però non si vedeva.
Passò
un tempo che ai due parve eterno, poi le cifre ripresero a calare e
in breve la luminosità del display si smorzò, segno che lo
strumento era tornato in fase di quiete.
Chet
si passò sul viso una mano tremante e la ritrasse fradicia di
sudore. “Andiamo,” sussurrò.
Raggiunsero
dopo poco la stanza dei monitor. Lo strumento guizzò quando vi
entrarono, di nuovo le cifre sul display ebbero un’impennata. Beau
si fece indietro imbracciando il mitra, ma non successe nulla.
“Gli
schermi,” sussurrò Westbrook dopo un po’. A riprova della sua
intuizione, avvicinò il rilevatore a uno dei monitor ed esso ebbe un
guizzo.
Beau
emise il fiato in un lungo sospiro. “Me la sono quasi fatta sotto,”
mormorò, “pensavo che ce ne fosse uno nascosto qui dentro.”
“Muoviamoci,”
disse Chet per tutta risposta.
Pressoché
ogni telecamera, sia al loro livello che in tutti gli altri, mostrava
le stesse scene di distruzione.
“Ma
quanti cazzo sono questi affari?” disse Beau fra i denti, muovendo
il joystick per spostare il controllo da una telecamera all’altra.
A
un tratto si immobilizzò: il monitor che stava fissando aveva
cominciato a sfarfallare. Tra le righe di disturbo si videro i mobili
finire in pezzi, una porta aprirsi come per effetto di un colpo di
vento e un pacco di carte turbinare lontano. Comparve una donna che
correva, qualcosa la afferrò, la sollevò di peso e la mandò a
sbattere contro un muro.
“È
qui al blocco A,” disse Chet in tono cupo, “riconosco le
decorazioni sul muro.”
La
donna frattanto parve esplodere a mezz’aria. Uno schizzo di sangue
colpì la telecamera oscurandola.
“Merda,”
mormorò Beau.
“Cazzo,
guarda!” esclamò Chet.
Un
altro monitor si era appena coperto di righe.
“È
quello del corridoio principale,” disse Lyles.
I
segnali di disturbo passarono al monitor successivo.
I
due si guardarono sgomenti. Sottovoce, Westbrook disse: “È
quell’affare. Fa impazzire le telecamere.”
“Sta
venendo verso di noi.”
Simultaneamente,
i due arretrarono verso gli schermi e vi si appiattirono contro.
Beau, il cuore in gola, rivoli di sudore ghiacciato che gli
scorrevano giù per la schiena, si trovò a scrutare angosciato nel
buio del corridoio, a tendere l’orecchio nella vana ricerca di un
rumore che gli facesse capire dov’era quell’essere, se poi di un
essere si trattava. Strinse la presa sull’M-4 con tale forza che le
nocche sbiancarono.
Qualcosa
mosse l’aria, il monitor più vicino alla porta si coprì di una
ragnatela di schegge. Uno sgabello fu scaraventato dall’altra parte
della stanza e si fracassò contro il muro con un rumore assordante.
Chet urlò mentre qualcosa lo afferrava.
D’istinto,
Beau premette il grilletto. “Figlio di puttana!” sbraitò,
“Bastardo!”
Dopo
i primi colpi, qualcosa lo investì facendolo finire a terra. L’M-4
gli venne strappato di mano, si torse nell’aria e si piegò come un
coltello a serramanico. Il soldato rotolò da una parte, afferrò
quel che rimaneva dello sgabello e lo lanciò dove il fumo degli
spari sembrava delineare una vaga figura. Di nuovo fu colpito, sentì
in bocca il sapore del sangue, crollò a terra con farfalle bianche
che gli danzavano davanti agli occhi. “Chet!” urlò.
Gli
rispose un lamento inarticolato.
Saltò
in piedi, scrollò la testa come per recuperare lucidità. Si guardò
intorno alla ricerca di un’arma e gli capitò sott’occhio
l’armadietto delle dotazioni anti-terrorismo. Ne spaccò il vetro
con un pugno, estrasse un taser e lo puntò verso quella che sembrava
solo aria.
