Non
gli è mai piaciuta, la pioggia. Quando la sente scivolare
lungo il corpo, gli ricorda le gocce di sudore delle partite giocate in
passato, partite che non ha mai amato, che non gli riportano alla mente
alcun gioioso ricordo.
No, decisamente non gli piace, quell’accozzaglia
d’acqua sparsa alla rinfusa. Eppure adesso se la ritrova tra
capo e collo, nel vero senso della parola. Cammina a passo svelto,
affrettandosi per i marciapiedi consunti e scivolosi, speranzoso di
poter sfruttare la sporgenza delle balconate degli edifici per evitare
d’infradiciarsi più di quanto già non
abbia fatto.
“Vaffanculo” impreca, innervosito, “non
dovrebbe nevicare, piuttosto?”
Sa per certo che se le nuvole potessero rispondergli, probabilmente lo
prenderebbero per il culo, perché non vi è
assolutamente nulla di sensato nell’uscire di casa, mentre in
TV la tipa delle previsioni continua col suo sermone
sull’allerta meteo, consigliando a tutti di rimanersene al
caldo con quella vocina dannatamente fastidiosa, così
fastidiosa da fargli schiacciare il pulsante rosso del telecomando solo
per ritrovare un po’ di religioso silenzio.
Viene richiamato di sfuggita dall’ambiente intorno a lui,
pieno di ghirigori natalizi da fargli venire la nausea: sul serio,
quelle luci sono davvero troppo
intermittenti, non riescono a stare ferme, sembrano fatte apposta per
indurgli una crisi epilettica. Accanto ai negozi nota la presenza
d’inquietanti Babbi Natale che sorridono fissando il vuoto,
mentre altre vetrine – probabilmente troppo poco rinomate per
poter avere il proprio Claus personale – si accontentano
della banalissima renna di cartapesta, quella col naso rosso, ovviamente. Non sia
mai si trattasse di una renna normale.
Nonostante quel clima terribilmente materialista e pieno di pacchetti
dalle tonalità più improbabili – color
carta da zucchero, mah
–, a lui il Natale è piuttosto indifferente,
altrimenti non sarebbe mai stato in grado di aggirarsi così
tranquillamente per una città presa dalla follia degli
ultimi acquisti. Cazzo, la gente si venderebbe anche un rene, pur di
fare tutti i regali che si è prefissata.
Cammina con sempre maggiore foga, sente i piedi fare un terribile cic-ciac a contatto
con l’acqua dentro le scarpe sporche di fango: i calzini di
spugna sono ormai ridotti ad una groviera, mentre avverte
l’accumulo di pioggia avvizzirgli gli alluci e intorpidirgli
le falangi.
“Va’ al diavolo, Kagami” borbotta,
cercando disperatamente il campanello con il cognome del rivale. Lo
trova, e col pollice rugoso s’attacca ad esso come un
venditore porta a porta disposto a tutto.
Una voce assonnata risponde: “Chi è?”
“Tua madre” sbotta l’asso della Tōō,
scrollando il capo nel vano tentativo di liberarsi delle gocce che
scendono copiose a bagnargli il volto. “Anzi, tua madre a
novanta.”
“Aomine.” Sente il rosso sbadigliare rumorosamente
dall’altra parte del citofono. “Che sei venuto a
fare?”
“Aprimi, testa di cazzo, sto per diventare un fottutissimo
fazzoletto raggrinzito!” impreca, innervosito, “e
poi sei stato tu a chiamarmi, idiota!”
“Ah, già.”
Ah, già.
L’indaco stringe il pugno nella mano, mentre la vena che gli
pulsa frenetica sulla tempia manifesta la sua improvvisa smania di
uccidere l’interlocutore insonnolito. Sono più fradicio del
Titanic e tutto quello che lui ha da dire è “Ah,
già”.
Il rumore del portone sbloccato gli ovatta le orecchie, distogliendolo
dall’odioso motivetto natalizio che sente provenire dal
gabbiotto del portiere stravaccato sulla sedia pieghevole –
dannazione, già che c’era poteva aprirgli lui,
maledetto panzone.
Si fionda sui gradini, poi un dubbio lo assale. Ma a che cazzo di piano abita?
Si guarda attorno, osservando i nomi sui campanelli. Suzuki, Tanaka,
Kimura… Dannazione.
Imprecando ancora una volta, sale le scale a due a due, sperando che
Kagami abbia socchiuso la porta per invitarlo silenziosamente ad
entrare. Se così non fosse, dovrà rifarsi tutti i
piani. E il senpai che si preoccupava di non vederlo agli allenamenti.
