Vittorio era
ufficialmente stanco di quel tempo matto.
A un passo dall'estate, non ci sarebbero
più dovuti essere temporali un giorno sì e uno
no: era questo che pensava il carabiniere in quella sera di fine maggio
mentre usciva dal portone del palazzo, un grosso ombrello in pugno per
ripararsi dalla pioggia torrenziale che martellava il terreno. Proprio
di fronte al palazzo era parcheggiata la macchina di Vera: la ragazza
era seduta all'interno dell'abitacolo con aria scocciata, in attesa, e
Vittorio le si avvicinò rapidamente per poi bussare al
finestrino.
«Vittorio Valenti al suo servizio,
madame» disse forte.
Vera alzò gli occhi al cielo e scosse
la testa per un attimo prima di sorridere; sgusciò fuori
dall'auto il più agilmente possibile e si strizzò
sotto l'ombrello accanto a Vittorio.
«Grazie» disse Vera. Gli
scoccò un bacio sulla guancia. «Ero sicura di
avere un ombrello in macchina, ma a quanto pare mi sbagliavo»
sbuffò.
«Poteva andare peggio» la
consolò Vittorio. «Pensa se ti fossi dimenticata
la gamba!»
«Divertente»
bofonchiò lei. I due si mossero cauti verso il portone,
attenti a non mettere i piedi in qualche pozzanghera, ed erano a
metà strada quando un movimento accanto all'ingresso del
palazzo accanto attirò la loro attenzione.
Vittorio non era certo di cosa avesse visto; Vera,
invece, doveva essersene fatta un'idea precisa, perché
schizzò in quella direzione a una velocità che il
carabiniere non si sarebbe mai aspettato.
«Vera?». A Vittorio occorse
qualche istante per rendersi conto che la ragazza si era lanciata in
avanti e scattare al suo inseguimento; quando la raggiunse, Vera stava
goffamente accovacciata accanto a un vaso. «Perché
con te si finisce
sempre
per stare sotto la pioggia?» brontolò.
Vera non lo degnò di uno sguardo:
continuò a fissare lo spazio esiguo tra il muro e il vaso, i
capelli e gli abiti bagnati incollati addosso, le mani tese, incurante
dell'acqua che continuava a inzupparla.
«Vieni, piccolino, vieni qui»
chiamò con voce dolce. Le rispose un miagolio profondo, e
finalmente Vittorio capì: quello che aveva intravisto poco
prima era un gatto alla ricerca di un riparo. Vera si
trascinò in avanti di mezzo passo. «Avanti,
piccolo, non ti faccio nulla: voglio solo aiutarti» disse
ancora in tono calmo. La testa tigrata di un gatto, col pelo fradicio e
gli occhi spalancati, fece capolino; annusò sospettoso le
dita della ragazza e si ritrasse in fretta, terrorizzato, quando il
rombo di uno tuono riempì l'aria. «Oh, hai paura,
lo so, ma se vieni fuori ti porto all'asciutto, tesoro, lo
prometto» lo esortò.
«È un gatto, ragazzina: non
può capire quello che gli dici» le fece notare il
carabiniere in quello che sperava fosse un tono ragionevole. Quando
Vera non si mosse, sospirò tra sé e
spostò l'ombrello in modo che la coprisse. «Per
quanto dovremo stare qui?» grugnì.
«Per tutto il tempo
necessario» replicò brusca Vera, lanciandogli una
rapida occhiataccia. «Avanti, micio, vieni fuori: lo so che
questo soggetto vicino a me sembra antipatico, ma non è poi
così male, te lo assicuro».
«Sempre gentile»
bofonchiò Vittorio, convinto che quel gatto non sarebbe mai
uscito dal proprio nascondiglio; solo un paio di minuti più
tardi, però, il felino lo smentì, facendo qualche
passo esitante verso Vera e lasciando che la ragazza lo prendesse in
braccio.