La
scarica elettrica illuminò a giorno per un istante la saletta, e in
quella luce violacea al soldato parve di vedere un’enorme testa con
tre occhi, nera e cornuta.
Poi
tutto si fece buio.
“Beauregard!
Beauregard, rispondimi!”
Lyles
sbatté gli occhi e intravide una sagoma china su di lui. “Cosa…?”
balbettò.
“Beau!”
“Che
cazzo...”
“Dobbiamo
andarcene, ce la fai ad alzarti?”
“Non
lo so.” Lyles provò a muoversi, ma subito ricadde con la
sensazione di avere una sbarra incandescente piantata nel torace.
Tossì un paio di volte e fitte di dolore gli fecero venire la pelle
d’oca. “Ho paura di no,” mormorò con voce flebile.
“Invece
sì, ti aiuto io.” Incurante dei suoi lamenti, Chet lo afferrò per
un braccio e lo sollevò a sedere. “Tu e la tua mania del cazzo di
fare le cose senza pensare,” imprecava frattanto a denti stretti.
“Ti cacci sempre nei guai, brutto idiota.”
“Preferivi
finire spalmato sul muro come un cazzo di paté?” ansimò Lyles.
“Stronzo!”
Beau
si aggrappò a uno spigolo della console, si tirò faticosamente in
piedi e rimase per qualche secondo ad ansimare mentre il dolore
minacciava di fargli perdere i sensi.
L’altro
lo fissò preoccupato. “Ce la fai?”
“Andiamo.”
Si
affacciarono sul corridoio.
“Quegli
affari?” ansimò Beau.
“Il
rilevatore non dice niente.”
L’allarme
continuava a suonare, sembrava che nel frattempo si fosse fatto più
concitato, più urgente. “Quanto manca alla frittura delle palle?”
chiese Lyles.
“Poco.”
“Sai
sempre come essere incoraggiante. Gli altri?”
Chet
tirò fuori da una tasca del giubbotto antiproiettile una radio e la
accese. “Bravo 1 a Casa Base. Bravo 1 a Casa Base. Sergente, mi
riceve?”
Si
udì qualche fruscio elettrostatico, poi dall’altoparlante provenne
la voce di Ewing: “Casa base a Bravo 1, avanti.”
“Casa
Base, ricerca superstiti con esito negativo. Bravo 1 in rientro, un
ferito.”
“Attenzione
medica, Bravo 1?”
“Confermo,
Casa Base.”
Lyles
tossì un paio di volte, quindi disse: “Spegni quell’affare, mi
dà ai nervi.” Poi allungò una mano, agguantò l’apparecchio,
premette il PTT e ringhiò: “Sergente, ci hanno fatto il culo a
strisce, passo e chiudo.” Tossì di nuovo, aggrappandosi ansante
alla spalla dell’amico.
“Muoviamoci,
Beau,” disse Chet, passandogli un braccio intorno alla vita e
stringendoselo contro.
“Abbiamo
tredici minuti,” li accolse il sergente Ewing. “L’attenzione
medica dovrà aspettare.”
Westbrook
diede un’occhiata intorno: il soldato della squadra Charlie stava
sorreggendo il suo compagno ferito, che aveva il volto ormai terreo e
una larga striscia di sangue che gli inzuppava tutta la parte destra
dell’uniforme; i due della squadra Delta reggevano un gruppo
elettrogeno portatile e un altro era in attesa assieme a due taniche
di carburante all’inizio della scala.
“Muoviamoci,”
disse il sottufficiale.
Cominciarono
a scendere. La scala era stretta e piuttosto ripida, tanto che alle
volte dovevano aggrapparsi ai corrimani per non perdere l’equilibrio.
Puntando la torcia verso il basso si vedevano solo strutture di tubi
di ferro bianchi e rossi che si perdevano in un abisso nero.
“Ma
regge quest’affare?” chiese Beau, senza rivolgersi a nessuno in
particolare. La domanda si perse nella cacofonia metallica dei passi.
La
scala finì. Fisher, che precedeva il gruppo con una tanica di
carburante in una mano e la torcia nell’altra, disse: “Siamo al
livello 6, questo è il locale generatori, ma ormai saranno tutti
spenti. Dobbiamo raggiungere il locale delle pompe d’aerazione, da
lì c’è un’altra scala di servizio che arriva fino al livello
8.”