Arriva al quattordicesimo piano, zuppo tra l’acqua piovana
che ancora gl’inumidisce il giubbotto e il sudore che sente
sull’epidermide accalorata dal troppo movimento e dal
maglione infeltrito che gli pizzica la pelle bronzea. Se si misurasse
la temperatura in quel momento, probabilmente il termometro
esploderebbe. Giunge trafelato ad un uscio semiaperto, speranzoso di
leggere sul campanello il cognome che tanto desidera vedere. Quando
posa lo sguardo su di esso, non vi è alcuna dicitura. Quella
potrebbe essere la centesima volta che bestemmia contro il rivale.
Preme sonoramente le nocche delle dita contro la porta blindata,
infischiandosene che possa trattarsi dell’appartamento di
un’altra persona: ha caldo, sete e sarebbe anche disposto ad
intrattenersi a casa di uno sconosciuto, per quanto gli riguarda. La
voce profonda che segue, gli lascia intuire di essere nel posto giusto.
“Entra.”
Quando raggiunge il rosso nel piccolo soggiorno, si è tolto
praticamente tutto di dosso.
“Ohi!” sbotta l’asso della Seirin,
“che diavolo stai facendo?” Lo ignora
deliberatamente, mentre si leva le scarpe gocciolanti ed i calzettoni
che lasciano intravedere il piede ormai ridotto ad un puzzolente
acquitrino. Kagami lo fissa, stranito. “Sei andato a
pescare?”
“Piantala, e dammi qualcosa per potermi asciugare.”
L’indaco lascia cadere distrattamente sul divano il cappotto
e il maglione, rimanendo con una sudaticcia canotta bianca.
“E dammi qualcosa da indossare.”
Il rosso gli si avvicina, cercando di non fare caso a
quell’orrendo fetore che gli fuoriesce dai piedi stropicciati
dalla troppa umidità. “Vatti a fare una doccia.
Puzzi come una carogna.”
“Ti manderei a fare in culo, se non dovessi usufruire del tuo
bagno” lo ammonisce, mentre vede Kagami trafficare dentro
l’armadio per cercargli dei vestiti puliti.
“Tieni.” Glieli passa. “In bagno trovi
gli asciugamani.”
“Ma davvero?” Se ne va, portando con sé
il suo sarcasmo. Quando giunge alla toilette, si sorprende di trovarla
così stranamente in ordine. Non ha mai creduto che Kagami
potesse essere una buona colf.
Si sfila via la cintura dai passanti del jeans, mentre apre con foga i
bottoni: ciò che vuole è solo togliersi di dosso
quella tremenda puzza stantia. Si butta in doccia, lasciandosi
finalmente permeare dalla magnifica sensazione dell’acqua che
dilava via l’orribile tanfo, mentre fa scorrere le dita tra i
corti fili bluastri per lavarseli con lo shampoo da quattro soldi
trovato sulla mensola ancorata alla parete della doccia.
Esce mezz’ora più tardi, con dei pantaloni della
tuta e una canotta. Si strofina i capelli con l’asciugamano,
buttando l’occhio ad un Kagami intento a scrostare le padelle
accumulatesi nel lavabo.
“Così abiti qui, eh?” gli chiede
retoricamente, mentre s’aggira attorno alla mobilia semplice
e moderna, impreziosita da piccoli ninnoli d’ottone e vetro.
“Perché mi hai fatto venire?”
“Per ridarti le scarpe.”
“AH?!” Ha fatto tutta quella strada per un motivo
tremendamente stupido. È ancora indeciso su chi sia il
coglione, tra i due.
“Non credevo saresti venuto oggi, francamente” si
giustifica il rosso, sospirando, “con una tempesta simile
solo un idiota sarebbe venuto fin qui.”
Deve ammetterlo, forse è davvero lui, il coglione. Sospira,
stravaccandosi sul divano. “Dammi cinque minuti, poi me ne
torno a casa” risponde, poi continua: “E per quanto
riguarda quelle scarpe… puoi tenerle.”
“Ne sei sicuro?”
“Sì, ne ho da buttare.” Aomine si lascia
sfuggire un ghigno compiaciuto. “D’altronde, ti
hanno portato fortuna.”
