Truhe 5
Care amiche, cari amici,
siamo
giunti alla fine di questa vicenda a metà tra il serio e il faceto,
in cui abbiamo visto una rivisitazione della favola di Biancaneve
ambientata nella Berlino di fine anni ‘20. Spero che vi sia
piaciuta e che leggendola abbiate passato un piacevole quarto d’ora.
Per
quanto riguarda me, io ringrazio tutti voi per la vostra attenzione,
le vostre belle parole e il vostro supporto nei momenti critici.
Grazie
davvero a tutti^^
Capitolo
5
Florian
sedeva a un tavolino del Truhe sognando che al posto di Regine
paludata di nero ci fosse sul palcoscenico Cordula con il suo
succinto Dirndl.
Aveva
parlato con suo padre e con il signor Spiegel e il responso unanime
era stato: una delle due va tolta di mezzo, non possono coesistere.
Conti
alla mano, la mannaia si sarebbe abbattuta sul collo di Regine.
Peccato
che nonostante lo pseudonimo scelto, Regine non fosse per nulla
disponibile a farsi decapitare come un'Anna Bolena qualsiasi.
Grazie
anche ai preziosi suggerimenti di Spiegel, era stata concertata
un'operazione segreta:
il ritorno di Cordula sarebbe stato organizzato senza che nessuno ne
sapesse nulla. Alla fine Regine sarebbe stata messa davanti al fatto
compiuto ed eventualmente anche a un paio di avvocati, qualora il
fatto nudo e crudo non fosse stato sufficiente.
Il
ragazzo sorrise fra sé e sé al pensiero.
In
quel momento, una voce conosciuta lo salutò: “Buona sera, signor
König.”
Si
voltò in quella direzione e riconobbe l'uomo che aveva visto a casa
di Regine. Nonostante ogni buon proposito di considerarlo un normale
avventore del Truhe, il cuore gli fece una capriola nel petto. “Buona
sera a lei, signor Jäger,” rispose. Si alzò per stringergli la
mano.
L'altro
gli rivolse un sorriso. “Si ricorda come mi chiamo,” disse con
voce morbida.
Florian
alzò gli occhi fino a incontrare i suoi. “Anche lei.”
Jäger
annuì. “Difficile dimenticarlo.” Sorrise appena, senza spostare
lo sguardo dal suo.
Il
ragazzo arrossì lievemente. Con voce vagamente incerta chiese: “È
venuto per Regine?”
L'altro
scosse la testa e rispose: “Non direi. Più delle regine mi
interessano i re.” Fece una breve pausa, quindi soggiunse: “O i
principi.”
Florian
aveva sempre creduto di apprezzare solo le ragazze, eppure a quella
frase sentì il respiro bloccarsi. Gli occhi di Jäger, verdi e
venati di grigio, non lo abbandonavano, ma la cosa non gli comunicava
il fastidio che si sarebbe aspettato. Era piacevole, anzi. Gli
suscitava il desiderio di stare in sua compagnia, di addentarsi pian
piano nel mistero di quello sguardo cupo.
“Perché
non si siede a bere qualcosa con me?” propose.
§
Cordula
abbandonò con discrezione la sala da pranzo, dove era in corso la
solita gazzarra serale, e si diresse quatta quatta verso il salotto.
Ne aveva abbastanza della Ruhr, ne aveva abbastanza degli Zwerg –
specie di bestioni senza nessuna classe – e ne aveva abbastanza di
zia Trude, che tra una moina e l'altra la faceva sgobbare come una
specie di schiava. Per come la vedeva lei, era arrivato il momento di
fare una bella sorpresa a tutti e di partirsene per Berlino, ma
doveva stare attenta: e se la zia si metteva in testa di crearle
problemi? Molto meglio continuare a farle credere che non si sarebbe
mai più spostata da lì e poi sparire di punto in bianco.
Controllò
che il corridoio fosse vuoto, quindi si chiuse la porta alle spalle e
si diresse al telefono. Compose un numero.
L'apparecchio
squillò un po' di volte, poi una giovane voce maschile disse:
“Schatztruhe, parla König.”
Come
ogni volta, balenarono davanti agli occhi della ragazza immagini di
saloni illuminati, coppie in abito da sera, gioielli e macchine
costose. “Florian,” disse, ponendosi una mano a coppa su bocca e
microfono per smorzare la voce.
