L'invettiva
di George Warleggan contro di lui, orientata a convincere tutti i
votanti a non scegliere Ross Poldark, fu talmente convincente che
pure lo stesso Ross, se fosse stato nei panni degli altri, non
avrebbe votato per se stesso.
Rimase
serio durante la fase delle votazioni, accanto a Lord Basset che, da
vecchia volpe, si guardava attorno lanciando occhiate silenziose ed
eloquenti agli altri rappresentanti delle contee presenti.
George
elencò tutti i suoi peccati di gioventù, i suoi
guai con la legge,
gli incidenti alle sue miniere che avevano purtroppo avuto come esito
alcune vittime, il suo carattere irascibile e poco serio, la sua
scarsa socialità, il suo essere sempre fuori dalle regole...
Fu
convincente a suo modo e Ross, ridendo sotto i baffi, pensò
quasi
quasi di votare lui per il seggio di Londra.
Dopo
un discorso del genere, difficilmente avrebbe preso dei voti. In
tanti lo conoscevano di fama e chi non lo conosceva personalmente...
beh, ora grazie a George sapeva tutto di lui.
Valentine,
accanto a lui, gli tirò la manica della giacca. Lord Basset
aveva
insistito perché lo portasse con loro, convincendolo che
l'immagine
di padre di famiglia avrebbe fatto presa sugli astanti e Ross, anche
se restìo, alla fine aveva portato il figlio con se.
"Papà?".
"Sì?".
"Ma
davvero hai fatto tutte queste cose da giovane? Quelle che ha detto
quel signore?".
Ross
annuì, vagamente orgoglioso di se stesso. "Anche di
più".
Valentine
sorrise, sinceramente colpito. "Forte!".
E
Ross si accigliò, guardandolo storto. "Tu ovviamente NON le
farai queste cose...".
Basset,
con accanto sua moglie e la piccola Emily, gli diede una gomitata
nella schiena. "Iniziano le votazioni, pregate che non debba
fare il viaggio verso Londra con George Warleggan".
"Pregherò...
per il bene dell'Inghilterra" – rispose Ross sarcastico,
guardando il suo storico nemico che, con la consueta faccia
corrucciata, lo guardava dall'altro lato della sala.
I
votanti iniziarono a esprimere le loro preferenze e i primi quattro
voti furono tutti per George. Ross sospirò, preparandosi
all'inevitabile sconfitta. Non aveva mai nutrito troppe speranze e
forse il suo destino sarebbe rimasto comunque quello di rimanere in
Cornovaglia, come era nelle sue idee iniziali, a gestire le sue
miniere.
Ma
poi Basset votò per lui e tutto cambiò,
facendogli comprendere
quanto ascendente e quanto potere sugli altri avesse quell'uomo.
E
dopo il voto di Basset, uno dopo l'altro arrivarono otto voti per
Ross Poldark. Votarono tutti per lui, all'unisono, anche coloro che
più erano vicini alla famiglia Warleggan.
Ross
trattenne il respiro, George divenne paonazzo e quando il Presidente
della seduta decretò la vittoria e l'assegnazione del seggio
a
Westiminster a Ross Poldark, se ne andò a passo spedito
dall'aula,
sbattendo la porta.
"Non
prende bene le sconfitte" – sussurrò Ross,
più divertito da
quella reazione che dall'esito del voto che, forse, non aveva ancora
mentalmente realizzato appieno.
Basset
rise, trionfante, trascinandolo a stringere le mani a tutti coloro
che avevano votato per lui, dandogli fiducia.
Ross
si lasciò trascinare, quasi inebetito da quell'esito
inaspettato che
ora, grazie dopo grazie, diventava improvvisamente reale. Ora era
vero, ora era un membro del Parlamento e sarebbe dovuto partire per
Londra. Era emozionante, eccitante... e pauroso. Mille nuove
responsabilità lo avrebbero atteso, avrebbe dovuto imparare
l'arte
della diplomazia, essere più accondiscente e meno irruento.