Avverte il sobbalzare delle molle del divano: il padrone di casa si
è seduto accanto a lui, ancora visibilmente spossato per la
partita vinta il giorno prima. Ammette di sentirsi un po’ a
disagio, mentre vede tutto quel lussuoso openspace pullulare di oggetti
che richiamano all’attenzione la passione della persona che
gli sta seduta di fianco; tutto, in quell’ambiente, sembra
voler urlare «amo il basket».
“Kagami” lo chiama, incuriosito,
“perché giochi a basket?”
“Non c’è un
perché.” Lo vede socchiudere gli occhi, mentre
accenna un mezzo sorriso. “Gioco e basta.”
“Tutti hanno un motivo per farlo.”
“Andrebbe bene se dicessi che gioco per me stesso?”
“Suppongo di sì.”
“Ok, allora è come ho detto.”
Aomine sbuffa, seccato dal modo monosillabico con cui gli risponde.
Cazzo, non ha mica fatto tutta quella strada per niente.
“Ancora non posso credere che tu abbia fatto tutta questa
strada per niente.” Ecco.
Come volevasi dimostrare.
“La colpa è tua, imbecille” gli fa
notare, incrociando le mani dietro la nuca, “la prossima
volta avvertimi che non è nulla di urgente.”
“Bastava chiederlo, idiota.”
Loro sono così: rivali dal primo sguardo, non riescono a
trovarsi nella stessa stanza senza litigare. Non è certo il
clima natalizio, ciò che potrebbe farli desistere
dall’intento di azzannarsi alla gola. In realtà
deve ammetterlo, un po’ l’atteggiamento sfrontato
del rivale gli va a genio, lo fa sentire a suo agio sapere che
c’è qualcuno in grado di tenergli testa. Perfino
perdere contro di lui, per certi versi, è stato appagante:
ha potuto riscoprire una parte di sé stesso che credeva
ormai perduta. Kagami è di certo singolare, deve
riconoscerlo.
“Ti sei dovuto sbolognare i canti natalizi?” si
sente domandare, con quella voce del cazzo che fa ogni volta che lo
sbeffeggia.
Sbuffa ancora. “No, a parte quel tristissimo Tu scendi dalle stelle
che ascoltava l’obeso all’ingresso.”
“Non ti facevo tipo da Natale.”
“Non lo sono” s’affretta a dire,
“non so come funzioni in America, ma qui se non stai attento
ti ficcano canditi persino su per il buco del culo.”
Lo sente ridere, mentre si alza e torna verso la cucina. È
strano, ma la sua risata gli piace. È così
naturale e spontanea da fargli dimenticare per un istante di quanto
siano prive di gusto le sue battute.
Imita il rivale, vagando con lo sguardo in cerca del giubbotto che ha
lasciato prima sulla penisola del divano. Kagami gli fa un cenno con la
mano. “L’ho messo ad asciugare
lì.”
“Credi si sia asciugato?”
“Vai a controllare, cretino.” Simpatico come sempre.
Tasta con la mano il tessuto semimpermeabile, constatando la sua
asciuttezza. Lo sfila dal termosifone, facendo scorrere il braccio
nella prima manica, mentre butta distrattamente un occhio
all’orologio che segna le otto e venti di sera: forse fa
ancora in tempo a prendere il treno delle nove, evitandosi
l’ennesimo viaggio della speranza. S’infila con
noncuranza le mani nelle tasche ancora leggermente inumidite. Un
po’ – forse – gli dispiace andarsene, in
fondo a casa sua non ha nulla da fare e rabbrividisce al solo pensiero
che Satsuki possa trascinarlo in giro per i negozi addobbati, mentre
fuori ancora imperversa il temporale.
“Allora io vado” dice.
“Ok. Fai attenzione.”
“Per chi mi hai preso?” È irritato, ma
non ne comprende il motivo. O meglio, lo comprende ma il suo inconscio
tace.
Fa per uscire, sta per richiudersi la porta alle spalle, ed
improvvisamente la sente: è una telecronaca inglese, lo
capisce perché non ha mai capito un cazzo di quella lingua.
“Ohi” richiama il rivale, voltandosi indietro,
“che guardi?”
Gli occhi rubicondi del talento lo fissano perplessi. Sembra davvero
che stia trovando un motivo come un altro per ritardare il suo ritorno
a casa, e tuttavia spera che Kagami non sia così
intelligente da capirlo. Inaspettatamente si ritrova a vederlo
sorridere: “È la NBA TV.”
Aomine sbarra gli occhi, posandoli affascinati sullo schermo del
televisore al plasma. “E tu come diavolo fai a
vederla?”