“Bene,
andiamo. Jones e Murphy, andate a posizionare il gruppo elettrogeno.”
“Sissignore,”
rispose il primo, quindi attivò il rilevatore di campi
elettromagnetici e lo mosse in su e in giù per captare eventuali
alterazioni. “Tutto pulito,” disse infine e si allontanò insieme
all’altro.
“Dovrebbe
attirarli,” disse il nerd, sistemandosi gli occhiali con la mano
che non reggeva il gruppo elettrogeno. “O perlomeno, dovrebbe
confonderli.”
Si
udì lo scoppiettio del motore provenire da un corridoio, e pochi
secondi dopo il pennello di luce di una torcia spazzò le pareti.
“Fatto, sergente,” disse Murphy.
“Muoviamoci,”
rispose il sottufficiale.
Si
rimisero in marcia con tutta la rapidità che la loro situazione
consentiva. I due soldati della squadra Delta afferrarono il secondo
gruppo elettrogeno, il dottore e il sergente aiutarono a trasportare
i feriti.
Non
avevano fatto cento metri che il gruppo elettrogeno smise
improvvisamente di funzionare. Subito dopo si udì il rumore di
qualcosa di pesante che cadeva, o finiva contro qualcosa a forte
velocità.
“L'hanno
attaccato,” considerò il dottore. “Evidentemente il diversivo ha
funzionato.” Col dorso della mano che reggeva la torcia tentò di
sistemarsi gli occhiali, nel movimento il fascio di luce guizzò sul
soffitto e poi tornò a puntarsi in avanti, mostrando una porta che
oscillava lentamente sui cardini.
Tutti
si immobilizzarono.
“Che
cazzo è?” ringhiò il sergente, facendosi scivolare giù dalla
spalla l’M-4.
Murphy
estrasse il rilevatore di campi elettromagnetici e le cifre sul
display ebbero un guizzo. “Merda,” mormorò.
Il
sergente osservò a sua volta lo strumento, poi disse: “Non va su
come quando arriva uno di quegli affari.”
“Ma
non è nemmeno a zero.”
“Il
tempo passa,” fece notare Lyles, ancora appoggiato alla spalla di
Westbrook.
Nessuno
si mosse, sguardi preoccupati guizzarono dall'uno all'altro.
Il
display nel frattempo si era attestato su un valore medio. Murphy
mosse appena lo strumento, quindi indicò la porta che avevano visto
muoversi. “È là dentro,” disse, a voce così bassa che
praticamente mosse solo le labbra.
“Se
fosse uno di quelli, sarebbe già uscito,” fece notare Lyles.
Il
dottore intervenne: “Forse non si è accorto di noi.”
A
quel punto, lo strumento ebbe un guizzo e dalla porta socchiusa
scivolò fuori una forma scura e bassa. Immediatamente, Jones e il
sergente Ewing imbracciarono gli M-4 e premettero il grilletto.
L'oggetto
fu sbalzato all'indietro dalle raffiche e rotolò via emettendo
scintille.
Si
udì una voce spaventata: “Non sparate!”
Il
dottore puntò la torcia, illuminando i resti di un grosso robot
lavapavimenti. Da oltre la porta si affacciò cauto un giovanotto dai
lineamenti asiatici che indossava la divisa degli addetti alle
pulizie.
Subito
Fisher gli si fece incontro. “Lanh! Che ci fai qui?”
Il
tizio, giovane, dall'aria un po' svampita, diligentemente rispose:
“Scusate tanto, non avevo considerato che i robot partono
automaticamente. Non sparate agli altri quando escono, costano un
sacco di soldi. Che sta succedendo?”
“Facciamo
prima a dire quello che non
sta succedendo,” intervenne il sergente. “Muovi le chiappe,
perché fra dieci minuti qui salta tutto.”
Lanh
lo fissò stupefatto. “Salta tutto?” ripeté con l'aria di non
capacitarsene.
“Ma
che cazzo avete nella testa voi tecnici, la merda di coniglio?”
intervenne brusco Lyles. “Qui sta succedendo l'inferno e tu perdi
tempo a farmi domande idiote? Ma non lo senti l'allarme?”