Un uomo
rispettabile, insomma, uno che non fa a botte nelle osterie per
risolvere i problemi ma li affronta argomentando nelle sedi
opportune.
Valentine
gli corse vicino, abbracciandolo. "Papà, che vuol dire? Hai
vinto?".
"Sì!"
- gli rispose, accarezzandogli i capelli neri e pieni di ricci.
"Allora
ora sei un uomo importante".
Basset
annuì. "Esatto, ora è uno degli uomini
più importanti della
nazione".
La
piccola Emily Basset, per mano alla sua mamma, arrivò da
loro.
"Valentine, ora verrai anche tu a Londra! Ci sono un sacco di
bambini là, vedrai! Ti presenterò tutti i miei
amici!".
Ross
si accigliò, guardando la piccola Emily e poi Valentine. In
realtà,
fin da quando suo figlio era nato, aveva sempre cercato una scusa per
sfuggire da lui e non essere costretto, tutto il giorno, a guardarlo
e a ricordare il dolore e gli errori che aveva commesso in passato.
Londra avrebbe potuto allontanarlo dal peso dei ricordi per molti
mesi all'anno, avvolgendolo e risucchiandolo in una vita nuova e
frenetica che poteva permettergli di non pensare mentre Valentine
sarebbe rimasto a Nampara, accudito da Jane e John. Erano questi i
suoi piani e, anche se questa scelta era in parte egoistica, la
giudicava anche la soluzione migliore per un bambino tanto timido e
delicato come suo figlio che di certo si sarebbe trovato più
a suo
agio nella casa dov'era cresciuto piuttosto che in una
società
frenetica e diversa come quella di Londra.
Valentine,
incurante dei suoi pensieri, sorrise a Emily. "Amici? Quanti ne
hai?".
"Tanti!
Anzi, tante! Le femmine giocano con le femmine e i maschi coi maschi,
a Londra! La mia migliore amica – ma io non sono la sua
– è Lady
Clowance Armitage. Ma lei preferisce essere la migliore amica di Lady
Chaterine e io sono solo la seconda nella sua lista".
"Ohhh"
– fece Valentine, stranito da quelle strane dinamiche a lui
sconosciute.
Ross
guardò Basset. "Lady Clowance? Lady Chaterine? Emily ha
amicizie adulte?".
Basset
rise. "No, sono due bambine sue coetanee moooolto nobili e con
tanto di titolo nobiliare. Le conoscerete o meglio... ne conoscerete
le famiglie. Soprattutto gli Armitage, del casato Boscawen. Lady
Clowance è la nipote di Lord Falmouth, un mio amico di
bisbocce ma
avversario politico. Uomo furbo, sornione, una vecchia volpe che la
pensa perennemente al contrario di me. Ma potente e che può
veicolare molti voti in Parlamento. Ve lo presenterò una
volta
arrivati a Londra perché se riusciamo a convincerlo della
bontà
delle nostre idee e a portarlo dalla nostra parte, lui farà
piovere
su di noi parecchi voti dei suoi soci e compagni di partito".
Ross
ci pensò su. "Boscawen? Ne ho già sentito
parlare, forse...
Una famiglia molto potente e vicinissima ai sovrani. Che ruolo avrei
io nel convincere questo uomo a darmi fiducia? Come potrei farlo?".
Basset
gli strizzò l'occhio. "Avete una buona parlantina, una
grande
faccia tosta e siete un grande oratore, appassionato e fiero. Tutte
qualità che Falmouth ama. Se gli entrerete in simpatia,
forse
potremmo usufruire del suo aiuto, ogni tanto... Ma nel mentre, quando
partirò con la mia famiglia per Londra, mi
adopererò a trovarvi un
alloggio consono al vostro nuovo ruolo".
Ross
lo guardò storto, rendendosi conto che l'ingresso in quel
mondo
fatto di regole che lui non condivideva era ormai inevitabile e
avrebbe dovuto abituarcisi. "Un uomo che chiama la nipotina con
un titolo nobiliare non mi piace. Mi fa senso, un bambino dovrebbe
essere solo un bambino".