“Semplice” gli risponde, “sono abbonato
da una vita. Ho un account premium.”
“Sei una merda umana!” Il miracoloso asso si porta
a sedere vicino al rosso, visibilmente irritato.
“Perché diavolo non mi hai mai detto
niente!?”
“Ma che razza di spunto di conversazione vuoi che sia, dire
che ho un account premium per guardare la NBA?!”
“Non c’entra una sega, avresti dovuto dirmelo
comunque!” Gli sfila via dalle mani il telecomando, premendo
il pollice sul tasto info per sapere chi giocherà quella
sera. Lo sguardo gli ricade sulla bianca scritta in sovrimpressione: Boston Celtics vs. Los Angeles
Lakers. Per la miseria. “Che cazzo di
scontro!”
Non è mai stato così emozionato di vedere una
partita prima di quel momento: di solito finisce quasi sempre per
rinunciare a vederle in streaming, poiché il maledetto
buffering non fa che stoppargli l’incontro ogni cinque
secondi.
“Vuoi vederla?”
L’indaco rimane impassibile, celando la sua fin troppo
evidente euforia. “Beh, se non ti va di guardarla da solo,
posso anche farti compagnia.”
“Dì che vuoi rimanere e falla finita.”
Kagami gli molla un ceffone sulla nuca, voltandosi verso il finestrone
che lascia intravedere l’inizio della tremenda fioccata.
“E poi fuori ha iniziato a nevicare di brutto.”
“Difficile immaginarlo” borbotta l’altro,
mentre volge l’attenzione ai ventitré gradi
segnati rigorosamente sul termostato dell’appartamento.
Gli applausi che sentono giungere dall’apparecchio
elettronico li fanno tornare alla partita, mentre si sistemano alla
bell’e meglio sul divano: Aomine precede il rivale,
stravaccandosi sulla penisola, mentre Kagami fa una rapida ronda in
cucina.
“Vuoi un thè?” si sente domandare.
“Chi sei, mia nonna?” Si alza dal divano e gli si
affianca, strappandogli di mano il cartone con dentro le bustine,
“che diavolo è questa brodaglia?”
Lo vede distogliere lo sguardo, improvvisamente in imbarazzo. Aomine
focalizza l’attenzione sull’etichetta posta sul
retro della confezione: tisana
rilassante, aiuta a distendere i nervi e favorisce un sonno sereno.
Gli scappa da ridere, ma si trattiene, portandosi una mano alla bocca.
“Sei il peggiore, Kagami.”
“Che c’è?!” sbotta
l’altro, strappandogli l’involucro dalle mani,
“non posso mica rimanere sveglio prima di ogni
partita!”
“Non c’è nulla di meglio?”
“Ad esempio?”
Aomine si guarda in giro, aprendo a caso le antine della credenza e
cercando qualcosa che abbia un minimo sapore. Afferra la piccola
scatola nascosta dietro i cereali al farro, legge il cartellino, poi si
volge verso il rosso. “Questa può andar
bene.”
Kagami scruta con attenzione la custodia. “È
cioccolata calda.”
“E allora?”
“Non la so preparare” ammette, facendo spallucce,
“l’ha comprata Alex, ma non l’ha mai
cucinata.”
L’indaco si schiaffeggia la faccia: potrà anche
essere un asso nel basket, ma per la vita è davvero negato.
“Come cazzo ho fatto a farmi battere da te?”
mormora, mentre il rosso inizia a imprecargli contro. “Non
importa. Ci penso io.”
“Cosa ti serve?”
“Un pentolino e un po’ di latte.”
Il talento della Seirin apre il frigorifero, cacciando fuori il cartone
con sopra la mucca sorridente. “Non so quando
scade.”
Aomine cerca la data incriminata, quella talmente piccola da fargli
rigirare ogni volta la confezione tra le mani per riuscire a beccarla.
La trova: da consumarsi
preferibilmente entro il 22/12.
“Scade oggi” sghignazza, com’è
solito fare quando è divertito, “tempismo
perfetto.”
☕
Giunge
nel soggiorno, Kagami è già posizionato con le
gambe incrociate attorno ad un cuscino: gli ha lasciato la penisola,
buon per lui. Gli passa la tazza fumante, quella brutta, con sopra un
vischio che avrebbe potuto disegnare anche un bambino di quattro anni e
la scritta Kiss Me! ornata
con quei fastidiosi glitter che ti si appiccicano alle mani per mesi.
