Nonostante tenessero
gelosamente segreta la neonata relazione tra di loro, ormai Vera e
Vittorio trascorrevano la maggior parte del tempo libero insieme; e
come stava diventando sua abitudine, quel mercoledì sera
l'ex ginnasta lasciò la palestra e andò dritta a
casa del carabiniere.
«Dimmi che hai preparato da mangiare:
sto morendo di fame» disse non appena Vittorio le
aprì la porta.
Lui inarcò le sopracciglia.
«Non si saluta più?»
Vera gli scoccò un rapido bacio sulla
bocca. «Ciao. Dimmi che hai preparato da mangiare,
perché
sto
morendo di fame».
«Ho cucinato»
confermò Vittorio mentre Vera appendeva la borsa e si
chinava ad accarezzare Estia, che si era avvicinata facendo le fusa.
«Anche se speravo di contare
più del
cibo».
«
Niente
conta più del cibo» dichiarò la donna.
«Senza di te posso vivere, senza mangiare no».
«Tu sì che sai come lusingare
l'ego di un uomo» sbuffò Vittorio. «Puoi
stare tranquilla sulle tue probabilità di sopravvivenza,
Gamba Bionica: è quasi pronto».
«Ottimo» rispose Vera,
soddisfattissima. «Posso darti una mano?»
«Solo smettendo di maltrattarmi: il
resto è tutto sotto controllo» replicò
il carabiniere, già diretto in cucina.
Sola, Vera sedette sul divano e prese in braccio
Estia: somigliava a un Silvestro col pelo tigrato al posto di quello
nero, e sul petto, in mezzo al pelo bianco, aveva una grossa macchia
tigrata a forma di cuore. Quel particolare fece sorridere Vera: Estia
continuava a dimostrarsi sempre più una gatta dolce e
affamata d'affetto, ed era come se la Natura avesse voluto imprimere su
di lei un segno visibile del suo carattere. Per fortuna,
rifletté ancora la ragazza, non valeva per tutti: altrimenti
lei e Vittorio avrebbero avuto la pelle rossa come le fiamme
dell'Inferno, un bel set di grosse corna nere sulla testa e un forcone
incollato alla mano. Il pensiero le fece grugnire una mezza risata.
«Perché ridi?» le
chiese Vittorio, guardingo; andò al tavolo apparecchiato e
posò due piatti pieni di pasta. «Sei impazzita una
volta per tutte o stai tramando?»
Di nuovo, l'immagine di se stessa e Vittorio nelle
vesti di due diavoli lampeggiò nella mente di Vera, e lei
faticò a non ridere.
«Nessuna delle due, uomo di poca
fede». La ragazza lasciò Estia sul divano e
raggiunse il tavolo; una volta lì, si chinò su un
piatto e annusò il profumo che saliva in spirali di vapore.
«A quanto pare, sei bravo in cucina. Niente niente, mi
toccherà riconoscere che hai anche delle
qualità!» lo stuzzicò.
Vittorio le rivolse uno sguardo di sfida.
«Di' solo un'altra parola e mangerò
tutto io».
Vera socchiuse gli occhi, e per un attimo parve
esitare; poi il suo stomaco brontolò sonoramente e lei
decise di sedersi.
I due mangiarono in un silenzio rilassato,
spezzato solo dal tintinnare delle posate sui piatti e dai rumori che
arrivavano dalla strada. Una volta sparecchiato e rassettato, andarono
a sedersi sulla parte di divano non occupata da Estia; sempre in
silenzio rimasero abbracciati per un po', cullati dalla musica che
usciva dalla radio accesa.
Alla fine fu Vera a parlare per prima.
«Dio, potrei anche mettermi a
dormire» sospirò contenta.
Vittorio le depose un bacio sulla testa.
«Aspetta di tornare a casa tua per farlo»
replicò. «Stanotte sono di
turno e non mi va di saperti per strada insonnolita».
«Sembri mia madre»
ridacchiò la ragazza. «Da giorni continua a farmi
raccomandazioni sceme, tipo di non dimenticarmi le pentole sul gas
acceso o la porta di casa aperta». Alzò gli occhi
al cielo, ma sorrideva. «La prospettiva di tornare al lavoro
le fa male».