Basset
rise. "Lady Clowance? Oh ma quella è una piccola vera
leader,
una Lady nata. Come suo zio! E' l'idolo di tutte le bimbe dei
giardini di Kensington, tutte vogliono essere sue amiche. Ma sono
bambine e quando sono all'aria aperta giocano esattamente come
giocano i monelli della Cornovaglia, non preoccupatevi".
Valentine
sorrise eccitato, Emily annuì e Ross decise di affrontare il
discorso della partenza con suo figlio da soli, una volta a casa. I
racconti di Basset lo indirizzavano sempre più verso la
scelta di
lasciarlo a Nampara e in fondo avrebbe solo dovuto spiegargli il
perché. Sarebbe stato bene, lui stava sempre bene con Jane e
John e
Londra non era una buona scelta per lui.
"Andiamo
a brindare? Di là, nella sala accanto, hanno imbandito un
banchetto"
– propose Basset, prendendo sua moglie a braccetto.
Ross
li osservò, erano davvero una bellissima coppia e
guardandoli si
chiese se Demelza sarebbe stata orgogliosa di lui quel giorno, se
fosse stata presente. Abbassò lo sguardo, malendicendosi per
quel
pensiero che lo tormentava ad ogni momento del giorno, ricordandosi
che era solo e che lo sarebbe stato per sempre.
Fece
per prendere la mano di Valentine ma suo figlio si era già
allontanato. Anche lui aveva trovato compagnia e, mano nella mano con
la piccola Emily, trotterellava dietro la coppia dei Basset.
A
quanto pare l'unico non accoppiato era rimasto lui...
...
Jane
e John Gimlet gli avevano fatto trovare una torta di mele al suo
ritorno, adducendo che erano sicuri della sua vittoria e volevano
essere pronti per i festeggiamenti.
Banchettarono
con i Basset organizzando date di partenza e districando
difficoltà
organizzative e poi in serata, una volta rimasti soli, Valentine gli
saltò sulle ginocchia. Era eccitato quel giorno, allegro e
insolitamente ciarliero, cosa che non accadeva quasi mai. E non stava
fermo un attimo, segno che non aveva dolori alle gambe e che stare in
compagnia di una bambina gli aveva fatto bene. "Ma papà, a
Londra ti dovrai vestire come Lord Basset?".
"Temo
di sì".
Il
bimbo rise. "Sembrerai un... pinguino".
Anche
Ross rise. "Dove hai visto i pinguini?".
"In
un libro di fiabe che mi ha letto Jane. Anche Jane e John vengono a
Londra con noi?".
Ross
deglutì a quella domanda, era arrivato il momento di
spezzare
l'eccitazione di Valentine e di spiegargli un pò di cose.
"Jane
e John resteranno quì. Con te... Solo io partirò
per Londra".
Valentine
spalancò gli occhi e Ross sentì le sue manine
tremare. "Solo
tu? E io? Mi lasci quì solo?".
"Non
solo, con Jane e John".
Gli
occhi di Valentine divennero lucidi. "Ma starai via tanto
tempo... Senza di me...".
Ross
sospirò, cercando di spiegargli che non poteva fare
altrimenti.
"Valentine, Londra non è un posto adatto a dei bambini,
starai
meglio quì, lo faccio per il tuo bene".
"Emily
Basset ci va però! Il suo papà non la lascia a
casa da sola. E ci
vivono tanti bambini a Londra, perché io non posso andarci?".
"Perché
io ritengo che non sia un bell'ambiente per te! Dovrò
lavorare,
starò fuori tutto il giorno e non ci vedremmo comunque mai!
Quì
starai meglio".
Valentine
lo guardò stranito e... arrabbiato? "Da solo? Per quasi
tutto
il tempo?".
"Valentine...".
Ross era sicuro di essere stato convincente ma guardando suo figlio
si rese conto che non credeva a nulla di quello che lui gli aveva
detto.