“Sul serio” gli dice, “comprati qualcosa
di meno agghiacciante, la prossima volta.”
Il rosso sbuffa, innervosito. “Ti pare possibile che possa
aver comprato una cosa tanto oscena?”
“La tettona?”
“Già. Lei e le sue manie sul Natale.”
La partita deve ancora cominciare, mentre attendono pazienti il fischio
d’inizio. Aomine rimane quieto a fissare il lussuoso open
space: non c’è dubbio, deve essere davvero ricco
fino al midollo per potersi permettere un appartamento di quelle
dimensioni. Vorrebbe tanto chiederglielo, ma non ha studiato abbastanza
l’etichetta sociale per comprendere se sia una domanda da
fare o meno, perciò desiste dall’intento,
focalizzandosi sul tabellone che appare in TV, quello che segna il
punteggio delle squadre e il tempo a disposizione per ogni quarto.
“Kagami” lo chiama, “per chi
tifi?”
“Boston Celtics.”
“AH?!” Peggiore notizia di quella non poteva
capitargli. Non solo non tifa Lakers, ma parteggia per la squadra che
odia di più.
“Non avevo dubbi che tifassi per i Lakers, Aomine”
gli risponde, sul volto reca un’espressione divertita che
l’indaco prenderebbe volentieri a schiaffi,
“d’altronde, immaginavo avessi un debole per le
squadre in declino.”
“Crepa!” Gli molla un cazzotto sulla fronte.
“Questa volta ti faranno il culo, vedrai!”
“Non hanno alcuna speranza.”
“Scommettiamo?” Non sa neanche da dove gli sia
uscita quella richiesta, ma lo sguardo del suo interlocutore
s’infiamma, mentre le pupille circondate dal fuoco vermiglio
si rimpiccioliscono impercettibilmente.
“Va bene.” ‘Fanculo. Pensava che avrebbe
rifiutato.
E se ne stanno lì, a bisticciare maldestramente per
appropriarsi della coperta che avvolge le loro gambe, mentre la
fioccata decisa imbianca il tegolame dei tetti; fuori è
freddo, ma Aomine non si è mai sentito così
riscaldato in vita sua: è una strana emozione,
quell’afa che gli avvolge il cuore senza farlo sudare.
Decisamente non ci è abituato, ragiona mentre nella sua
testa si susseguono le immagini sfocate della loro ultima partita.
Dannazione, dovrebbe davvero odiarlo, eppure in quel momento
l’unica cosa che riesce a pensare è che gli piace
stare lì, a guardare la tv con lui.
Si volta a fissare lo sguardo concentrato del rosso, illuminato dal
debole luccichio dello schermo, mentre l’ambiente intorno a
loro si rischiara e scurisce ad ogni intermittenza delle luci
natalizie. Sente l’aroma del cioccolato farsi strada tra le
sue narici, e ancora una volta la familiarità di quella
scena che non ha mai vissuto gli ricorda che col rivale non vi
è mai nulla di scontato. Persino in quel momento, si sente
come se avesse perso ancora una volta contro di lui. Una sconfitta
dolce, che lo strappa via dal ghiaccio che gli serra il petto.
Scrolla il capo, ritornando in sé. Discorsi così
non li ha mai sentiti neanche dalle eroine degli shoujo manga.
Patetico.
“Ohi” si sente chiamare, “hai ancora
l’acqua nelle orecchie?”
“No, perché?”
“Allora piantala di scuotere la testa.”
Aomine gli ghigna in faccia, stranamente soddisfatto.
“Davvero basta così poco per attirare la tua
attenzione, Kagami?”
“No” gli risponde, distogliendo lo sguardo,
“è che sono ormai abituato a tenerti
sott’occhio. È un’abitudine.”
Socchiude la bocca per la sorpresa. Non l’ha detto affatto
con malizia, eppure non può fare a meno di sentire quelle
parole rimbombargli tra le pareti del cranio.
È
un’abitudine.
Come dargli torto. Hanno passato così tanto tempo a
studiarsi lì, sul cerchio di metà campo dove
adesso i giocatori attendono pazienti il fischio d’inizio,
che neanche si ricorda quando ha cominciato a provare nuovamente
l’appagante sensazione dei muscoli in tensione, il fiatone
pronto a conquistare ogni lembo della sua bocca, la spinosa sensazione
di non riuscire a vincere. Si sorprende di come appaia limpido il volto
del rivale nella sua mente: l’ha visto così tante
volte spaesato, concentrato, preoccupato, arrabbiato. Potrebbe
descriverlo alla perfezione senza neanche il bisogno di vederlo ancora
una volta. È per questo che, anche senza volerlo, gli
è così familiare.