“Credevo
che fosse un'esercitazione.”
Ripresero
la marcia. Il soldato della squadra Charlie aveva perso i sensi ed
era praticamente trascinato a braccia dal suo compagno e dal dottore,
Lanh e Fisher trasportavano il gruppo elettrogeno superstite.
Lyles
abbandonò la presa sulla spalla di Westbrook e disse: “Ora va
meglio.”
“Ce
la fai?” chiese Chet, fissandolo preoccupato.
“Più
o meno. Devo avere qualche costola rotta, niente di che. Quando
giocavo a football mi riducevo anche peggio.”
“Non
fare una delle tue solite cazzate.”
“Fanculo.”
“Fanculo
tu, brutto idiota. Poi mi crepi perché magari una costola ti buca un
polmone.”
Beau
fece una risatina. “Ci rimarresti male, per caso?”
“Fanculo.”
“Basta,
voi due!” intervenne il sergente.
Alla
fine del corridoio, Fisher si fermò davanti a una porta e disse: “È
qui.” Provò ad abbassare la maniglia, che però non si mosse.
“Accidenti,” imprecò. Provò di nuovo, con lo stesso risultato.
Mentre
dardeggiavano nel gruppo sguardi preoccupati, si fece avanti Lanh.
“Il vantaggio di essere quelli che fanno le pulizie,” disse,
tirando fuori dalla tasca una chiave universale.
Fece
scattare la serratura.
In
quel momento, provenne dal fondo del corridoio un rumore come di
vetri infranti e lamiere accartocciate. Una porzione di soffitto si
staccò e rovinò al suolo, il rivestimento fu strappato da qualcosa
che sollevò scintille come il disco di un flessibile.
“Ne
arriva uno!” urlò Ewing. “Copertura!”
Tutti
saltarono oltre la porta appena aperta mentre il fragore della
distruzione si avvicinava con velocità vertiginosa e ovunque
schizzavano detriti. Chet spinse dentro Beau, poi si girò per
afferrare il soldato privo di sensi, ma sia lui che il suo compagno
gli furono strappati dalle mani. Nella penombra tagliata dai fasci
delle torce vide un lucido spruzzo di sangue levarsi in aria, poi
qualcuno lo afferrò per la collottola e lo tirò indietro.
L'anta
si serrò con un tonfo.
Si
lanciarono giù per le scale con tutta la velocità che carichi e
ferite consentivano e per lunghi secondi non si udirono altro che
l'echeggiare dei passi sul metallo e un ansimare sempre più intenso.
Alla
fine, Fisher disse: “Siamo al livello 8.”
“Ne
mancano due, giusto?” chiese il sergente alle sue spalle. Guardò
l'orologio e aggiunse: “Abbiamo sei minuti. Accendete il gruppo
elettrogeno mentre andiamo, così risparmiamo tempo.”
Lasciarono
nel corridoio l'apparecchio scoppiettante, che però continuò a
funzionare indisturbato, mentre da lungi cominciava a farsi sentire
il consueto rumore di distruzione.
“Correte!”
urlò il sergente. “Fisher, fa' strada! Corri!”
Si
udì un urlo lacerante, qualcosa sbatté contro la parete. Un braccio
con tanto di M-4 ancora attaccato alla mano oltrepassò il gruppo in
fuga e atterrò con un rumore sordo.
“Nessuno
si fermi!” ordinò Ewing.
Continuarono
a correre pancia a terra. Ai livelli bassi il buio era completo, solo
le torce facevano guizzare qualche pennello di luce qua e là,
mostrando ovunque scene di distruzione e corpi smembrati. “Sono
arrivati dappertutto!” esclamò Lyles.
Alle
sue spalle, il dottore disse: “Sanno tutto quello che sappiamo
noi.”
“Cosa?”
“Sono
un prodotto della nostra mente e...” La frase si spense in un urlo
strozzato.
“Le
scale principali!” esclamò Fisher, “Al livello 10 ci sono le
indicazioni per il tunnel di collegamento!” Rallentò con una mano
sul petto.