«Bravo cucciolo!»
esultò Vera; si sistemò il gatto sul petto e lo
coprì coi lembi della felpa che indossava prima di
rivolgersi al carabiniere. «Dai, Valenti, tirami su e andiamo
dentro».
L'uomo alzò gli occhi al cielo ma
eseguì, lieto di sfuggire al temporale; i due entrarono in
silenzio nell'androne e poi in ascensore, e appena Vittorio
aprì la porta di casa, Vera andò dritta verso il
divano e sedette a terra, con la schiena appoggiata al pezzo di mobilio.
«Ce l'hai un asciugamano
vecchio?» chiese Vera mentre tirava fuori il gatto dalla
felpa.
Vittorio non rispose; andò direttamente
in camera da letto e tornò con due asciugamani tra le
braccia. Porse alla ragazza quello scolorito, poi sedé sul
divano, aprì il secondo telo di spugna e lo gettò
sulla testa di Vera.
«Ehi!» protestò
lei, temporaneamente accecata.
«Zitta, Gamba Bionica: visto che tu
pensi solo ad asciugare quel gatto, io penso ad asciugare te... prima
che ti venga una polmonite» replicò il carabiniere.
Vera sbuffò ma non rispose: si
sistemò il randagio in grembo e iniziò a
strofinargli la pelliccia con delicatezza, mentre Vittorio faceva lo
stesso con i suoi capelli. Il micio non oppose resistenza: si
accoccolò contro lo stomaco della ragazza e si
lasciò asciugare, facendo le fusa.
«Povero piccolo»
mormorò Vera, senza smettere di tamponare l'animale con il
telo. «Guarda quant'è buono» aggiunse,
rivolta a Vittorio. «Devono averlo abbandonato: un randagio
non si lascerebbe tenere e toccare così».
«Sì, lo penso
anch'io» convenne Vittorio. Si mise a sedere a terra, accanto
a lei, e passò a strofinarle il collo e le spalle.
«Però, tutto sommato, è stato
fortunato: l'hai trovato tu».
«Io direi che è
più fortunato ad aver trovato un nuovo padrone che ama gli
animali almeno quanto me» ribatté Vera,
scoccandogli un'occhiata eloquente.
Vittorio rimase in silenzio per alcuni lunghi
momenti.
«Scusa?» disse infine,
incredulo.
«Se porto a casa un altro gatto, mio
padre mi ammazza» replicò Vera.
«Quindi stai dicendo che questo gatto
deve stare a casa mia?» insisté il carabiniere,
tanto per essere certo d’aver capito bene.
«Non possiamo mica buttarlo di nuovo in
mezzo alla strada!». Vera lo guardò implorante.
«Non lo adotteresti, Vittorio? Per me?»
Vittorio tentennò, poi
sbuffò, sconfitto.
«E va bene: hai vinto. Lui
resta» grugnì.
La ragazza gli rivolse un gran sorriso, lo
afferrò per la maglietta e gli stampò un bacio
sulle labbra. «Grazie, grazie, grazie!»
«Solo lui, però»
disse severo l’uomo. «Niente altri
randagi».
«Solo lui: promesso» gli
assicurò Vera.
Vittorio sbuffò di nuovo.
«Come se potessi crederci».
«Oh, smettila di brontolare»
lo rimproverò la ragazza, senza degnarlo di uno sguardo,
mentre frugava nella propria borsa; recuperato il cellulare,
iniziò a scrivere un messaggio a tutta velocità.
«Che fai?» indagò
Vittorio, sospettoso: l'ultima volta che l'aveva vista trafficare al
cellulare con tanto entusiasmo, si era trovato ad accompagnarla a un
appuntamento con un altro uomo, e non ci teneva affatto a ripetere
l'esperienza.
Vera scoccò un rapido sguardo alla sua
espressione e sorrise beffarda, quasi gli avesse letto in volto i
pensieri che gli passavano per la testa.