Gli echeggia nelle orecchie il fischio prolungato, mentre i piccoli
omini schiacciati dalla tv al plasma iniziano a giocare. Meglio finirla
con quelle stupide elucubrazioni.
“Il possesso palla è dei Lakers.”
“Togliti quello stupido ghigno dalla faccia,
coglione.”
I movimenti dei giocatori sono fluidi e privi di errori, lo scontro
continuo tra le due ali grandi rimarca la netta differenza che
intercorre tra loro e i talenti della NBA. A guardare la partita
sembrano davvero due stupidi mocciosi, in confronto alla straripante
potenza di anni passati a giocare in squadre facoltose come quelle.
Rimangono incatenati allo schermo, così presi dalla partita
da non accorgersi di null’altro: sono oramai seduti sul
grande tappeto ai piedi del divano, spartendosi in malo modo la coperta
e con le mani riscaldate dalle tazze ancora ricolme di cioccolata, che
sorseggiano di tanto in tanto non appena riprendono fiato.
“Al Horford è una bomba.” Si volta a
fissare gli occhi luccicanti del rivale, perso ad ammirare il cestista
dei Celtics.
“Più che altro è una bestia.”
“Quanto sarà alto?”
“Due metri e qualcosa.” Aomine trattiene a stento
una risata. “In confronto, tu sembri quasi carino.”
Schiva all’ultimo un ceffone di Kagami che mirava alla sua
nuca. Dannazione, quanto è suscettibile quel ragazzo.
Un altro fischio prolungato rende valido il canestro appena raggiunto
dall’ala grande dei Lakers, rendendo l’indaco
particolarmente infervorato dall’improvviso vantaggio della
sua squadra del cuore. Presto, si ritrovano nuovamente a sbraitare come
due dannati contro il televisore, ignari del fatto che nessuno dei
giocatori presenti su quel campo possa sentirli.
Ma che cazzo sto
facendo?
si ritrova a pensare.
È a casa del suo arcinemico, circondato
dall’intimità di quell’appartamento a
luci spente, mentre i led natalizi creano per brevi istanti una luce
soffusa, la quale a stento gli permette di vedere
l’espressione emozionata del rosso, che se ne sta incollato
alla partita come un bambino in trepidante attesa di Santa Claus.
Non gli piace particolarmente il Natale, e non l’ha mai vista
quell’atmosfera lì, con la neve che cade sempre
più prepotente a imbiancare tutto intorno a sé e
la tazza di cioccolata intiepidita ancora stretta tra le mani.
È qualcosa che chiamano serenità, o almeno
così gli pare di sentirsi. Il sentimento più
patetico che possa mai provare, nei confronti della persona che
dovrebbe più disprezzare.
Eppure, mentre lo vede strapparsi i capelli per la frustrazione di non
riuscire a vedere la sua squadra segnare, Aomine non riesce a smettere
di sorridere.
☕
Los
Angeles Lakers
Boston
Celtics
107
104
Non
è proprio in grado di toglierselo, quel ghigno divertito
dalla faccia; persino lui pensa che se dovesse guardarsi allo specchio
si prenderebbe a schiaffi, per cui non riesce affatto a sorprendersi
dell’incredibile frustrazione dipinta sul volto del rivale,
così perplesso del risultato da risultargli innocentemente
sconvolto.
“Non metterti a piangere, sarebbe imbarazzante” lo
canzona, mentre il rosso gli lancia un’occhiata che ha tutta
l’aria di volerlo zittire.
“Non ci posso credere” lo sente borbottare,
“francamente non li credevo capaci di tanto.”
Neanche io ti credevo
capace di tanto, vorrebbe tanto rispondergli, eppure tu sei ancora nella
Winter Cup, io no.
È frustrante, e rassicurante al tempo stesso. “Non
sempre vince chi è più forte.”
“Fammi segnare questo giorno sul calendario” lo
canzona Kagami, che prima di quel momento non si sarebbe mai aspettato
che una frase simile uscisse davvero dalla bocca del miracolo.
“Piantala, idiota. È una cosa naturale.”
“Cosa?”