Westbrook
lo afferrò per un braccio. “Muoviti!”
“Tunnel
di collegamento,” ripeté l'uomo per tutta risposta. “Lo trovi
alla fine del corridoio nord. George diceva che da fuori assomiglia a
una camera iperbarica. Lo sai com'è fatta una camera iperbarica?”
“Più
o meno.”
“La
porta dev'essere bianca, circondata da un nastro adesivo a righe
gialle e nere.”
“D'accordo,
ma adesso muoviamoci,” replicò il soldato. Lo tirò per
convincerlo ad aumentare l'andatura e di colpo finì sbilanciato
all'indietro con un moncone di braccio tra le mani, mentre il resto
del corpo di Fisher si apriva come se qualcosa lo stesse facendo a
fette. La testa rotolò da una parte e sbatté contro la parete con
un tonfo sordo.
Westbrook
distolse gli occhi dalla scena e raggiunse il resto del gruppo.
Entrarono
nella sala generatori, buia e silenziosa, serrarono la porta alle
loro spalle, ma un istante dopo l'anta volò via come per effetto di
una carica di esplosivo. Lanh, che era l'ultimo del gruppo, parve
prendere il volo. Finì con un urlo contro la parete, dalla quale
scivolò giù lasciandosi dietro una strisciata di sangue.
Lyles
imboccò le scale, inciampò, capriolò malamente per tutta la rampa,
riuscendo a rimettersi in piedi solo al pianerottolo. Si portò la
mano al lato del torace e sputò una boccata di sangue. “Mi sa che
porti rogna, Chet,” fece in tempo a dire, prima di scomparire giù
per la seconda rampa.
Westbrook
gli andò dietro senza ribattere e mentre scendeva il suono
dell'allarme divenne una sirena continua che spaccava i timpani.
Delle luci rosse si accesero e cominciarono a lampeggiare.
“Mancano
tre minuti,” disse il sergente.
“Ce
la possiamo fare,” ansimò Chet, cercando di ignorare il fuoco che
ormai gli divampava nel petto. “Dobbiamo solo cercare la porta del
tunnel.” Fece una pausa, inalò con fatica una boccata d'aria,
quindi soggiunse: “Bianca con il bordo giallo e nero.”
Qualcosa
gli piombò sulla spalla ed egli ebbe l'impressione che lame
incandescenti gli straziassero la carne. Urlò di dolore mentre
rivoli di sangue gli scendevano lungo il braccio.
Immediatamente,
Lyles tornò sui suoi passi. “Chet!” esclamò.
“Vattene,
Beau!”
“Col
cazzo!” L'altro lo afferrò per il giubbotto antiproiettile e lo
tirò indietro. Nel movimento persero l'equilibrio entrambi e
cominciarono a rotolare giù per le scale.
Dall'alto
provenivano urla agghiaccianti.
Qualcosa
di viscido e rossastro cadde giù e atterrò con un tonfo flaccido
che ricordava una bistecca gettata sul tagliere. Westbrook deglutì e
disse: “Mi sa che siamo rimasti soli.”
“Beh,
allora diamoci una mossa,” fu la replica di Lyles. “Non voglio
essere qui quando questo fottuto posto si trasformerà in una
succursale di Chernobyl.” Poi, dopo qualche secondo: “Ti fa male
il braccio?”
“Almeno
è ancora attaccato. E a te le costole?”
“Fanculo
a loro.”
Illuminato
solo dal bagliore intermittente dei fari rossi, il corridoio nord
aveva l'aria di essere completamente vuoto. Tutto sembrava intatto,
come se le entità lo avessero ignorato.
La
porta sulla parete di fondo non assomigliava a quella di una camera
iperbarica: era una normalissima porta di collegamento ed era chiusa
a chiave.
“Merda!”
imprecò Lyles col poco fiato rimastogli. Tossì di nuovo, sputò una
boccata di qualcosa che nella luce sanguigna parve privo di colore.
“Merda!” ripeté. “Il posto è questo, che cazzo facciamo?”
Il
suono della sirena cessò all'improvviso. Calò un silenzio
raggelante, nel quale si udiva solo qualche lontano sfiato di vapore.