“Cordula,
tesoro!”
“Oh,
Florian. Ti penso sempre, sai?”
“Anch'io,
Cora.”
Lo
strimpellare del pianoforte cessò, Cordula sentì qualcuno fare il
suo nome. “Non ho molto tempo,” disse precipitosa. “Come stanno
andando le cose?”
“Tutto
a gonfie vele, papà e il signor Spiegel non vedono l'ora che tu
torni. Posso fare qualcosa per te nel frattempo?”
La
ragazza guardò il proprio abito: un orribile straccio fuori moda, di
un colore che le ricordava i camicioni delle carcerate. Se l'era
sistemato un po' alla meglio, ma di certo non era nulla che potesse
rivaleggiare coi capi provenienti dalle boutiques della Capitale. “Ho
bisogno della mia roba, mi servono biancheria, vestiti, scarpe.
Potresti mandarmi un pacco?”
“Ma
certo, lasciami l'indirizzo.”
“Mettici
dentro il vestito rosso, mi raccomando, e quello verde scuro. E poi
le scarpe nere di vernice e la trousse del trucco.”
“Sì,
ma dove li devo mandare?”
Cordula
gli dettò attentamente l'indirizzo, quindi gli disse: “Scusa, ma
ora devo lasciarti. Mi aspettano di là.”
Chiuse
rapida la comunicazione, troncando senza pietà le frasi zuccherose
del ragazzo, poi tornò in sala da pranzo. “Eccomi qui!” esclamò,
“Vi sono mancata?”
I
fratelli Zwerg risposero con vigorose acclamazioni.
§
Da
qualche giorno Regine aveva una brutta sensazione. Chissà, forse
essendo donna da tanti anni aveva anche messo insieme il famoso
intuito femminile, fatto sta che percepiva nell'aria qualcosa di
strano.
König
era troppo accomodante, per esempio, Spiegel troppo prodigo di lodi.
Florian gentile al limite del servilismo.
Per
quanto non gli avesse ancora restituito i compromettenti documenti,
Jäger passava più tempo allo Schatztruhe che a casa sua. Prima
della nota faccenda non ci aveva praticamente mai messo piede.
C’era
qualcosa che non andava.
Indossò
un completo da uomo con tanto di lobbia, prese le chiavi della Ford
nera e andò al Truhe.
Essendo
pomeriggio il locale era chiuso al pubblico, ma lei aveva la chiave
della porta sul retro da cui passavano personale e artisti.
Entrò
cauta, stando attenta a non far cigolare i cardini, chiuse con cura
l’anta alle sue spalle e subito si diresse verso il piano
superiore, con l’intenzione di frugare nei cassetti della scrivania
di König.
Arrivata
al corridoio che conduceva allo studio si immobilizzò: dall’interno
della stanza proveniva una voce.
Rimase
in ascolto. Era una voce maschile giovane, non se ne percepivano
altre. Era senza dubbio Florian, che o stava recitando un monologo o
stava telefonando.
Arrischiò
un altro passo verso la porta e trattenne anche il respiro per
sentire meglio.
Il
ragazzo disse: “Oh, Cora, sapessi quanto mi manchi. Ti sogno tutte
le notti, tesoro.”
Regine
si impose a fatica l’immobilità. Cora? Quindi la disgustosa
sciacquetta era ancora viva? Si mantenne in scrupoloso ascolto
sperando di aver capito male, ma no, il ragazzo stava parlando
proprio a quella
Cora, era chiaro dal tono e dal contenuto del discorso.
“Presto
sarai qui con noi,” disse Florian in tono sognante, facendola quasi
sussultare, “e quella strega maledetta dovrà lasciarti il posto,
altrimenti ci penserà mio padre a farla sloggiare.”
La
cantante strinse i pugni fin quasi a farsi penetrare le unghie nei
palmi, costringendosi però a rimanere in perfetto silenzio.
Dovette
sopportare una serie infinita di frasette smielate, ma alla fine
Florian disse: “Certo che ti ho mandato il pacco, all’indirizzo
che mi hai dato: Pensione Trude, Eichenstraße 11, Gladbeck.”
Seguirono
altre svenevolezze, poi la cornetta tornò finalmente sulla sua
forcella.