Il
bimbo sollevò i suoi occhi scuri, piantandoglieli addosso.
Tremava,
era arrabbiato ma anche deluso e spaventato per la piega che avevano
preso le cose. "Partirai e non tornerai più. E io
sarò da solo
per sempre".
"Non
essere sciocco, certo che tornerò! Quì ci sei tu,
c'è la mia casa
e c'è la mia miniera. Parto per lavoro, non per divertirmi!
E tu mi
aspetterai a casa".
"Perché
Lord Basset ce la porta la sua famiglia? Lui Emily la vuole sempre
con se anche se deve lavorare".
Ross
sospirò. "Lord Basset ha una moglie e Emily una mamma che si
prende cura di lei".
Valentine
abbassò lo sguardo. "Io la mamma non ce l'ho e adesso non
avrò
più nemmeno il papà". Con rabbia gli
voltò le spalle, si
avvicinò alla credenza e prese un foglio e dei pastelli,
sedendosi
poi al tavolo senza degnarlo di uno sguardo.
Ross
gli si avvicinò, preso in contropiede da quella reazione
rabbiosa di
Valentine e indeciso sul da farsi. Fino a quel momento Valentine era
stato zitto e silenzioso davanti alle sue idee e decisioni ma
qualcosa era cambiato, segno che suo figlio stava crescendo e stava
iniziando a sviluppare la sua personalità. "Che cosa stai
facendo?".
"Il
mio ritratto".
Ross
si grattò il mento. "Perché?".
Il
piccolo alzò lo sguardo, serio. "Così te lo puoi
portare a
Londra e non ti dimenticherai di me e magari qualche volta tornerai a
trovarmi".
Rimase
spiazzato da quella risposta, come poteva pensare che...? Si
inginocchiò accanto a lui, cercando la sua attenzione.
"Valentine,
sei mio figlio, come potrei dimenticarmi di te? Come potrei
dimenticarmi di una persona a cui voglio bene?".
Valentine
rimase in silenzio.
"Hei?".
"Lasciami
finire il ritratto" – rispose il piccolo, senza alzare il
viso.
Ross
lo guardò e a un tratto fu colto da un terribile dubbio.
"Valentine,
tu sai che ti voglio bene, vero?".
E
Valentine rimase in silenzio, di nuovo...
Ross
a quel punto fermò la sua manina che disegnava,
posò il pastello e
sedendosi accanto a lui, lo prese sulle ginocchia. "Valentine?".
"Non
vuoi mai stare con me, papà. Non credo che mi vuoi bene, non
sempre.
Quasi mai...".
Ross
deglutì. Sapeva di non essere un buon padre e sapeva anche
quanto
avesse tentato di scappare dal suo rapporto con Valentine ma lo
amava, anche se non era un gran che bravo a dimostrarlo. Era vero,
era un genitore assente e sempre alla ricerca di emozioni che lo
facessero sentire vivo e forse non si era mai soffermato a pensare a
quanto questi suoi comportamenti influissero sul pensiero che
Valentine aveva di lui ma era convinto che suo figlio, proprio in
virtù del fatto di essere suo figlio, sapesse che un padre
ama a
prescindere, anche se non è bravo a farlo vedere. Ma non era
così,
era palese che si era sempre sbagliato... Valentine non era
più un
neonato, aveva ormai sei anni e ormai sapeva valutare il
perché dei
comportamenti di chi gli stava attorno e di certo percepiva il
distacco emotivo fra loro, chiedendosi il perché.
"Valentine,
la mia vita non è facile, spesso sono nervoso e silenzioso.
O
assente. Ma ti voglio bene e se vado a Londra lo faccio anche per te,
per rendere migliore il mondo in cui vivrai da grande".
Valentine
lo guardò in viso. "Ma non mi vuoi mai con te, non fai mai
niente con me. Io ti aspetto sempre ma tu non arrivi quasi mai e
adesso starai a Londra, magari ti piacerà e non tornerai
più".