«Ferie?» indagò il
carabiniere.
Vera scosse la testa in segno di diniego.
«Congedo straordinario: l'ha preso dopo l'incidente per
seguirmi in ospedale, durante la riabilitazione e poi a casa mentre mi
abituavo a fare tutto con la protesi» spiegò.
«Ricomincia lunedì e credo che l'idea di tornare
del tutto alla normalità la metta in ansia; ha paura che io
possa avere bisogno di qualcosa mentre non c'è».
Vittorio sbuffò. «Possiamo
farle fare cambio con mia madre: deve andare in pensione l'anno
prossimo e già si lamenta perché
non vuole smettere
di lavorare».
«Per carità»
replicò la ragazza. «Lascia che la mia, di madre,
torni in ufficio: ormai ha troppe energie represse, e c'è un
limite a quante volte le superfici di casa possono essere lavate e
strofinate prima di polverizzarsi!»
Vittorio scoppiò a ridere.
«Se ci sentissero parlare
così di loro, ci ammazzerebbero!»
«Parla per te: grazie alla protesi, io
posso sempre appellarmi alla loro pietà e comprarmi il
perdono» sghignazzò di rimando lei.
L'uomo la fissò, ammirato.
«Sei subdola».
«Solo quando serve». Vera si
stiracchiò. «Questo divano è una
trappola mortale: se non mi alzo, rischio davvero di
addormentarmi». Si rimise in piedi e andò verso il
bagno; passando, diede una pacca leggera sulla testa di Estia, che si
era allungata tanto da occupare un buon terzo della seduta.
«Mentre sono di là cerca di non rubarmi il posto,
tu» disse alla gatta.
Estia fece le fusa più forte e Vittorio
si mise di nuovo a ridere: in che modo Vera riuscisse a farsi
rispondere dai gatti che le stavano intorno era una cosa al di
là della sua comprensione.
Rilassato, il carabiniere reclinò la
testa contro i cuscini e chiuse gli occhi, canticchiando tra
sé. Vittorio rimase in quella posizione per dieci minuti
abbondanti prima di ricordare che non era solo in casa e chiedersi che
fine avesse fatto Vera: riaprì gli occhi e la
trovò appoggiata al tavolo, intenta a fissarlo, con le
braccia incrociate sotto il seno e l'espressione concentrata.
«Che c'è?» chiese
cauto.
La ragazza gli sorrise. «Ti sto solo
guardando».
«Sì, ma...
perché?» insisté lui, perplesso.
Vera scrollò le spalle.
«Onestamente? Più ti guardo, e meno capisco come
tu possa essere così bello».
Il collo di Vittorio si tinse di rosso e lui si
schiarì la voce un paio di volte. «Bello,
io?» ripeté, una sfumatura scettica nella voce.
«Mi sa che oltre alla gamba finta ti servono anche un paio
d'occhiali, ragazzina, perché di sicuro non sono
bello».
Vera gli sorrise di nuovo, stavolta con dolcezza.
«Per me lo sei».
Vittorio arrossì un po' di
più e si grattò la nuca; si alzò con
un gesto rapido, raggiunse Vera e infilò le dita tra i suoi
capelli per massaggiarle lo scalpo.
«Allora hai veramente qualche rotella
fuori posto» commentò, mentre lei sospirava
soddisfatta. «E io che pensavo stessi facendo progressi, con
lo psicologo».
«Inutile fare il sarcastico,
Valenti» disse placida Vera, gli occhi chiusi e la testa
abbandonata tra le mani dell'uomo. «Credo che tu sia bello, e
neanche punzecchiarmi mi farà cambiare idea».
L'uomo scosse la testa. «Lo dici
soltanto perché abbiamo smesso di saltarci alla gola ogni
volta che ci vediamo».
«Mh-mhhh» mugolò la
ragazza. «In realtà ho iniziato a pensarlo quando
ancora non ti sopportavo» rivelò. Aprì
un occhio solo e gli rivolse uno sguardo sardonico.