Regine
rinculò lentamente, scese in fretta le scale e si dileguò
silenziosa com’era arrivata.
Solo
quando fu nella solitudine del suo appartamento, Regine si concesse
di dar sfogo alla sua rabbia: tirò un pesante cofanetto portagioie
contro la specchiera, mandandola in frantumi; afferrò un bastone da
passeggio e con il suo pomo d’argento fracassò una pantera di
ceramica a grandezza naturale che un ammiratore straniero le aveva
donato; si avventò con il tagliacarte sui quadri e li fece a brani.
Quando
ebbe devastato mezza casa si fermò, ansante e scarmigliata,
meditando vendetta.
Andò
alla ricerca di uno specchio che si fosse salvato dalla sua furia
distruttrice e appena l’ebbe trovato vi si sedette davanti. Si
accese una sigaretta, si ravviò alla meno peggio i capelli e rimase
a fissarsi per un po’ in silenzio, mentre il respiro si
normalizzava lentamente e il cuore smetteva di martellarle nel petto.
Fece
il punto della situazione:
Chiaramente
Jäger non aveva ucciso la ragazza. Nessuno poteva salvarsi se veniva
buttato nel Landwehrkanal con la gola tagliata, e in ogni caso, anche
se il miracolo fosse accaduto, la vittima di una tale aggressione non
sarebbe certo stata in grado di fare telefonate zuccherose e progetti
di viaggio dopo così poco tempo.
La
catenina con il ciondolo gliel’aveva verosimilmente data lei, dal
momento che non era né strappata né sporca di sangue. Il che
significava che come minimo i due avevano comunicato e forse avevano
anche stretto qualche genere di accordo.
Come
se ciò non fosse bastato, la ragazza era in contatto con i due
König, padre e figlio, che stavano meditando di farla tornare. Il
fatto che tutto ciò stesse accadendo in segreto la diceva lunga
sulla limpidezza delle loro intenzioni nei suoi confronti.
Inspirò
a fondo, trattenne il fiato a occhi chiusi per alcuni secondi, quindi
lo emise lentamente attraverso le narici. Fatto ciò, riaprì gli
occhi e di nuovo fissò a lungo la propria immagine riflessa.
Avrebbero
imparato tutti quanti che con lei non era il caso di scherzare.
§
Regine
prese la scatola di cioccolatini e la pose sul tavolo della cucina,
quindi si infilò un paio di guanti da chirurgo.
Aprì
il contenitore, rivelando magnifiche praline aromatizzate alla
mandorla, fatte a forma di piccola mela, con tanto di foglia sul
picciuolo.
Prese
poi una siringa e con essa aspirò da un flacone farmaceutico un
liquido di colore rosso scuro.
Estrasse
dalla scatola la prima delle praline, tenendola fra le dita la voltò
col fondo verso l’alto, vi inserì l’ago e spinse dentro un po’
di liquido. La rimise al suo posto.
Ripeté
l’operazione con tutti i cioccolatini, consumando in quel modo tre
siringhe della misteriosa sostanza.
Fatto
questo, distrusse tutti gli strumenti che aveva usato, buttò quel
che rimaneva del contenuto del flacone nel lavello e fece scorrere
parecchia acqua, quindi avvolse il flacone stesso in un giornale
vecchio, lo frantumò accuratamente con un peso e gettò tutto il
cartoccio nell’immondizia.
A
quel punto ricompose la scatola e la chiuse con un magnifico fiocco
di raso rosso.
§
Cantando
allegramente, Cordula stava rassettando le camere dei fratelli Zwerg.
“Quanti ne farò ancora, di questi stupidi letti?” gorgheggiò
sulla melodia della sua canzone. “Quanti ne farò? Pochi, pochi,
pochissimi!”
Danzò
su e giù per la stanza, volteggiando col lenzuolo a mo’ di gonna.
“Pochissimi!” ripeté.
Era
appena arrivata una busta per lei da Berlino, Florian le aveva
mandato il biglietto del treno: solo andata, in prima classe.
“Prima
classe!” cantò garrula. “Prima classe, vita nuova. Berlino,
arrivo!”
Sospirò
felice: certo, lo Schatztruhe era già un buon locale, ma sarebbe
stato solo un trampolino, poi sarebbe passata a ben altro. La gente
avrebbe fatto la fila per sentirla cantare, sulle riviste ci
sarebbero state le sue fotografie. E poi, chissà? Magari le si
sarebbero spalancate le porte del cinema, o avrebbe potuto aspirare a
un matrimonio ben migliore di quello con un borghesuccio un po’ più
ricco della media.