Ross
lo guardò e in quel momento il viso di Valentine si
sovrappose a
quello di Jeremy, nei loro ultimi momenti insieme più di sei
anni
prima. Stessa tristezza, stesso desiderio di contatto e di essere
visti e ascoltati e in entrambi i casi lui aveva fallito. Aveva
abbandonato Jeremy, non c'erano scusanti, non c'erano la gravidanza
difficile di Elizabeth o l'inferno della situazione vissuta allora a
scagionarlo. Lui, che aveva l'arroganza di voler andare a Londra ad
insegnare come vivere agli altri, aveva ABBANDONATO suo figlio ben
prima che Jeremy lasciasse la Cornovaglia. Lo aveva abbandonato a
ogni sguardo o carezza negato, a ogni fuga verso Trenwith per vedere
Elizabeth, ogni volta che si era preso cura di Jeoffrey Charles e non
di lui, quella notte maledetta dove aveva tradito la sua famiglia e i
suoi figli e dopo, quando aveva promesso di tornare a trovarlo e non
lo aveva mai fatto. E ora si chiedeva cosa pensasse di lui questo suo
bimbo che ormai aveva nove anni e forse si domandava chi fosse suo
padre, perché non c'era mai stato e probabilmente lo
odiava... E
Valentine non era diverso, anche lui era sempre stato abbandonato a
se stesso perché suo padre col suo egoismo era sempre
impegnato in
altro. Aveva ragione, perché credergli? Cosa garantiva a
Valentine
un suo ritorno? Cosa garantiva a suo figlio che lo amasse, lui che
era sempre fuggito lontano da lui? Aveva già fatto quella
promessa,
l'aveva fatta a Jeremy e non era più tornato e ora... E ora
voleva
far credere a Valentine che lo stava lasciando in Cornovaglia per il
suo bene? Non c'era più nessuno della famiglia nelle
vicinanze e
sarebbe rimasto per lunghi mesi solo con dei domestici. Trenwith era
ormai deserta ed abbandonata dopo la morte di Agatha due anni prima e
Jeoffrey Charles, con cui i rapporti non erano mai migliorati, aveva
voluto andarsene e ora studiva in una scuola militare a Southampton.
Suo figlio aveva ragione, sarebbe rimasto davvero solo...
D'istinto
abbracciò Valentine, rendendosi conto che era l'unica
famiglia che
ormai avesse e che era suo e doveva esserne orgoglioso. Poi prese un
pastello dal tavolo, mettendoglielo in mano. "Finisci il
ritratto così che poi, quando arriveremo a Londra,
decideremo dove
appenderlo nella nostra casa nuova".
Valentine,
a quelle parole, alzò la testa di scatto. "Londra?".
Ross
sorrise, decidendo che dovevano stare insieme. "Esatto! Jane e
John verranno con noi e ci trasferiremo la tutti insieme
finché
dovrò lavorarci".
Valentine
divenne rosso dall'eccitazione, gli si aggrappò al collo e
lo baciò
sulla guancia. "Mi porti?".
"Ti
porto".
"Grazie
papà!". Il piccolo saltò giù dalle sue
gambe, correndo verso
la cucina. "Vado a dirlo a Jane".
Ross
annuì, vedendolo schizzare via veloce come il vento. Era
felice,
ora... E forse anche lui, di quella decisione che era votata
più al
bene di Valentine che al suo, forse per la prima volta da quando era
nato.
Poi
salì nella sua camera, sedendosi sul letto e tirando fuori
dal
comodino il cavallino di legno di Jeremy che teneva con se da anni
ormai. Chissà com'era cresciuto, chissà quante
cose sapeva fare
ormai, chissà quanto bene voleva a sua madre e al suo
fratellino...
o sorellina... Chissà cosa stava facendo in quel momento...
Si
mise il cavallino nella tasca della camicia, lo avrebbe portato a
Londra con se, sarebbe stato il suo portafortuna. Non avrebbe potuto
restituirlo a Jeremy, lui sarebbe sempre stato il suo bambino perduto
ma per fortuna aveva capito che non poteva permettersi di perdere
anche Valentine perché una vita a chiedersi anche per lui
dove
fosse, cosa facesse, come vivesse, sarebbe stata un ulteriore
inferno.