Non vuole esporsi più di tanto, specie con una persona che
sa di dover rincontrare sul campo, un giorno. Non dovrebbe sentirsi in
quel modo, eppure di fronte a sé, per qualche malizioso e
bizzarro motivo, non riesce più a figurarsi il rivale. Serra
impercettibilmente la mascella, implorando la propria lingua di non
mettersi così a nudo proprio di fronte a lui, ma fallisce.
Sospira, grattandosi nervosamente la nuca. “Non è
importante vincere, alla fine dei conti.”
Il rosso sbarra gli occhi, sorpreso. Aomine sbuffa, continuando:
“Voglio dire, tu sei una pippa pazzesca. È ovvio
che sia io il più forte.”
“OHI!” Kagami vorrebbe mandarlo al diavolo, ma
qualcosa nello sguardo nostalgico dell’indaco lo fa desistere
dal proposito d’interromperlo ulteriormente.
“Non avresti avuto alcuna speranza in un uno contro
uno… eppure… tu hai vinto, ed io no.”
L’asso della Tōō cerca lo sguardo del rivale, acerrima
antitesi di tutte le loro silenziose battaglie. “Quello che
sto cercando di dirti, razza d’imbecille, è che tu
hai voluto vincere, l’hai voluto davvero. Per certi versi,
ripensare a te quel giorno, mi fa venire ancora i brividi.”
“Aomine…”
“Non è sentimentalismo, il mio. Perciò
non ti azzardare a indorarmi la pillola, mi stanno davvero sul cazzo le
persone che lo fanno.”
S’accorge che il rosso non sa davvero cosa dirgli, ma
d’altronde se lo aspettava. Sono entrambi incapaci di gestire
le proprie emozioni, per cui non vi è mistero che il rivale
non sia il tipo in grado di reagire ad un simile discorso. Continua a
fissarlo, lasciandosi sfuggire uno strano sorriso: non è il
suo solito ghigno, poiché gli zigomi non sono spigolosi, ma
leggermente arrotondati. Perfino il blu dei suoi occhi è
meno ottenebrante.
Nello zaffiro di quello sguardo, Kagami riesce a vedere tutto
più chiaramente, tanto da rimanerne intimidito.
“Ohi! Piantala di dire cose simili, tu e il tuo fottuto
bipolaris-”
Sente le mani dell’indaco afferrargli il volto, mentre il
respiro gli si mozza al placido tocco delle sue labbra a contatto con
le proprie, la muta richiesta di tacere, almeno per quella volta.
Dovrebbe spingerlo via, magari dirgli che due come loro non dovrebbero
neanche pensarla, una cosa simile. Eppure, contrariamente a
ciò che la sua mente gl’impone di fare, schiude la
labbra, invitando la lingua dell’intruso ad esplorare
l’interno della sua bocca.
Si prenderebbe volentieri a schiaffi, se non fosse per la mite
tranquillità con cui il miracolo si porta sopra di lui,
sfiorandogli delicatamente i capelli.
“Aomine, noi non-”
“Ho vinto la scommessa, stupido.” Per una volta, il
suo timbro vocale non è canzonatorio né alterato,
è come sentire per la prima volta la sua vera voce.
“Perciò mi devi qualcosa.”
Si sorprende di come gli appaia il rubicondo rivale, mentre gli si
avvicina ancora una volta al viso.
“E poi” continua, sorridendo sornione,
“è finita la cioccolata.”
“E allora?” gli domanda il rosso, confuso.
Preme ancora una volta le proprie labbra contro quelle di Kagami,
lasciandosi sfuggire un piccolo sospiro: potrà anche essere
l’asso della Seirin, ma a vederlo da quella prospettiva gli
appare proprio un bimbetto ingenuo.
“E allora ne prendo un po’ in prestito dalla tua
bocca” risponde, concedendogli un bacio completamente diverso
dal precedente.
Non aspetta neppure il beneplacito delle labbra di lui, mentre insinua
avidamente la lingua dentro la sua cavità orale,
assaporandone ogni centimetro. Si sente bene, come non gli capitava da
anni, e sa perfettamente qual è la fonte inesauribile di
quel bizzarro appagamento: è proprio lì, sotto di
lui, che ricambia a poco a poco le carezze che Aomine gli concede,
sfiorandogli le braccia mascoline e il petto asciutto, coperto dalla
maglietta leggermente inumidita dal sudore.