In
quel momento suonarono alla porta.
Cordula
si immobilizzò perplessa. Il postino era già passato, il droghiere
anche. Chi poteva essere?
Scese
per le scale rassettandosi il vestito, andò ad aprire e si trovò
davanti un uomo. Si trattava di un signore di mezz’età alto e
magro, con un impeccabile completo gessato e una gardenia
all’occhiello. Aveva folti capelli neri e la carnagione leggermente
olivastra. In una mano teneva una piccola valigia di pelle simile a
una borsa da medico e nell’altra una scatola color crema larga e
piatta, chiusa da un nastro di raso rosso.
“Buon
giorno magnifica, sublime Cordula Kerschbaumer,” la salutò. Aveva
la voce bassa e un’inflessione vagamente straniera, forse russa o
ungherese.
Cordula
sorrise. “Magnifica? Chi è lei, signore, che mi rivolge questo
appellativo?”
L’uomo
alzò le sopracciglia e rispose: “Oh, Divina, io sono un suo
grandissimo ammiratore, finora non mi sono perso uno solo dei suoi
spettacoli. Lei non sa che piacere e che onore sia poterle parlare di
persona.” Abbassò il tono e proseguì: “Da indiscrezioni so che
dovrebbe presto tornare a Berlino. È vero, per caso?”
La
ragazza lo fissò stupita. “Oh, ma… chi gliel’ha detto?”
“Un
mio buon amico, che l’aspetta con ansia: il signor König.”
“Lei
è amico del signor König?”
L’uomo
annuì. “Direi che ci conosciamo da anni.”
“Viene
allo Schatztruhe qualche volta?”
“Direi
che lì sono di casa, mia
cara. Gliel’ho detto: non ho perso uno solo dei suoi spettacoli.”
“Strano,
non l’ho mai vista,” rispose Cordula perplessa.
L’altro
sorrise con una vaga nota di indulgenza. “Si vede che non ci ha mai
fatto caso, mia cara.” Fece una pausa, poi soggiunse: “Del resto,
è naturale: è lei che guardano tutti, non certo il sottoscritto.”
“Oh,
lei è un signore molto distinto,” si affrettò ad assicurargli la
ragazza. “Davvero, sembra un attore del cinema.”
“Oh,
no. È lei la stella, signorina Kerschbaumer.”
L’uomo
le porse poi la scatola legata dal nastro rosso e disse: “Questo è
un modesto segno della mia stima, Divina.”
Cordula
riconobbe il nome della pasticceria migliore di Berlino. A Gladbeck
non c’era nulla che somigliasse neppure lontanamente a uno degli
squisiti cioccolatini che sicuramente c'erano in quella scatola, per
cui assunse un’espressione estasiata e rispose: “Oh, grazie, la
mia marca preferita. Lei è veramente gentile.”
“Omaggi
del genere saranno all’ordine del giorno, se lei tornerà a
Berlino,” le fece sapere il misterioso signore.
“Davvero?”
“Può
starne certa.” L’uomo tirò fuori un orologio dalla tasca del
panciotto, sollevò le sopracciglia e disse: “Ora però devo
andare. Si ricordi, Divina: se tornerà a Berlino, sarò pronto ad
attenderla!”
Con
un ultimo cenno di saluto si incamminò per la strada.
Cordula
lo seguì per un po’ con lo sguardo, poi tornò in casa, corse
nella sua camera e aprì la scatola: magnifiche praline a forma di
piccola mela, di sontuoso, dolcissimo cioccolato al latte, profumate
all’aroma di mandorla.
A
Bochum, l’uomo con la borsa da medico scese dall’autobus che
proveniva da Gladbeck e si diresse verso la stazione. Una volta
entrato nell’atrio si avvicinò alle toilette e quando fu certo che
nessuno lo stesse guardando, si infilò in quella delle donne.
Cinque
minuti dopo, uscì dalla stessa porta una signora alta e snella,
pallida e dalla chioma fulva, con un tailleur scuro. Portava un
cappello a cloche ornato di piume e una borsetta di coccodrillo.