«Sto scrivendo a mia madre: ora che sei
il felice padrone di un gatto ti serviranno un po' di cose, e vista
l'ora non credo che farai in tempo a passare in un negozio, stasera. Io
ho qualcosa in più a casa e sto chiedendo a mamma di fare
una busta e avvertirla che tra...» diede un rapido sguardo
all'orologio da polso, «venti minuti passi a casa nostra a
prendere quella roba».
Il carabiniere inarcò le sopracciglia.
«
Passerò
a casa tua?» sottolineò.
«Non ho detto ai miei genitori che io e
te stiamo... che siamo...» Vera sbuffò,
«qualsiasi cosa sia, insomma. E non ho intenzione di farlo:
dopo tutte le volte che ci siamo azzuffati ci vorrebbero davvero
troppe, troppe,
troppe
spiegazioni che al momento non sono in grado di dare; quindi, per
quanto ne sanno loro, io sono da Giulia e
tu mi hai chiamata
per dirmi di aver appena salvato un gatto dalla strada e chiedermi se
posso prestarti qualcosa per il micio, fino a quando non potrai andare
a comprare quello che ti serve».
Le sopracciglia di Vittorio si sollevarono un po'
di più. «Hai pensato proprio a tutto»
esclamò bruscamente.
La ragazza lo fissò, anche lei con le
sopracciglia inarcate. «Valenti, gli affari nostri sono
nostri»
rimarcò. «E
no,
non mi vergogno di te, tonto» aggiunse spazientita.
Vittorio, che aveva aperto la bocca per replicare,
la richiuse e rimuginò per qualche istante sulle parole di
lei; dopodiché si alzò e sparì in
camera da letto per riemergerne un paio di minuti più tardi
con una felpa pulita addosso e un fagotto tra le mani.
«To'» disse secco, lanciando
il proiettile di stoffa in direzione di Vera e colpendola con
precisione in piena faccia. «Cambiati, mentre non ci
sono».
Vera sputacchiò indignata mentre
recuperava le cose che Vittorio le aveva appena tirato addosso: una
tuta da uomo, una maglietta in cui sarebbero potuta entrare comodamente
almeno due volte e una felpa enorme, asciutte e profumate.
«Dovevi proprio tirarmeli in
faccia?» domandò immusonita.
Vittorio prese le chiavi della macchina e quelle
di casa dal tavolo e scrollò le spalle, andando verso la
porta. «Se tu puoi insultarmi...»
«Se tu pensi una cosa stupida, come
faccio a non insultarti?» domandò lei in tono
ragionevole.
«Facile: ti mordi la lingua e conti fino
a dieci» replicò il carabiniere.
«Ma tu non lo fai mai!»
protestò Vera.
Vittorio scrollò di nuovo le spalle.
«Irrilevante» dichiarò, richiudendosi la
porta alle spalle.
Vera scrutò il punto in cui Vittorio
era sparito, incredula, poi si chinò a guardare il micio
ancora accoccolato sulle sue gambe e lo grattò sotto il
mento. «Tranquillo, piccolino, Valenti è matto
come sembra ma non è pericoloso».
«Guarda che ti sento!»
arrivò la voce di Vittorio, attutita dalla porta.
«Spione!» gridò in
risposta Vera.
Il carabiniere non replicò. La ragazza
sentì la porta dell'ascensore chiudersi e decise che, in
fondo, l'idea di Vittorio non era male: i vestiti fradici che indossava
erano diventati ancora più freddi di quanto già
non fossero, e al contatto con la pelle le davano una sensazione
sgradevole.
Mezz'ora più tardi, una Vera
infagottata negli abiti di Vittorio stava accoccolata sul divano e
guardava il gatto annusare con cura ogni angolo e ogni mobile della
stanza quando, con un fracasso tale da disturbare l'intero piano, il
padrone di casa fece ritorno.
«Mi sento un mulo da soma»
mugugnò l'uomo non appena mise piede nell'appartamento, due
grosse buste nelle mani. Alzò lo sguardo e vide Vera
sogghignare dal divano. «Ti sei messa comoda»
commentò.