I
due si scambiarono uno sguardo. “Tempo scaduto,” disse Westbrook.
Lyles
gli rivolse un'occhiata feroce. “Eh no, col cazzo!” replicò. “Io
non mi sono sciroppato dieci piani di mostri incazzati per schiattare
come un idiota a un metro dall'obiettivo!” Si guardò intorno,
individuò un estintore. Lo staccò dal gancio e con quello prese a
colpire la porta. “E dammi una mano, no?” ringhiò dopo un po'.
“Che
cazzo faccio, canto uno spiritual per darti il ritmo?”
Il
pavimento vibrò come per una scossa di terremoto, i neon del
soffitto tintinnarono.
“Merda!”
imprecò Lyles. Colpì la maniglia della porta, che finalmente
cedette.
Al
di là c'era una stanzetta vuota, che sulla parete di fondo aveva una
porta bianca, bordata di giallo e nero.
Di
nuovo il pavimento vibrò, dal soffitto caddero giù dei calcinacci.
“Apri
quel cazzo di sportello,” disse Lyles, “qui sta saltando tutto.”
La
porta in effetti non era chiusa, anche se all'interno possedeva un
dispositivo di blocco. Al di là, un tunnel dalla sezione rotonda si
perdeva nel buio.
Una
terza esplosione fece cadere i tubi dei neon e fece comparire crepe
lungo tutte le pareti. Beau entrò nella galleria, Chet fece per
seguirlo, ma in quel momento la porta della stanza venne praticamente
strappata dai cardini e andò a fracassarsi contro un muro.
Westbrook
si sentì afferrare e strappare indietro. Lyles lo vide e senza
esitare un attimo balzò fuori a sua volta. “Bastardo!” urlò,
rivolto all'invisibile assalitore. Westbrook si sentì afferrare per
un braccio. Si trovò dapprima a testa in giù, con qualcosa che lo
reggeva per una gamba, e poi per terra con un nugolo di farfalle
bianche davanti agli occhi. Lyles continuava a imprecare
furiosamente.
Poi
si sentì sollevare di nuovo e si rese conto di essere troppo debole
per opporre resistenza. Si trovò su un pavimento di metallo
zigrinato.
Ci
fu un'esplosione, il pavimento vibrò sotto di lui, la porta sbatté
e subito dopo ci fu lo scatto metallico del sistema di bloccaggio che
veniva azionato.
Nel
generale ovattamento dei rumori, si udirono, forti e chiari, dei
colpi sulla porta.
La
voce di Beau disse: “Non è mica finita.”
“Cosa...?”
“Alzati,
amico, dobbiamo tagliare la corda prima che qui salti tutto. Non so
quanto regga questa galleria.”
Il
vetro dell'oblò si incrinò sotto un ennesimo colpo. Un'esplosione
proiettò contro la porta una grandinata di detriti.
“Alzati,”
ripeté Beau.
Chet
aprì gli occhi. Per terra c'era una striscia fosforescente come
negli aerei, che si perdeva serpeggiando appena in un'oscurità
picea. Da dietro la porta continuavano a giungere i tonfi di qualcosa
che vi stava rabbiosamente battendo contro.
“Alzati
e vediamo di darci una mossa.”
Westbrook
gemette cercando di sollevarsi. “Sto sanguinando, Beau,” mormorò.
Sentiva il liquido caldo e viscoso scorrergli lungo il braccio, ne
sentiva l’odore ferroso sulla pelle. Spinse la mano sana a toccare
cautamente la ferita che aveva sulla spalla e le sue dita
incontrarono dei profondi solchi. Fu stupito di non sentire alcun
dolore.
“Andiamo,
dai,” La voce di Lyles lo riportò alla realtà contingente. “Ti
aiuto io.”
“Ma
anche tu sei ferito, Beau.”
“Ci
aiuteremo a vicenda, allora.”
§
Sbucarono
fuori dalla galleria nel pieno pomeriggio e si trovarono a sbattere
gli occhi, momentaneamente accecati dalla luce forte del deserto.
“Ma
che cazzo...” mormorò Beau, facendosi ombra con una mano.