La
signora prese il treno per Berlino.
A
Berlino scese dal treno una signora dai capelli neri, pettinata à
la garçonne, con un
vestito intero e una pochette di raso, che subito salì su un taxi e
si allontanò facendo perdere le proprie tracce.
§
Gerhold
irruppe correndo in cucina ed esclamò: “Signora Staerkel, corra,
presto! Cordula sta male!”
Trude
sussultò e poco mancò che lasciasse cadere il piatto che stava
asciugando. “Sta male?” ripeté spaventata. “Che cos’ha?”
“Corra!”
Il
minatore si lanciò fuori dalla cucina e raggiunse la camera della
ragazza.
Quando
Trude lo raggiunse, lo spettacolo era dei più orribili. Gli altri
sei fratelli Zwerg erano addossati alle pareti, inorriditi e dal
primo all'ultimo paralizzati dalla paura. Al centro della stanza, sul
pavimento, Cordula, scarmigliata e sporca, giaceva in una pozza di
vomito alla quale costantemente aggiungeva nuovo materiale, scossa da
conati che la facevano contorcere di dolore. Il fetore era
insopportabile.
“Che
cos’ha?” osò chiedere Gerhold.
Berthold
lanciò un’occhiata torva a una scatola di cioccolatini quasi
vuota. “Avrà fatto indigestione, ecco che cos’ha.”
Ma
i sintomi sembravano ben più gravi, rispetto a una comune
indigestione, tanto che nella generale costernazione, per la prima
volta si fece udire la voce di Claus: “Chiamiamo il dottore?”
Il
dottore fu prontamente chiamato.
La
paziente nel frattempo aveva continuato a contorcersi in preda a
conati sempre più violenti: ormai aveva gli occhi iniettati di
sangue per lo sforzo e a ogni contrazione dello stomaco emetteva
pietosi gemiti da animale agonizzante.
“Sarà
necessario un ricovero,” sentenziò il medico.
“No!
Devo andare a...” balbettò Cordula, ma un conato particolarmente
violento troncò il resto della frase.
Cercando
di evitare le pozze di vomito, Trude si chinò accanto a lei. “E
dove vuoi andare, cara? Non vedi come stai male?”
“Devo...”
Perse
i sensi.
§
Il
signor König fissò alternativamente il figlio e il signor Spiegel,
quindi in tono risentito chiese: “E allora, questa giovane e
bellissima cantante?”
Florian
ritirò appena la testa fra le spalle. “Avrà avuto un
contrattempo,” mormorò.
“Si
è fatta sentire?”
Il
ragazzo si limitò ad abbassare lo sguardo.
“E
tu l’hai chiamata?”
“Non
ce l’ho il suo telefono, mi
chiamava sempre lei.”
“Insomma,
ragiona!” sbottò König. “Muoviamo mari e monti per darle il
numero centrale, ci prepariamo a mandare a casa una stella come
Regine per dare il suo posto a lei e questa non si presenta e non
avvisa nemmeno?”
“Potrebbe
esserle successo qualcosa.”
“Sì,
che avrà trovato un ingaggio più interessante. Io l’avevo detto
subito che non c’era da fidarsi.”
I
tre si fissarono costernati. “Che facciamo adesso?” chiese König.
Prese
la parola il signor Spiegel: “Non facciamo proprio niente.
Ufficialmente non deve tornare nessuna cantante, quindi Regine
continuerà a fare il suo numero come al solito.” Fece una pausa,
durante la quale stese una mano per afferrare la bottiglia di
whiskey, quindi soggiunse: “Finché dura, ovviamente.”
“Certo,
finché dura,” fece eco König. Recuperò un bicchiere dal carrello
che si trovava alle sue spalle e lo tese a Spiegel per farselo
riempire.
Florian
fissò i due, quindi chiese: “Ed è tutto?”
Il
genitore si voltò verso di lui. “Come sarebbe a dire?”
“Una
ragazza è scomparsa senza dare più notizie di sé, potrebbe essere
morta o morente e voi ve ne fregate?”
Fu
Spiegel a rispondere: “Sai come si dice, no? Lo spettacolo deve
andare avanti. Il Truhe dà lavoro a decine di persone, la cosa più
importante è che funzioni, e che funzioni bene. Poi ci sarà tempo
per capire cos’è successo alla Kerschbaumer.”