Lei si strinse nelle spalle. «Il tuo
nuovo coinquilino sta esplorando la casa e io non avevo niente da
fare». Guardò Vittorio posare le buste vicino alla
porta e frugarsi in tasca con aria assorta. «Non è
che vuoi tirarmi di nuovo qualcosa in faccia, vero?» chiese,
sospettosa.
«Non in faccia, no: sarebbe un peccato,
rovinare una delle poche cose gradevoli di te» la
punzecchiò il carabiniere. «Aha!»
aggiunse trionfante, trovando ciò che cercava. «Al
volo, Gamba Bionica!»
Vera sbuffò, ma afferrò
comunque l'oggetto che Vittorio le aveva appena lanciato; perplessa,
osservò alternativamente il mazzo di chiavi che stringeva
tra le dita e l'uomo che gliel'aveva appena consegnato.
«Che cosa sono?»
domandò Vera.
Vittorio la fissò come se avesse avuto
di fronte una persona particolarmente stupida. «A te cosa
sembrano? Sono
chiavi».
«Lo vedo che sono chiavi»
replicò spazientita la ragazza. «Vorrei capire che
devo farci».
Il carabiniere tacque per un istante.
«Non me l'hai chiesto davvero» disse infine.
«Ti serve un manuale di istruzioni, Vera? Magari un
disegnino?» aggiunse sarcastico. «Sono
chiavi, e le chiavi
aprono»
proseguì lentamente, scandendo con cura ogni parola.
«Queste, nello specifico, aprono la porta d'ingresso, il
portone di sotto e la cassetta della posta».
Vera gli lanciò uno sguardo minaccioso.
«Smettila di trattarmi come se fossi stupida»
abbaiò, «e dimmi perché ho in mano le
chiavi di casa tua!».
Stavolta fu Vittorio a stringersi nelle spalle.
«A qualcuno dovevo lasciarne una copia, per qualsiasi
evenienza, e tu sei la persona che abita più vicina a me. E
poi, visto che mi hai appioppato un gatto, puoi passare a controllare
che non mi stia distruggendo casa, mentre sono al lavoro. E ancora, se
ci diamo appuntamento qui e arrivi prima di me, puoi entrare invece di
aspettarmi da sola per strada. Oppure, metti che io stia facendo la
doccia e non possa venire ad aprirti, non saresti costretta a stare
impalata fuori dalla porta in attesa che io finisca. O
ancora...»
«Ho capito!» esplose Vera.
«Non mi piace, ma ho capito!»
«E perché non ti
piace?» indagò lui.
Vera fece un buffo movimento con le spalle e la
testa.
«Non lo so» ammise
controvoglia. «È che avere le chiavi di casa di
qualcuno... è una cosa abbastanza intima, no? Ci vuole
fiducia» bofonchiò.
Vittorio gettò il resto delle chiavi
sul tavolo, si buttò a peso morto sul divano e nascose il
volto contro lo stomaco di Vera.
«Be', io mi fido di te»
dichiarò, la voce soffocata dalla felpa. L'espressione sul
volto di Vera si ammorbidì. «Però sei
noiosa e brontoli troppo».
Qualsiasi tenero sentimento avesse suscitato in
Vera la precedente dichiarazione di Vittorio fu spazzata via dalle sue
ultime parole. La ragazza piazzò le mani sul petto del
carabiniere e gli diede un violento spintone: lui rotolò
sulla schiena e cadde sul pavimento prima di poter capire cosa fosse
successo.
«Alzati, Valenti: dobbiamo sistemare le
cose per il tuo nuovo gatto e dargli da mangiare» disse Vera
in tono zuccherino, alzandosi e scavalcando con superba noncuranza
l'uomo ancora steso a terra. «Qui, micio, vieni!»