«Comunque, grazie per la fiducia nella mia
lucidità mentale, eh».
Vittorio le baciò la punta del naso.
«La tua intelligenza ha perso ogni credibilità nel
momento in cui mi hai baciato fuori dalla palestra».
«O magari ho soltanto gusti
strani» sogghignò Vera.
«Questo è chiaro come la luce
del sole». Vittorio si lasciò sfuggire un
sorrisetto. «Non c'è verso: riusciamo a discutere
anche quando ci diciamo cose gentili». Il suo sorriso si
allargò fino a trasformarsi in una risata. «Siamo
due idioti!»
«Stavolta hai cominciato tu, quindi
parla per te» ribatté l'ex ginnasta. Gli cinse il
collo con le braccia. «Adesso smettila di dire stupidaggini e
baciami» ordinò.
Vittorio lasciò vagare lo sguardo sul
corpo di lei con deliberata lentezza. «Dove?»
Stavolta fu Vera ad arrossire, ma la voglia di
zittirlo fu più forte dell'imbarazzo. «E se ti
dessi carta bianca?» lo provocò.
Invece di rispondere, Vittorio catturò
la bocca di lei in un bacio; spinse il bacino contro quello di Vera,
intrappolandola tra il proprio corpo e il tavolo mentre insinuava la
lingua tra le sue labbra socchiuse.
Vera replicò con entusiasmo
all'iniziativa dell'uomo e infilò le mani sotto l'orlo della
sua maglietta, per accarezzargli la schiena e il petto. Senza fiato,
staccò le labbra da quelle di Vittorio per mordicchiargli la
mandibola coperta da un velo di barba e scese a deporre una scia di
baci umidi sul suo collo, soffermandosi sui punti in cui poteva sentire
le vene pulsare frenetiche: aveva tutta l'intenzione di esplorare ogni
centimetro del corpo di Vittorio, e a giudicare dai gemiti del
carabiniere, non avrebbe trovato resistenza.
Vittorio fece un passo indietro e
trascinò la ragazza con sé, allontanandola dal
tavolo, poi le afferrò il fondoschiena con le mani e
l'attirò di nuovo contro il proprio corpo. Incurante delle
manovre di lui, Vera gli morse un orecchio: per tutta risposta,
Vittorio emise un basso verso gutturale.
Finalmente, Vera si staccò dal
carabiniere abbastanza da guardarlo in volto.
«Hai
ringhiato?»
ridacchiò.
«Colpa tua»
brontolò Vittorio, nascondendo il visto nell'incavo del
collo di lei mentre spingeva le mani ancora più in basso, ad
accarezzarle le cosce.
Quando le toccò la protesi, Vera
sentì tutte le sue insicurezze riemergere dall'esaltazione
del momento e piombarle addosso come una doccia fredda;
sussultò e fece per ritrarsi, ma Vittorio la trattenne.
«No» disse piano.
«Non te ne andare, Vera».
Le fece scivolare un braccio intorno alla vita e
la strinse più forte; le accarezzò i capelli,
coprendole il volto di baci, ma quando provò di nuovo a
sfiorarle le gambe, Vera ricominciò a dimenarsi.
«Lasciami, Vittorio, ti prego»
lo supplicò. «Non posso, non ce la faccio,
non…»
«Vera, guardami.
Guardami»
disse Vittorio con forza. Le afferrò il mento e la
fissò dritto negli occhi, senza battere le palpebre, lo
sguardo deciso. «Non ha importanza».
«Certo che ce l’ha!»
singhiozzò Vera, coprendosi il volto con le mani.
«Mi manca una gamba. Sono orribile!»
«Non lo sei. Non per me».
Mentre continuava a tenere Vera contro di sé, con la mano
libera prese quelle di lei, una alla volta, e se le portò
sul petto, senza mai distogliere lo sguardo dal suo. «Io sto
baciando te, Vera. Sto baciando la tua bocca, il tuo cervello acuto, i
tuoi occhi così belli, il tuo coraggio, la tua forza e
sì, anche la tua protesi». Baciò via
una lacrima che le era sfuggita. «Mi piaci talmente,
così come sei, che se avessi ancora la tua gamba
probabilmente mi piaceresti molto meno» scherzò.