“E
se fosse morta?” insisté Florian.
“Più
probabilmente avrà trovato un posto che le piace di più e ha
tagliato la corda prima di impegnarsi con noi.”
“Non
ci credo. Non Cordula.”
“E
perché non Cordula?”
Florian
rinunciò a rispondere. In realtà non lo sapeva perché. Forse
perché Cora era ragazza a posto, o magari perché non voleva
ammettere che forse della ragazza a posto aveva solo l'aspetto e lui
aveva preso una cantonata. Si alzò e andò alla finestra. Stavano
già calando le prime ombre della sera e lungo i viali cominciavano
ad accendersi i lampioni. Ripensò alla prima volta che l'aveva
accompagnata a casa, rievocò il tragitto in macchina, la salita
lungo rampe di scale rischiarate solo dal debole riverbero
dell’illuminazione esterna... D’improvviso aggrottò le
sopracciglia: senza che se ne rendesse conto, il ricordo era
scivolato verso quello della prima volta che aveva visto Jäger e i
due episodi si stavano allegramente mischiando, per cui vedeva se
stesso salire lungo le scale dell’appartamento di Cora, ma in
compagnia di Erich Jäger, e alla fine lo salutava con il bacio che
avrebbe tanto voluto dare a Cordula prima di rientrare al Truhe.
Constatò
smarrito che l’immagine gli aveva fatto correre lungo la schiena
brividi sulla cui natura preferì non indagare. Si passò una mano
sulla fronte e per un attimo fu tentato di versarsi anche lui un
bicchiere di whiskey.
§
Sdraiata
in un lettino tutto bianco, in una stanzetta dell’ospedale di
Bochum, Cordula rifletteva. Il medico che l’aveva curata era stato
chiaro: ipecacuana. La sostanza, le aveva spiegato, era un potente
emetico, che assunto a dosi alte poteva anche causare danni letali.
Il
farmaco era stato rinvenuto nei cioccolatini e naturalmente non
poteva esserci finito per caso.
Ripensò
al misterioso uomo dall’accento russo. Presa dall’entusiasmo non
ci aveva nemmeno fatto caso, ma era mai possibile che un ammiratore
segreto, sapendo che stava per tornare allo Schatztruhe, si
sobbarcasse il viaggio fino a Gladbeck per portarle una scatola di
cioccolatini?
Omaggi
del genere saranno all’ordine del giorno, se lei tornerà a
Berlino.
Ecco
che quella frase assumeva di colpo un significato del tutto nuovo e
sinistro.
Chiuse
gli occhi e sollevò a fatica una mano per passarsela sul viso. Non
ci voleva un genio per capire cosa sarebbe successo se fosse tornata
a Berlino. Forse l’avrebbe scampata la prima volta, magari anche la
seconda, ma la terza?
Emise
un sospiro sconsolato e giunse alla conclusione che quell'uomo forse
non era un uomo. O meglio, lo era ma generalmente vestiva da donna.
Rammentò
il sinistro ammonimento che le aveva rivolto prima di andarsene: Si
ricordi, Divina: se tornerà a Berlino, sarò pronto ad attenderla.
Lì
per lì l’aveva preso per il complimento di un ammiratore un po’
eccentrico, ma ecco che sapendo chi era veramente la persona che le
aveva rivolto quella frase, essa acquistava di colpo tutt’altro
significato.
Era
ancora immersa in quei tormentosi pensieri quando si fece udire in
corridoio qualcosa che ricordava la corsa di un branco di bufali.
Udì
un’infermiera dire: “Non più di dieci minuti, non deve
stancarsi.”
Subito
dopo la porta si aprì e comparve sulla soglia zia Trude. Alle sue
spalle, i sette fratelli Zwerg facevano del loro meglio per riuscire
a dare un’occhiata nella stanza.
“Bambina!”
esclamò la donna, rivolgendole uno sguardo accorato.
“Sto
bene, zia Trude,” mormorò Cordula.
“Bene?
Ma, bambina mia, ho sentito quello che hanno detto i dottori:
qualcuno ha cercato di avvelenarti! Signore Iddio!”
La
donna si avvicinò al letto, afferrò una sedia e si sedette accanto
a lei. Le ghermì una mano e la strinse fra le proprie. Subito dopo i
minatori, uno dopo l’altro, si pigiarono nella piccola camera.