Si
guardò intorno barcollante e la sua vista annebbiata captò
l’immagine di un posto di guardia nel quale alcuni soldati stavano
aspettando che il tempo passasse. Si chiese quanto dovessero essere
lontani dall’entrata principale di Aguas Muertas, se quei quattro
bellimbusti se ne stavano là pacifici come su una spiaggia delle
Bahamas.
“Magari
siamo veramente finiti alle Bahamas,” mormorò dando voce ai propri
pensieri.
Alle
sue spalle, Chet boccheggiò: “Cosa?”
“Siamo
alle Bahamas, amico,” mormorò Beau con le ultime forze, quindi si
afflosciò a terra.
Il
tonfo del corpo attirò l'attenzione dei quattro, che accorsero e per
prima cosa li fissarono inorriditi. “Che cazzo vi è successo?”
chiese il caposquadra.
“...Un
casino...” riuscì a esalare Beau.
Da
sonnolento che era, l’avamposto si trasformò immediatamente in un
fervere di attività: i due furono raccolti e portati al coperto, fu
offerta loro dell’acqua e sulle loro numerose ferite furono
praticate le prime medicazioni.
Cominciò
un concitato scambio di messaggi con il posto di guardia principale e
con la vicina base militare.
“Abbiamo
qui due soldati,” spiegò il caposquadra, parlando via radio con la
base, “dicono che sono usciti da Aguas, che là sotto è successo
un casino.” Si voltò verso di loro. “Come vi chiamate?”
“Soldati
Chesterton Westbrook e Beauregard Lyles.”
“Ok.”
Mentre
il graduato ripeteva i nomi alla radio, Beau si girò faticosamente
verso l’amico e mormorò: “Chesterton?”
“Che
c’è?”
“Hai
un nome da omosessuale inglese.” Fece una risatina.
“Il
tuo è da omosessuale francese, allora,” rispose Chet piccato.
“Il
mio è un nome carico di gloria. Un grande generale confederato si
chiamava così.”
“Beh,
allora se vuoi saperlo, un grande scrittore inglese si chiamava come
me.”
“Scommetto
che era omosessuale.”
“Non
più del tuo generale, caro mio.”
“Basta,
voi due!” intervenne una voce estranea. “Ora mandano una squadra
medica dalla base. Nel frattempo, piantatela di fare casino.”
§
Beau
aprì gli occhi e mise a fuoco l’immagine della persona che aveva
di fronte. Aggrottò le sopracciglia. “E lei chi sarebbe, il G-Man
di Half Life?” chiese.
L’uomo,
completo scuro, camicia bianca, cravatta blu e una valigetta nera
nella mano destra, si avvicinò ai piedi del letto e disse: “Buon
giorno, soldato Lyles.”
“Chi
è lei?” ripeté Beau diffidente. Si girò verso il letto accanto
al suo, liscio e vuoto. “E dov’è Westbrook?”
“Sta
facendo delle terapie.”
Il
soldato cercò di alzarsi, scoprendo di essere troppo debole per
farlo. “Che tipo di terapie?” chiese, fissando l’altro con
sempre maggiore diffidenza. “Voglio vederlo.”
“Tutto
a suo tempo,” rispose l’uomo in tono accondiscendente. “Per il
momento vorrei solo sapere cos’è successo ad Aguas Muertas.”
“Mi
pare che Westbrook ve l'abbia detto, no?”
L’altro
scosse la testa. “Non è stato convincente.”
“Beh,
mi dispiace per lei se non si è convinto. Se non crede a lui, perché
non scende giù a controllare di persona?”
L’uomo
prese una sedia e si accomodò accanto al letto. Si pose la valigetta
sulle ginocchia, poi in tono suadente disse: “Un manoscritto di
valore inestimabile è rimasto laggiù.”
Beau
scosse la testa con decisione. “Chi se ne frega. E poi, tanto, quel
vostro manoscritto di merda ormai sarà ridotto a un mucchio di
cenere.”
“Non
lo è.”
“E
lei come fa a saperlo? Mi sembra che nessuno sia sceso giù a
controllare, giusto?”
“Abbiamo
inviato una sonda,” rispose l’altro con la massima calma.
“Beh,
allora la stessa sonda glielo potrà anche recuperare. Senza contare
che laggiù sarà pieno di radiazioni, giusto?”