Vera rise, incerta, ma non cercò
più di allontanarlo. «Sei sicuro che non ti
disgusterà, vedere il moncone della mia gamba?»
sussurrò.
Vittorio alzò gli occhi al cielo.
«Sono sicuro». Le mise le mani sulle spalle.
«Adesso lasciati guardare».
La baciò di nuovo; lentamente,
stavolta, senza fretta. Poco a poco, Vera tornò a rilassarsi
nel suo abbraccio; Vittorio poteva sentirlo nei muscoli di lei che,
sotto le sue dita, perdevano gradualmente la tensione che li aveva resi
rigidi e tornavano a essere morbidi e accoglienti.
Quando la sentì gemere, il carabiniere
ebbe la certezza che ormai Vera si era calmata: le passò un
braccio sotto il fondoschiena, l'altro intorno ai fianchi e le
sollevò i piedi da terra per poi dirigersi verso la camera
da letto. Vera non disse nulla: si limitò ad aggrapparsi
alle spalle di Vittorio e ad appoggiare la fronte sulla sua guancia, il
corpo premuto contro quello di lui per tutta la sua lunghezza.
Poi qualcosa di duro la colpì al centro
della schiena e Vittorio imprecò.
«Maledetta porta»
grugnì l'uomo. Fece un passo di lato e imprecò di
nuovo quando urtò il gomito sullo stipite. «E che
cazzo!»
Vera scoppiò a ridere. «Mi sa
che così non ci passiamo»
«Invece ci passiamo»
s'intestardì lui. «Col cazzo che ti metto
giù!»
«Forse sarebbe meglio» rise
ancora la ragazza quando, al terzo tentativo di oltrepassare la porta,
sbatté la parte posteriore della testa sul muro.
«Almeno ci arriveremmo interi».
Vittorio le morse il collo. «Zitta: devo
concentrarmi».
Vera continuò a sghignazzare mentre
Vittorio – tenendola ostinatamente in braccio – si
metteva di lato e attraversava cauto lo stretto vano della porta e si
lasciò andare a una nuova, rumorosa risata nel momento in
cui l'uomo sospirò sollevato per essere finalmente riuscito
nel suo intento.
«Dio, Valenti, sei uno spasso»
trillò esilarata.
«Adesso te lo do io, lo
spasso» replicò Vittorio: la lasciò
cadere sul letto e sogghignò soddisfatto quando Vera, presa
alla sprovvista, squittì spaventata.
L'ex ginnasta si tirò a sedere, decisa
a punzecchiarlo con un piede per vendicarsi, ma si bloccò:
Vittorio era inginocchiato di fronte a lei, tra le sue gambe, e la
guardava dal basso mentre appoggiava cauto le mani sulle sue ginocchia.
Lentamente, l'uomo le risalì le gambe con le dita fino alla
chiusura dei pantaloni; li aprì con gesti agili e li
tirò appena, deciso a levarglieli di dosso.
Sempre in silenzio, Vera alzò i fianchi
e permise a Vittorio di sfilarle i jeans e le scarpe; trepidante, si
lasciò scrutare dallo sguardo attento del carabiniere, che
la percorreva con cura dalla punta dei piedi fino al volto.
Quando i loro occhi si incontrarono di nuovo,
Vittorio percorse col pollice il punto in cui la gamba di Vera spariva
nella protesi.
«Insegnami» mormorò.
Con dita tremanti, la donna girò la
cuffia di silicone verso l’esterno e rimosse la gamba
artificiale prima di allungarsi verso il comodino e appoggiarla in modo
che non cadesse.
Appena Vera si raddrizzò, Vittorio
prese tra le mani quel che restava della sua coscia sinistra e
l’accarezzò per tutta la sua lunghezza; poi, con
un gesto lento, tracciò col pollice la cicatrice
dell’amputazione, da un’estremità
all’altra.