Tutti rimasero a guardarla con l’espressione afflitta e il cappello
premuto sul petto.
“Signorina
Cordula, siamo stati così in pena,” le confidò Dieter.
La
ragazza gli rivolse un pallido sorriso. “Ora sto un po’ meglio,
non si preoccupi.”
“Bah,
mangiare tutti quei cioccolatini,” brontolò Berthold. “Ma le
pare una cosa sensata da fare?”
Dieter
gli sferrò una gomitata.
“Ahia!”
protestò l’altro, poi aggiunse: “Ci siamo preoccupati, ecco. Non
faccia mai più una cosa del genere, ha capito?”
Gerhold,
che con la sua mole sembrava addirittura oscurare la luce che
proveniva dalla finestra, sorrise e disse: “Presto tornerà a stare
bene, non è vero, signorina Cordula?”
Peter
represse uno sbadiglio, quindi replicò: “Ma certo che starà bene.
Deve solo riposare un po’.”
Martin,
rosso come un peperone, scivolò alle spalle degli altri per non
farsi vedere. Eberhard a sua volta rinculò per soffiarsi il naso con
discrezione. In uno dei suoi rarissimi momenti di loquacità, Claus
disse: “Torni presto a casa, signorina.”
Cordula
si accorse di avere le lacrime agli occhi, e non per quello che le
era successo.
“Certo,”
mormorò, “appena starò bene tornerò a casa.”
In
quel momento entrò l’infermiera e disse: “Ora basta, devo
chiedere ai signori di uscire: la signorina Kerschbaumer ha bisogno
di riposare.”
“L’avevo
detto, io, che era solo questione di riposo,” commentò Peter a
mezza voce.
§
Lo
squillo del telefono fece quasi sussultare Florian. Lesto, il ragazzo
si avventò sulla cornetta, la sollevò ed esclamò: “Schatztruhe,
parla König.”
“Sono
Cora.”
Egli
sentì il cuore balzargli nel petto. “Cora? Ma dov’eri, cos’è
successo? Perché non sei venuta?”
Dall’altra
parte del filo si sentì una lieve risata, poi la ragazza disse:
“Devo restare qui, Florian. Zia Trude ha bisogno di me.”
A
quelle parole, il giovanotto trasecolò. “Cosa?” boccheggiò,
sperando di non aver capito bene.
“Devo
restare,” rispose invece Cordula, “qui c’è parecchio da fare e
la zia comincia ad avere una certa età.”
“Ma...”
A Florian pareva che il mondo gli stesse crollando addosso. “Ma se
è quello il problema, Cora, coi soldi che guadagnerai cantando al
Truhe potrai pagarle dieci donne di servizio, a tua zia! Potrai
pagarle un intero stuolo di domestici, potrai farla vivere nel
lusso.”
“A
zia Trude piacciono le cose semplici e non vuole estranei per casa.
Staremo qui io e lei.”
“Cora!”
esclamò il ragazzo, col tono che avrebbe usato per chiamare aiuto.
“Sì?”
“Cora,
ma tu hai una carriera a cui pensare, hai un futuro. Non puoi mandare
tutto all’aria per fare le pulizie in una pensione.”
“Ho
scoperto che anche a me piacciono le cose semplici, Florian. Abbi
cura di te.”
Cordula
riattaccò con fare pensoso. Non era poi così vero che amasse le
cose semplici. O meglio, amava semplicemente
il lusso e semplicemente
la fama, ma senz'altro era meglio essere certa di vivere nella
pensione di zia Trude che rischiare di morire nella città del vizio
e del divertimento.
E
poi, comunque, la Ruhr era vicino alla Francia, e in Francia c'era
Parigi, la Ville
Lumière. A Parigi
c'erano locali famosissimi come Moulin Rouge e Folies Bergère.
Certo,
avrebbe dovuto cambiarsi il nome, in Francia non avrebbero gradito
molto una tedesca di nome Cordula Kerschbaumer. Ragionò sul nome
d'arte da adottare e lo sguardo le cadde sulla vetrina dei liquori,
che zia Trude teneva gelosamente chiusa a chiave. All'interno del
mobile faceva bella mostra di sé una bottiglia di acquavite di
ciliegie.