Gatto e donna sparirono in un'altra stanza;
Vittorio guardò il soffitto per un lungo momento e si chiese
come fosse finito a farsi maltrattare e dare ordini nella sua stessa
casa, prima di rimettersi in piedi e seguire gli altri due.
******
Quando Vera aveva detto a Vittorio che l'evoluzione del loro rapporto
non riguardava altri all'infuori, appunto, di loro, era stata sincera:
prova ne era il fatto che, solo tre giorni dopo quell'affermazione, era
in procinto di entrare nell'appartamento di Giulia senza alcuna
intenzione di rivelare il nuovo stato delle cose alla sua migliore
amica.
«Alla buon'ora» l'accolse la
padrona di casa. «Iniziavo a pensare che avessi dimenticato
dove abito!»
«Esagerata e drammatica come
sempre» tagliò corto Vera, già sulla
soglia della cucina.
«Dici?» replicò
Giulia, sarcastica. «L'ultima volta che ti sei fatta vedere
è stata al compleanno di Ludovica.
Venti giorni fa»
precisò.
«Ho avuto da fare»
replicò l'altra con grande dignità. Sedette e si
guardò intorno. «Be'? Il senso di
ospitalità e le buone maniere dove sono finite? Offrimi
almeno un caffè, donna!»
Brontolando, Giulia andò al lavello e
iniziò a preparare la caffettiera.
«Te la do io,
l'ospitalità» bofonchiò tra
sé, scuotendo la lunga chioma fulva. «Te la do io
l'ospitalità e pure il caffè: prima sparisce, poi
torna e pretende che le venga steso davanti il tappeto rosso...
insensibile e ingrata...»
Vera sorrise, divertita dalle scene di Giulia, ma
non parlò; aspettò che il caffè fosse
pronto e la sua migliore amica seduta vicino a lei, per farlo.
«La verità, Giù,
è che ho fatto un po' di fatica a tirare avanti, in questi
giorni» ammise mentre girava il cucchiaino nella tazzina, lo
sguardo fisso sul liquido scuro. «Non ero esattamente di
buonumore e ho litigato con alcune persone – litigato di
brutto, intendo – e... non so, non ero proprio di
compagnia» spiegò.
Anche Giulia fissò a lungo il proprio
caffè prima di alzare gli occhi e guardare l'amica.
«Perché non mi hai detto
nulla?» chiese, delusa. «Ci siamo sempre dette
tutto. Avrei potuto aiutarti... tirarti su di morale».
Vera sorrise di nuovo, stavolta debolmente.
«Credo sia ora che io ritrovi la capacità di
gestire i miei sbalzi d'umore da sola. Non posso contare sempre sugli
altri, per riuscirci: non va bene né per me né
per voi. E mi sto impegnando, però faccio ancora fatica e ci
metto più tempo di quanto sia normale, a ritrovare
l'equilibrio».
Giulia non rispose subito; si portò la
tazzina alle labbra e bevve un sorso con aria assorta. Fece una smorfia
quando il caffè ormai freddo le toccò la lingua e
appoggiò la tazzina sul tavolo come se le avesse fatto torto.
«Lo vedo che ti stai impegnando; lo
vediamo tutti, veramente» disse infine. «E,
Vè... col rischio di suonare presuntuosa... penso di aver
avuto ragione fin dall'inizio, a dire che Vittorio Valenti avrebbe
avuto un impatto positivo sulla tua vita».
L'altra sbuffò. «Hai ragione:
suoni presuntuosa, anzi,
sei
presuntuosa». Scrollò le spalle allo sguardo
piccato che le rivolse Giulia. «Per fortuna ci sono
abituata».
«
Comunque»
riprese pungente la padrona di casa, «persino Tiziano ha
dovuto darmi ragione, soprattutto dopo aver visto quanto Vittorio sia
stato premuroso nei tuoi confronti nell'anniversario dell'incidente, e
abbiamo pensato che sarebbe carino invitarlo a cena per instaurare un
rapporto amichevole e civile. Da parte di Tiziano, cioè,
perché io non gli sono mai stata ostile»
precisò.