Nel momento in cui il carabiniere chiuse gli occhi
e posò un bacio delicato proprio al centro della cicatrice,
Vera tremò violentemente. Con un gesto istintivo
afferrò i corti capelli dell’uomo e li
tirò, costringendolo ad alzare la testa; appena i loro
sguardi si incontrarono, Vera si sentì mancare il fiato.
«Vittorio» mormorò
con voce quasi inudibile. Deglutì a fatica, ma non distolse
gli occhi da quelli di lui neanche per un istante. «Fai
l’amore con me».
Vittorio si alzò lentamente,
posò un ginocchio sul materasso e si allungò su
di lei, sostenendosi con un braccio per non pesarle addosso, senza mai
smettere di osservare la sua espressione. Solo quando lei gli sorrise
le catturò la bocca con la propria per l’ennesima
volta, ogni incertezza spazzata via da quel semplice gesto.
******
Quel giovedì, Giulia vagava da una stanza all'altra della
propria casa come un'anima in pena, in attesa che il campanello
trillasse annunciando la visita della sua migliore amica;
perché così come aveva la certezza che Tiziano
non avrebbe
mai
rinunciato a vedere una partita della Juventus, lei
sapeva che quel
giorno Vera sarebbe andata a trovarla. Era una sicurezza che derivava
dal conoscere l'altra donna da tutta la vita, quasi meglio di quanto
conoscesse se stessa; questo... e il fatto che da oltre settantadue ore
le stava inviando messaggi con cui la invitava – non troppo
gentilmente – a non sparire di nuovo per tre settimane.
Insomma, per lei, l'ex ginnasta non aveva segreti;
per questo, quando Vera entrò nella cucina di casa sua
rilassata e sorridente come non era stata per tanto tempo, Giulia
capì al volo che qualcosa era cambiato.
«Qualcuno ha fatto sesso!»
esclamò entusiasta.
Vera, che si era seduta sistemando Ludovica sulle
proprie ginocchia, d’istinto tappò le orecchie
della bimba. «Giù, la bambina!» disse,
scandalizzata.
L’amica la liquidò con un
gesto sbrigativo della mano. «Lulù è
ancora troppo piccola per capire di cosa stiamo parlando e ci
vorrà un po’ di tempo perché cominci a
ripetere quello che diciamo per imparare a parlare… non
è vero, tesoro?» concluse, rivolta direttamente a
sua figlia.
Ludovica rise e batté le manine,
istintivamente felice di vedere la sua mamma tanto allegra.
«Ho l’impressione che mi
stiate abbandonando tutti, ultimamente: prima Hermes, poi mio padre e
adesso tu…» bofonchiò Vera alla
bambina. «Per fortuna, almeno Efesto mi è
fedele!»
«Smettila di parlare a
vanvera» la rimproverò Giulia. Tirò
fuori una bottiglia di succo all’ananas e la
schiaffò sul tavolo insieme a due bicchieri, poi
passò un biberon a Ludovica, che iniziò a bere
avidamente.
«Niente caffè?»
chiese speranzosa Vera, cercando di prendere tempo.
Ma Giulia non aveva nessuna intenzione di
lasciarsi sfuggire la preda.
«Niente caffè»
rispose lapidaria. «Allora? Chi è il
fortunato?»
Vera alzò gli occhi al cielo.
«Com’è che ti sei fissata con questa
storia che ho fatto sesso?»
La sua migliore amica le agitò contro
un dito con fare saccente. «Non pensare di potermi ingannare,
cara mia: siamo amiche da quando eravamo piccole, ti conosco come le
mie tasche!»
Rassegnata, Vera sbuffò. «Va
bene, è vero. Ho fatto sesso. Con…». Si
guardò intorno circospetta.
«Dov’è Tiziano?»
«In camera da letto» rispose
sbrigativa Giulia. «Allora?»
La sua migliore amica abbassò ancora la
voce. «Con Vittorio».
«LO SAPEVO!» esultò
Giulia. Saltò in piedi e improvvisò una danza sul
posto. «Lo sapevo, lo sapevo, lo sapevo!»