Sorrise
con la soddisfazione dell'illuminazione raggiunta e ad alta voce
disse: “Cora Kirsch!” E poi pensò: Cora Kirsch, la grandissima
artista, direttamente dai cabaret di Berlino, Cora Kirsch la Divina,
Cora Kirsch...
La
voce di zia Trude la riportò bruscamente alla realtà: “Cora! Hai
messo a scaldare la zuppa di cipolle?”
La
ragazza emise un sospiro e scuotendo la testa abbandonò il salotto.
§
Florian
rimase impietrito con la cornetta in mano, incapace anche del più
piccolo movimento. Gli sembrava di essere appena piombato in un
incubo, tutto il castello di progetti che aveva edificato sul ritorno
di Cordula a Berlino si era appena sgretolato.
Dal
telefono proveniva il segnale di linea libera. Chiuse maldestramente
la comunicazione, quasi facendo cadere la cornetta dalla forcella,
poi si passò una mano sugli occhi e la ritrasse umida. Arretrò a
passi malfermi, come un ubriaco.
Abbandonò
lo studio del padre, percorse il corridoio e imboccò la scala che
portava alla sala centrale. Il locale stava aprendo e gli avventori
vi si riversavano chiacchierando e ridendo fra loro. Tra la gente
vestita a festa c'era un'aria di allegra aspettativa, tutti
sembravano spensierati e felici. Si appoggiò a una colonna per non
essere d'intralcio alla fiumana in entrata e tenendosi in disparte
rimase a guardare la folla stranito, come se stesse assistendo a
qualche strana danza tribale di cui non riusciva a cogliere il
significato.
Una
voce lo fece sussultare: “Lei qui, Florian?”
Il
ragazzo si girò e riconobbe l'uomo in piedi davanti a lui. “Buona
sera, signor Jäger,” lo salutò con voce spenta.
“La
prego, mi chiami Erich.”
Florian
chinò la testa e mormorò: “D'accordo: Erich.”
L'altro
si piegò per catturare il suo sguardo. Lo fissò attento,
aggrottando appena le sopracciglia, poi gli chiese: “C'è qualcosa
che non va, Florian?” Sollevò una mano e gliela posò sulla
spalla.
Il
ragazzo non riuscì a impedirsi di annuire.
“Vuoi
parlarmene?”
Florian
registrò che l'altro gli aveva appena dato del tu e la cosa, invece
di sembrargli una mancanza di rispetto, gli diede un dolce senso di
calore.
Con
la mano libera, Erich gli sollevò delicatamente il mento ed egli si
trovò a fissare i suoi occhi, verdi, screziati di grigio e in quel
momento anche velati di apprensione. “Ti preoccupi per me?” gli
chiese.
“Sì.”
I
volti si avvicinarono.
“Davvero?”
sussurrò Florian. Deglutì mentre sentiva il cuore balzargli nel
petto. Forse avrebbe dovuto tirarsi indietro, liberarsi da
quell'abbraccio che si stava facendo sempre più intimo, ma era come
se qualcosa gli impedisse di muoversi. L’immagine di Cora in abiti
di scena, fino a quel momento così vivida nella sua mente, si stava
facendo sbiadita come un abito lavato troppe volte. Socchiuse gli
occhi. “Erich,” mormorò, praticamente contro le sue labbra.
“Mio
principe,” rispose l'altro.
Come
in una vertigine, Florian si sentì spingere all'indietro, via dagli
sguardi indiscreti. Si abbandonò fra le sue braccia e le loro bocche
si unirono in un lungo bacio.
§
Il
pubblico era in delirio, le acclamazioni facevano letteralmente
tremare i lampadari di cristallo del Truhe. Sul palco piovevano
fiori.
Sola
nel cerchio di luce dell'occhio di bue, fasciata in un lungo abito di
lamè argentato, Regine si inchinava e mandava baci.
Seduti
a un tavolino proprio sotto il palco, Erich e Florian si scambiarono
un'occhiata.
“È
un trionfo,” disse il primo.
L'altro
fece un lieve sorriso e rispose: “Già.” Spinse la mano fino a
sfiorare la sua.
Erich
si piegò per toccarlo con la spalla, quindi con voce sommessa gli
chiese: “Stai bene, ora, mio principe?”
Florian
annuì. “Sì, perché ci sei tu.”
E
vissero (quasi) tutti felici e contenti.
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