Vera la fissò, un sopracciglio inarcato.
«Vorresti farmi credere che Tiziano
è riuscito a superare il fatto che Vittorio è
romanista?» domandò con evidente scetticismo.
«Ma quando mai»
sbuffò Giulia. «Continua a lagnarsi dicendo che
è crudele da parte mia pretendere che fraternizzi col
nemico, ma
è davvero l'unica cosa di cui si lamenta... e credo che
ormai lo faccia più per partito preso che per una reale
convinzione».
«Tu sottovaluti il suo antagonismo da
juventino verso alcune squadre» commentò Vera.
«
Tu
sottovaluti il mio potere di rendergli la vita un inferno»
replicò Giulia, leggera.
L'ex ginnasta si strozzò con la propria
saliva.
«Sei perfida»
riuscì a dire tra un colpo di tosse e l'altro.
Giulia scrollò le spalle, indifferente.
«Uso le armi che ho a disposizione...»
«... per costringerlo a fare a modo
tuo» concluse Vera per lei. «Come ho detto, sei
perfida. Ma, in fondo, basta tenerli lontani quando Juve e Roma giocano
una contro l'altra».
«Come ti pare» disse l'altra
con fare sbrigativo. «Allora, quando la facciamo questa
cena?»
Vera alzò gli occhi al cielo. Non
riusciva a crederci: com'era possibile che Tiziano avesse deciso di
tollerare Vittorio, e Giulia di includerlo nella loro cerchia di
amicizie, proprio nel momento in cui il suo rapporto col carabiniere
stava cambiando e lei desiderava tenere la cosa per sé, in
attesa di capire come si sarebbe sviluppata la situazione? Se non
avesse avuto la certezza assoluta che Giulia fosse all'oscuro di quanto
accaduto pochi giorni prima, avrebbe scommesso che quella fosse
l'ennesima trovata dell'amica per irritarla a morte.
«Più avanti, Giù:
più avanti» borbottò sconfitta.
******
Più tardi in quello stesso pomeriggio, Vera, sbrigate alcune
commissioni, si ritrovò nel condominio in cui abitava
Vittorio, e più precisamente nell'ascensore: dopo aver
citofonato quattro volte a vuoto, infatti, aveva ricevuto un messaggio
dal carabiniere, che la esortava a usare per la prima volta quel mazzo
di chiavi che le era stato graziosamente consegnato solo settantadue
ore prima. Vera non era affatto convinta che fosse appropriato, entrare
in casa d'altri come se fosse stata la propria; soltanto un secondo
messaggio di Vittorio – con cui l'uomo le aveva detto
chiaramente che la scelta era tra usare le chiavi e restare impalata
fuori dal portone – l'aveva persuasa a cedere.
Quando finalmente varcò la porta
d'ingresso, Vera capì all'istante il perché di
tale insistenza.
«Lo sapevo! Lo sapevo che c'era un altro
motivo, per darmi le chiavi di casa tua!» sbottò
la ragazza: Vittorio era spaparanzato sul divano, con la gatta
– avevano scoperto che era una femmina mentre la lavavano e
spazzolavano – accoccolata sul suo petto a fare le fusa.
«Sei pigro, ecco cosa!»
«L'ho fatto per Estia»
tentò di discolparsi il carabiniere, indicando la gatta.
«Ha ancora bisogno di essere rassicurata e non volevo
lasciarla sola».
«Ma se la lasci sola per andare al
lavoro!» ribatté Vera.
Vittorio ebbe il buongusto di mostrarsi almeno un
po' imbarazzato. «Non volevo lasciarla sola
più del necessario»
si corresse.
«Come no» sbuffò
Vera; andò a sedersi sul divano, accanto allo stomaco di
Vittorio, e accarezzò il felino. «Estia,
eh?» ripeté, lo sguardo malandrino.