Alle grida di Giulia, Tiziano arrivò in
cucina a tempo di record; tentò inutilmente di frenare la
propria corsa e fu costretto ad aggrapparsi allo stipite della porta
per non cadere. «Che succede? Che è tutto
‘sto macello?»
Sua moglie lo abbracciò. «Non
ci crederai mai! La nostra Vera…»
«GIULIA!» tuonò la
diretta interessata.
Insospettito dalla sua veemenza, Tiziano
staccò Giulia da sé e si piegò a
scrutare bene il volto dell’amica. «Tu hai fatto
sesso!» dichiarò, sconvolto.
Vera iniziò a tastarsi la faccia.
«Ma che ce l’ho scritto da qualche parte?»
«Più o meno: nella tua
espressione» sbuffò divertito l’amico.
«Ma con chi? Non vuoi mai uscire con
nessuno…». Impallidì, mentre un
sospetto si faceva strada nella sua mente. «Non con
quello!»
«Quello chi?» chiese Giulia.
«Giù, ti
prego…» esalò Vera.
«Vittorio Valenti, il
carabiniere» scandì Tiziano.
Giulia ricominciò a saltellare,
battendo le mani. «Proprio lui!»
«Ma NO!» esplose Tiziano.
«Grazie, Giù,
davvero» bofonchiò sarcastica Vera.
«Hai fatto sesso con
quello! Vera, ma ti
rendi conto? È romanista! È il
nemico!»
disse schifato l’unico uomo presente. Ludovica
lanciò allegramente il biberon ormai vuoto e Tiziano si
accorse solo in quel momento della presenza della bambina.
«State parlando di sesso davanti a
mia figlia?»
ruggì.
«Credevo fosse anche figlia
mia» replicò Giulia in tono pungente.
Vera si limitò a indicare
l’amica. «Ha cominciato lei. Dillo,
Lulù, dillo a papà che la zia Vera ti ha anche
tappato le orecchie!»
«Bell’amica!»
insorse Giulia.
«Ehi, qui si tratta di
sopravvivere» si difese l’altra.
Tiziano prese la bambina tra le braccia e si
avviò verso il corridoio. «Vieni, amore di
papà: allontaniamoci da queste screanzate».
Le due donne si offesero enormemente.
«Screanzate a chi?»
s’indignò Vera.
«Te la do io, la screanzata…
aspetta stasera, aspetta!» gli urlò dietro sua
moglie, furente.
Giulia e Vera si guardarono per un momento, poi
scoppiarono a ridere come pazze.
«Adesso che quel guastafeste se
n’è andato, voglio parlare seriamente con
te» disse la prima, sedendo di nuovo e abbassando la voce.
«Come ti senti?»
Vera inarcò le sopracciglia.
«Come una che ha fatto sesso dopo un periodo
d’astinenza troppo lungo».
«Non fare la stupida: sai che
intendo» la rimbrottò Giulia. «Dopo
l’incidente ti sei rifiutata di fare qualunque cosa potesse
mettere in vista la protesi, e… be’, non credevo
che ti saresti mai più fatta vedere nuda da un
uomo».
L’altra arrossì.
«Infatti non volevo: ero sicura che vedere la mia…
la mia gamba, o quello che ne resta, senza neanche la protesi, lo
avrebbe disgustato; e invece Vittorio è
stato…» scosse la testa, incerta sul termine da
usare, «meraviglioso. Per quanto possa sembrare strano
mettere le parole “Vittorio” e
“meraviglioso” nella stessa frase».
Giulia rise di gusto. «Non lo facevo
così sensibile» commentò.
«Neanche io».
L’espressione di Vera si ammorbidì notevolmente.
«Non pensavo che avrei mai incontrato un uomo
così. Anzi, quando mi ci sono scontrata per la prima volta,
avrei giurato che Vittorio fosse l’ultimo uomo al mondo in
grado di restituirmi quel tipo di coraggio».
«E invece...» disse maliziosa
l'altra.
Vera sbuffò. «Non
cominciare».
«Te l'avevo detto, io»
proseguì imperterrita Giulia.
«Giù:
non cominciare»
ripeté Vera.