Sa di essere un imbecille. D’altronde non si spiega
altrimenti: si è spolpato non sa quanti chilometri per
giungere inatteso alla casa del rivale, è stato subito
felice di poter trascorrere del tempo con lui senza la presenza
asfissiante degli altri compagni di squadra – o peggio, di
Satsuki – e adesso se ne sta tutto giocondo sul corpo di
Kagami, godendosi quel bacio che corona la rassicurante atmosfera in
cui è capitato tra capo e collo. Magari dopo
riuscirà anche a trovare il tempo per sgridarsi, ma in
questo momento non ha alcuna voglia di crucciarsi ulteriormente.
Si convince che è così che dev’essere,
o forse come avrebbe
dovuto essere fin dall’inizio, il giorno in cui
i suoi occhi hanno incrociato le fiamme divampanti tra le iridi del
giovane talento. Non si può sfuggire in eterno a quel dolce
calore, e poco gl’importa che possa trattarsi del Natale e di
tutte quelle stupidaggini sulla vampa affettiva dei giorni di festa,
quando improvvisamente la gente si ricorda di dover essere meno stronza
del solito.
Aomine non è il tipo da comprendere certe etichette. Se lo
fosse, di certo non starebbe lì, avvinghiato alle toniche
spalle del rivale, in cerca di un contatto viscerale, votato alla
disperata ricerca del fuoco che può vedere ancora
incastonato nello sguardo fiero del rosso che, superato
l’attimo di smarrimento, ricambia l’inatteso
abbraccio, vittima e carnefice del tepore che sente provenire dal corpo
del miracolo.
“Tu…” gli sussurra, mentre
l’altro gli sfila via la maglietta, soffermandosi sugli
addominali scolpiti.
“BaKagami”
lo sbeffeggia, ricordandosi il buffo epiteto con cui lo bolla la sua
coach, “non penserai che mi fermi qui, vero?”
L’indaco lo scruta, alzando un sopracciglio; si assesta
meglio sopra al bacino del rivale, sentendo la sua intimità
farsi sempre più serrata contro il tessuto dei jeans.
“Anche perché non sembra che il tuo amico sia
d’accordo.”
“Fanculizzati, Aomine.” Si lascia sorprendere,
trovandosi improvvisamente premuto contro il tappeto. “Chi
cazzo te l’ha detto che puoi stare sopra?”
“Perché dovresti stare tu?”
“Perché sì.”
“Non è una risposta!” sbotta il cestista
della Tōō, stizzito.
Se la veneranda leggenda dalla giubba rossa assistesse alla scena
rimanendosene in disparte sul ciglio della balconata, attraverso il
vetro vedrebbe qualcosa che gli parrebbe più simile ad
un’azzuffata che ad un amplesso amoroso. Eppure –
forse – i doni li porterebbe comunque, a quei due stupidi
scapestrati, poiché niente potrebbe mai oscurare
l’amorevole dolcezza con cui i loro occhi comunicano,
sussurrandosi a vicenda le più mal celate debolezze,
ciò che rende entrambi umani ed incapaci di mentirsi ancora.
È come assistere ad un film muto, o meglio: loro si parlano,
si rotolano sul pavimento cercando di prevaricarsi, per poter ottenere
l’egemonia di uno scontro fatto di carne pulsante, speranzosa
che quel contatto non debba mai finire, mentre i loro sguardi ricolmi
di serenità si perdono a contemplare l’uno il
volto dell’altro, soffermandosi distrattamente sul rumore del
vento che sbatte febbricitante contro i vetri della finestra.
“Sarà una lunga notte” ghigna Aomine,
mentre ribalta per l’ennesima volta il rivale,
“spero tu sia pronto. Non ho intenzione di perdere,
oggi.”
“Neanche io.” È tutto ciò che
gli risponde Kagami, trascinandolo ancora una volta al suo fianco e
riappropriandosi delle sue labbra, più secche rispetto a
qualche minuto prima, in un bacio che corona quel piccolo centimetro di
felicità.
Fuori è freddo, ma loro non lo sentono.
O almeno non più.
Angolo dell'Autrice:
Vi
chiedo di perdonarmi; sono una fan convinta della ship Kuragami,
però qualcosa su 'sti due la dovevo proprio scrivere. Li
adoro entrambi, perciò non potevo lasciarli in panchina per
molto altro tempo - e poi diciamocelo, è bello pensare ad
una loro gara a chi sta sopra e chi sta sotto ^^.
Spero
che questa piccola one-shot vi sia piaciuta, ringrazio moltissimo wurags per aver
idealizzato il contest che mi ha dato la possibilità di
scrivere su di loro.
A
presto,
_EverAfter_