L'uomo si strinse nelle spalle, o almeno ci
provò. «Mi piaceva l'idea di continuare la tua
tradizione, e lei non prova neanche ad avvicinarsi alla porta: sta bene
in casa, al caldo. Quindi Estia, la dea del focolare
domestico».
«Sì, direi che è
appropriato» convenne Vera con un sorriso.
Accarezzò di nuovo Estia e prese un sacchetto dalla borsa.
«Piccolina, che ne dici di uno scambio? Io ti do una
caramella all'erba gatta e tu molli questo pigrone». La gatta
annusò freneticamente l'aria, attirata dal sacchetto; Vera
lanciò un paio di snack sul pavimento, ed Estia
balzò giù dal petto di Vittorio per correre
all'inseguimento dei dolcetti.
«Vieni qui». Senza perdere un
istante, Vittorio afferrò la ragazza e se la tirò
sul petto, costringendola a sdraiarsi su di lui, poi nascose il volto
nell'incavo del collo di lei.
Nonostante fosse in equilibrio precario, Vera
sorrise.
«Hai carenze d'affetto,
Valenti?» chiese, divertita.
«Sì» rispose lui,
la voce soffocata; Vera poteva sentire la sua bocca muoversi contro la
propria pelle mentre parlava. «E visto che hai mandato via
Estia, adesso tocca a te farmi sentire amato e coccolato. Anche se
penso d'averci perso, nel cambio».
Sebbene Vittorio non potesse vederla, la ragazza
inarcò un sopracciglio.
«Stai mettendo in dubbio la mia
capacità di fare le coccole?»
«Non oserei mai»
replicò Vittorio. «Solo che prima avevo addosso
una gatta, mentre adesso...»
«Mentre adesso?» lo
incalzò Vera.
Il carabiniere si staccò da lei quel
tanto che bastava per guardarla negli occhi.
«Be', più che un gatto, tu mi
ricordi una tigre dai denti a sciabola» dichiarò.
La ragazza sorrise di nuovo e scosse la testa.
«Che ci esci a fare con me, se sono una bestia
feroce?»
«Amo il pericolo»
sogghignò Vittorio in risposta.
Rapidissima, Vera girò la testa e morse
il braccio di Vittorio; lui gemette di dolore.
«Non mi mordere!» si
lagnò. «Sono delicato io, cosa credi?»
«Non eri tu quello che due secondi fa
amava il pericolo?» ridacchiò Vera.
«Stai abbracciando una tigre: dovevi aspettarti qualcosa del
genere. E comunque tu sarai delicato il giorno in cui io mi
metterò alla guida ubriaca».
«Tu non ti metterai
mai alla guida
ubriaca» replicò all'istante Vittorio.
Stavolta fu Vera a sogghignare.
«Appunto».
L'uomo la strinse di nuovo tra le braccia e per
buona misura avvolse una delle proprie gambe intorno a quelle di lei
prima di chiudere gli occhi.
«Shhht: smettila di ruggire»
mugugnò.
Vera lanciò uno sguardo all'orologio da
polso. «Non dovevamo andare a cena e poi al
cinema?». Vittorio bofonchiò qualcosa di
incomprensibile e lei gli punzecchiò le costole con un dito.
«Inutile grugnire: è un'idea tua» gli
ricordò.
«Tra dieci minuti mi alzo»
borbottò il carabiniere.
«Tra dieci minuti sarà
tardi» replicò Vera.
Vittorio aprì un occhio solo.
«Otto?»
«Cinque» rilanciò
la ragazza.
«Cinque e un bacio: è la mia
ultima offerta» offrì Vittorio.
«Che è un altro modo di dire
dieci minuti» sbuffò Vera. L'uomo le
scoccò uno sguardo ardente e lei sorrise suo malgrado.
«Vorrà dire che faremo tardi»
ridacchiò un istante prima che Vittorio le catturasse la
bocca con la propria.