«Ma io
te l'avevo detto»
insisté la sua migliore amica.
L'ex ginnasta fece per rispondere, ma il suono di
piedi pestati a terra con rabbia annunciò il ritorno di
Tiziano; l'uomo si stagliò nel vano della porta con la
fronte aggrottata, Ludovica e RincoRino in braccio e Woof, l'enorme
cane di pezza, sulla spalla.
«Non ci posso credere» disse,
saltando ogni preambolo. Puntò un dito contro l'amica.
«Non posso credere che tu abbia deciso di uscire proprio con
un romanista!»
«A proposito: ci esci, o state
insieme?» s'intromise Giulia.
L'altra donna mugugnò tra sé
per qualche istante. «Stiamo insieme»
bofonchiò infine.
Le reazioni dei due coniugi non avrebbero potuto
essere più diverse: Giulia esultò di nuovo,
mentre Tiziano gemette di disappunto e si coprì gli occhi
con la mano.
«Perché, Vera?
Perché
mi fai questo?» si lagnò il secondo.
Suo malgrado, Vera inarcò le
sopracciglia e gli scoccò uno sguardo a metà tra
il perplesso e il sardonico. «Perché faccio
cosa a
te?»
Tiziano le puntò di nuovo contro
l'indice con fare accusatore. «Se tu stai con un romanista,
allora anch'io devo averci a che fare» spiegò.
«È una cattiveria bella e buona!»
Le sopracciglia di Vera si sollevarono un po' di
più. «Vorresti farmi credere che tutti i tuoi
familiari, amici, colleghi e conoscenti sono juventini?
Perché so per certo che uno dei tuoi fratelli è
milanista...»
Il padrone di casa arrossì.
«Non posso scegliermi i parenti!»
«E neanche evitare chi non tifa per la
tua stessa squadra di calcio» ribatté pronta Vera.
«Ma posso provarci! Io...»
E s'interruppe: Ludovica gli aveva appena infilato
in bocca la testa di RincoRino. Tiziano sputacchiò e
tossì, mezzo soffocato dal pupazzo e dall'indignazione per
essere stato tradito dalla sua stessa figlia.
Risero tutti tranne lui.
Vera fu la prima a riprendere fiato.
«La verità, Tizià,
è che sei geloso e ti preoccupi perché mi vuoi
bene» disse infine l'ex ginnasta. «E anche se lo
apprezzo tanto, non puoi fare così... soprattutto se la fede
calcistica è l'unica cosa che vuoi rimproverare a
Vittorio».
Tiziano s'imbronciò. «Dammi
un po' di tempo e vedrai che qualcos'altro da rinfacciargli lo trovo.
Oh, se lo trovo!»
«Sei senza speranza» disse sua
moglie con una buona dose d'affetto. «Uno zuccone senza
speranza. Sii felice per Vera e rassegnati al fatto che anche tu dovrai
frequentare Vittorio».
Il broncio dell'uomo divenne, se possibile, ancora
più accentuato. «E se non volessi?»
Giulia affilò lo sguardo, per nulla
toccata dal tono petulante di Tiziano.
«Ti conviene volerlo, e in fretta,
marito mio adorato, perché ho tutta l'intenzione di
invitarlo a cena... e se proverai a mettermi i bastoni tra le ruote,
inizierò lo sciopero del sesso!» rispose, pungente.
Sia Vera che Tiziano la fissarono a bocca aperta.
«Non lo faresti!» esclamarono
in perfetta sincronia.
Giulia scrollò le spalle e prese
Ludovica dalle braccia dell'uomo.
«Vieni, piccola, andiamo a giocare e
lasciamo tranquillo papà... ha una decisione importante da
prendere» disse, ignorando il volto paonazzo di Tiziano e il
suo boccheggiare.
La donna uscì dalla cucina senza
voltarsi indietro e Vera ne approfittò per dileguarsi a sua
volta: aveva la sensazione che la sfida di Giulia avrebbe reso Tiziano
ancora più ostile a Vittorio, almeno nel breve periodo, e
per una volta non ci teneva affatto ad ascoltare le rimostranze
dell'amico.