“Dettagli.”
“Dettagli
un cazzo, direi, specialmente se sta pensando di spedire qualcuno
laggiù.”
L’uomo
rimase impassibile. Si limitò a tamburellare leggermente sulla
superficie della valigetta con le dita, poi chiese: “Lei tiene al
suo amico Chesterton Westbrook, soldato Lyles?”
Beau
aggrottò le sopracciglia mentre un brivido gli percorreva la
schiena. “Che c’entra Chet, adesso?”
“La
nostra idea è che non sia più in possesso delle sue facoltà
mentali.”
“Come
sarebbe a dire?”
“Farneticazioni
su mostri invisibili, gente morta in modo misterioso. C'è l'ospedale
psichiatrico per certe cose, soldato Lyles.”
Il
militare cercò di nuovo di sollevarsi dal letto, riuscendo solo a
puntellarsi su un gomito. Rivolse all'uomo uno sguardo omicida e
ringhiò: “Mi faccia capire: volete farci passare per pazzi?”
Questi
alzò le spalle e in tono pacato rispose: “Non c'è psichiatra al
mondo che non reputerebbe il soldato Westbrook un grave delirante,
temo.”
Beau
distolse gli occhi da quelli del suo interlocutore. Immaginò Chet
con la camicia di forza, chiuso in una stanza imbottita, istupidito
dai farmaci. “Ok, vado laggiù,” disse categorico. “Vado e vi
dimostro che Chet è perfettamente sano di mente e voi siete degli
stronzi.”
§
Westbrook
si passò una mano sulla faccia, quindi esclamò: “Sei un idiota!
Cristo di Dio, sei il re delle teste di cazzo, tu e la tua maledetta
impulsività!”
Lyles
lo fissò indignato. “Per tua norma e regola, volevano sbatterti in
un ospedale psichiatrico!”
“Macché
ospedale psichiatrico del cazzo! Ti hanno preso in giro e tu ci sei
cascato come un allocco.”
“Che
stai dicendo?”
“Avevano
solo bisogno di convincerci a tornare là sotto volontariamente.”
Beau
aggrottò le sopracciglia. “Stai scherzando?”
“Mai
stato così serio. Quella specie di Agente Smith delle mie palle con
cui hai parlato aveva proprio il compito di farti dire la cazzata che
hai detto.”
“E
tu come lo sai?”
“Lo
so perché con me ha fatto lo stesso teatrino.”
Lyles
abbassò lo sguardo e per un po' lo tenne ostinatamente fisso sulle
proprie mani, dando l'idea di ponderare se fosse il caso di andare
alla ricerca dell'uomo con la valigetta e prenderlo a cazzotti, poi
chiese: “E tu cos'hai fatto?”
“Oltre
ad avermi dato il nome di un grande
scrittore, mio padre mi ha insegnato a contare fino a dieci, prima di
parlare.”
“Beh,
allora il mio mi ha insegnato che non si lasciano gli amici nella
merda, se vuoi saperlo,” fu la piccata replica.
“In
ogni caso,” riprese Westbrook, ignorando il veemente proclama, “io
ho risposto che prima volevo parlare con te. Peccato solo che quando
sono arrivato qui ho trovato la frittata già fatta.”
Tra
i due calò il silenzio. Dopo un po', Lyles fissò l'amico e in tono
di riprovazione gli disse: “Quindi, all'idea che mi avrebbero
sbattuto in un ospedale psichiatrico tu sei rimasto indifferente?”
“Tanto
sapevo che era un bluff.”
L'altro
si mise i pugni sui fianchi con fare indignato. “Ah, bell'amico. Se
vedi che mi puntano una pistola in faccia cosa fai, non ti muovi
perché tanto sei sicuro che sia finta?”
“Oh,
che palle, Beau. Ti va una birra?”
“Fanculo.”
“Fanculo
anche a te. Andiamo?”
Si
incamminarono verso lo spaccio.
“Si
sa quando partiamo?” chiese Lyles.
L'altro
alzò le spalle con indifferenza. “Non lo so, però il tempo di
bere qualche birra ce l'abbiamo di sicuro.”
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