Aveva
perso tre figli, una portata via dalla malattia, due dai suoi errori
e dal suo egoismo. Non ne avrebbe perso un quarto!
...
Seduti
nella libreria dei bambini, in attesa di andare a letto, con indosso
le loro camicie da notte, Jeremy, Clowance e i gemelli stavano
scegliendo il libro di favole da leggere quella sera.
Demian
e Daisy si rotolavano sulla moquette con Garrick facendo baccano
mentre Clowance aiutava Jeremy nella scelta della lettura.
"La
principessa nordica! E' un bel racconto secondo me" – propose
Clowance, seduta per terra e intenta ad accarezzare il pelo bianco e
candido della sua lupa albina Queen, regalo di suo zio. L'aveva
desiderata da morire dopo che Jeremy aveva adottato una specie di
meticcio spelacchiato simile a un volpino anche per colore del pelo,
che aveva trovato per strada e chiamato Fox, e Lord Falmouth l'aveva
accompagnata a un allevamento di cani di razza ben felice di
accontentarla. Aveva scelto una meravigliosa cucciola di lupa che si
era accoccolata fra le sue braccia, bella ed elegante come lei e da
quel momento erano diventate inseparabili. Queen, così
l'aveva
chiamata, era altera e regale nei movimenti, sfuggente e ubbidiva
solo a Clowance di cui era l'ombra.
Jeremy,
con a fianco il vivace Fox, la guardò storto. "Favola da
femmina! Leggila tu, se la vuoi".
Clowance
gli fece la linguaccia. "Leggere le fiabe è compito tuo! Lo
ha
detto papà".
"Sì
certo! Ma se lo fai tu per una sera, mica sudi!".
Clowance
lo guardò storto mentre i gemelli ridevano. "Non so ancora
leggere bene!".
"Perché
sei una somara! Lo dice anche il nostro maestro che non hai voglia di
fare niente a lezione".
Clowance
si imbronciò. "Sono una Lady, devo essere educata! Non
istruita".
Jeremy
rise, avvicinandosi e dandole un pizzicotto sulla guancia. "Somara,
somara! Hai sei anni e nemmeno sai ancora leggere bene".
Clowance
gli diede una manata ma poi scoppiò a ridere, dandogli uno
strattone
e facendolo cadere a terra. "Selvaggio! Tu e il tuo cane non di
razza".
Demian
si avvicinò allo scaffale coi libri, prendendone uno dalla
copertina
tutta colorata. "Questo, Jeremy".
Jeremy
lo prese in mano, ridendo. "Sveva la zebra! Clowance, ti
ricordi?".
"No,
cosa?".
Gli
occhi di Jeremy divennero lucidi. "Era il nostro libro preferito
da piccoli! Papà ci aveva portati a vederla, Sveva. E aveva
regalato
un cucciolo di tigre a mamma!".
Per
un attimo calò il silenzio e Clowance divenne triste,
abbracciando
Queen che la leccò sul viso. "Papà scriveva anche
le poesie a
mamma, lei me lo racconta sempre".
"Mi
manca tanto il mio papà" – sussurrò
Jeremy, stringendo a se
il libro.
Daisy,
molto più pratica e decisamente meno sentimentale, gli si
avvicinò,
dandogli una manata sulla schiena. "E allora leggi! Devi farlo
tu, lo aveva detto lui!".
Jeremy
sorrise alla sorellina, sedendosi in terra e prendendola sulle gambe.
Demian sgattaiolò fino a lui sedendosi vicino e lo stesso
fecero
Clowance e i tre cani. Poi aprì il libro, leggendo le prime
parole
di quel racconto che lo riportava a un affetto mai dimenticato e
purtroppo perduto troppo presto.
"C'era
una volta una zebra che si chiamava Sveva e viveva nella Savana...".
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