Raccolta di memorie di dieci anni di fallimenti

di Sarane
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Quando ero bambina essere forte era più semplice. Parlare di debolezze, contemplarne l’esistenza, mi era impossibile. ho sempre avuto un problema che con il tempo si è acuito invece di scemare, non sono mai riuscita ad accettare la pietà.

Mi ha sempre ferito vederla negli occhi degli altri, leggervi la compassione mi faceva sentire come una lebbrosa. Mentirei se dicessi di non aver mai desiderato, mai nemmeno una volta, delle attenzioni, avrei voluto qualcuno in grado di guardare ai miei problemi, avrei voluto poter rispondere con l’onestà che doveva competere alla mia età più tenera quando mi veniva chiesto come stessi, ho sempre avuto un disperato bisogno di comprensione nella mia vita e di affetto.

Ma essere forte, anche solo per finta, per principio, ha prevalso ogni volta su qualunque malessere.

Alcune fissazioni sono destinate a procrastinarsi nel tempo lentamente, è stato inevitabile per me non riuscire più a mostrare il male che mi porto dentro. A volte lo sento affiorare in superficie, mi arrabbio con me stessa, sembro uno stereotipo di persona complessata che cerca di fare la dura, ma poi un poco spero che si noti. Non si nota mai invece, quel riaffiorare è sempre troppo blando per apparire dolore, è così compresso, così premuto a fondo da qualche parte nel mio stomaco che, più facilmente, trasborda solo in eccessi di collera mal gestiti e umorismo nero di pessimo gusto.

Non riesco a ritrovarmi in questo, non per davvero, non riesco a ritrovarmi più e basta.                   

In un momento indefinito della mi esistenza so solo di essermi persa, di aver deciso con tanta decisione come avrei dovuto essere da aver dimenticato come sono. Ho investito troppe forze in questa immagine di me che mi rendesse orgogliosa, eppure a pari merito con l’orgoglio zoppica un malessere costante, una repressione forse, una sensazione d’incompletezza e insoddisfazione.

Se da un lato mi sembra di aver sviluppato una resistenza incredibile, perfino troppo rigida, dall’altro sono fin troppo brava a farmi scivolare la realtà tra le dita, le cose, gli obiettivi, le persone, che mi sembra sempre più facile lasciar perdere tutto ma lasciar perdere tutto mi fa male in un modo che non avevo mai considerato, è come incidermi l’anima lasciarmi fallire e lasciarmi trasportare dalla corrente, per avvilupparmi in un sollievo momentaneo affondo da sola la lama.

L’oblio è ciò che mi resta, dimentico senza dimenticare, è la mia condanna riuscire ad archiviare ogni cosa, sono sopravvissuta archiviando la mia vita e la mia vita è un archivio di ricordi che, quando viene aperto, mi soffoca di una collera profonda, per tutto ciò che fingo costantemente non ci sia mai stato.

Non dimentico davvero, fingo di dimenticare per essere serena o per fingere di esserlo. Il problema è che, a tratti, lo divento davvero, come una mente svuotata che continua a cercare di svuotarsi, che appena tappo il buco e impedisco ai pensieri di fuggire per poterli contemplare, sono sopraffatta dall’insoddisfazione di un essere mediocre e triste.





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