Ciao a tutti,
eccovi
un altro pezzo del mappazzone fantasy. Grazie a tutti quelli che mi
hanno seguito fin qui, spero che apprezzerete anche il resto^^
Capitolo
2
Il
campo di addestramento numero dodici era considerato il peggiore di
tutta Herburg. Il più difficile, quello col terreno più infido. Si
diceva che avesse causato più contusioni, ferite e ossa rotte di
una banda di Orchi Cinerei inferociti.
Sotto
il cielo cupo era una distesa grigia, fangosa, disseminata di
pozzanghere, sulla quale si susseguivano ostacoli di vario genere, in
un percorso che normalmente dava fondo a ogni energia di un soldato
mediamente addestrato e faceva cadere svenute le reclute che da poco
avevano ricevuto l'uniforme nera.
Ehrenold
strinse gli occhi mentre un lieve sorriso gli increspava le labbra.
Non si faceva mai tutto, il Campo dodici. Se ne facevano dei pezzi,
più o meno lunghi a seconda delle intenzioni dell'istruttore: un
buon maresciallo sapeva perfettamente a che punto del percorso
spedire un soldato e quanto spingerlo per ottenere di volta in volta
un allenamento, un allenamento duro, una punizione moderata o una
punizione che non sarebbe stata dimenticata mai più.
Il
Luogotenente raggiunse il recinto che lo delimitava e di nuovo fece
scorrere lo sguardo sui vari ostacoli. Si soffermò sul Muro, una
parete di legno posta alla sommità di una piccola salita. Essa era
consumata da innumerevoli cotte di maglia che vi avevano urtato
contro. Periodicamente veniva ridipinta, ma la pittura non durava mai
più di qualche settimana. Riconobbe il suo bordo superiore smangiato
dall'uso, rievocò la sensazione di trionfo di far passare la gamba e
poi tutto il corpo oltre quell'asse scabra. Di nuovo sorrise fra sé
e sé e si rivide ragazzo, con l'uniforme nera appena conferita, che
correva su per la salita con uno zaino affardellato, saltava, si
tirava su a forza di braccia e si lasciava cadere dall'altra parte
con la sensazione di aver appena valicato il più alto dei Monti
Utash.
In
quel momento vide due figure avvicinarsi. Le osservò più
attentamente e si accorse che erano un maresciallo e una recluta. Il
ragazzo doveva avere sui sedici anni, perché sull'uniforme nera non
aveva ancora alcuna insegna. Notò che era un po' più alto
dell'istruttore, anche se per forza di cose meno robusto, e aveva un
bel portamento fiero. Considerò tra sé e sé che uno così sarebbe
stato probabilmente scelto per far parte della Guardia d'Onore.
In
quel momento l'istruttore disse qualcosa e il ragazzo fece una cosa
inaudita: si girò e rispose in tono aspro.
Un
istante dopo, rotolò a terra colpito dallo scudiscio del
maresciallo. Si rialzò torvo, rigido, con le spalle ingobbite e i
pugni stretti, quindi lanciò al suo antagonista una tale occhiata di
odio che Ehrenold stesso si trovò ad aggottare le sopracciglia
disorientato.
Il
sottufficiale però sembrava piuttosto avvezzo a quel tipo di
comportamento e si limitò a indicare al ragazzo un punto del
percorso. Il Luogotenente riconobbe la posizione: punizione molto
dura.
Non
si trovò in disaccordo con quella scelta: in un esercito la
disciplina era tutto ed era bene che le reclute – ragazzetti che
cominciavano appena a sperimentare la loro forza, esuberanti come
torelli in primavera – capissero subito che i gradi andavano
rispettati.
Intrecciò
le mani dietro la schiena e per un po' rimase a seguire la punizione
da lontano.
Notò
che il ragazzo era veloce e affrontava gli ostacoli con piglio
deciso, senza lasciarsi spaventare dalle difficoltà del percorso. Lo
vide cadere in una pozza d'acqua limacciosa, arrancare fino al bordo
con tutto l'equipaggiamento addosso, scrollarsi e riprendere
grondante la corsa.
Si
avvicinò.
Il
maresciallo, che stava seguendo il ragazzo, al rumore dei suoi passi
si voltò e salutò militarmente. Ehrenold rispose al saluto. L'uomo
lo fissò aggrottando le sopracciglia, poi sul volto gli comparve un
sorriso. “Ne hai fatta di strada,” constatò. Si pose i pugni sui
fianchi e lo rimirò con fare compiaciuto. “Luogotenente,
addirittura.”
L'ufficiale
lo fissò a sua volta: l'uomo aveva qualche cicatrice e qualche
tatuaggio di guerra in più rispetto a quel che ricordava, ma
espressione e corporatura non erano cambiate per niente. “Maresciallo
Tenhar,” disse.
“Ehrenold,
giusto?”
“Sì.”
“Sei
qui per i Giochi?”
“Sì,
comando la squadra di Heiswegen.”
Senza
togliere i pugni dai fianchi, il maresciallo sollevò le sopracciglia
e annuì, poi disse: “Lo dicevo che avresti fatto strada.”
Ehrenold
sorrise. “Veramente, maresciallo, se non ricordo male dicevi che
ero uno stupido bue, buono solo per tirare un aratro.”
L'altro
fece un gesto come per allontanare un insetto, quindi rispose: “Ma
sì, quelle sono le solite cose che si dicono ai ragazzi per evitare
che si montino troppo la testa, soprattutto se sono migliori degli
altri.” Poi, dopo una pausa, in tono di vago rimprovero: “Dovresti
saperlo, Luogotenente.”
Ehrenold
assentì. “Sì, certo.”
“Tu
l'hai finito tutto il Campo Dodici.”
“Mi
ricordo.”
“Beh,
non era il caso che mettessi su troppa boria, non ti pare? Mi ricordo
che anche da giovanotto eri ambizioso.”
“Cosa
ti fa pensare che lo sia?” gli chiese Ehrenold.
“Ragazzo,
se non ricordo male hai venticinque anni e sei già Luogotenente. Hai
intenzione di diventare il Sovrintendente più giovane di tutto
l'esercito di Kjarr?”
“Non
mi dispiacerebbe se accadesse.”
“E
poi mi dici che non sei ambizioso.” Tenhar stava per aggiungere
altro, ma in quel momento la recluta, che si stava arrampicando su
una fune, perse la presa e piombò a terra di schiena.
Immediatamente,
il maresciallo tuonò: “Alzati in piedi, specie di pelandrone
inutile! Hai intenzione di trascorrere la mattina a dormire?”
La
recluta si rigirò su un fianco e puntò a terra una mano come per
sollevarsi.
“Muoviti!”
lo incalzò Tenhar, “Pensi che il nemico se ne stia ad aspettare
educatamente in un angolino fino a che tu non ti sei rimesso dritto
sulle gambe?” A grandi passi lo raggiunse, quindi fece sibilare in
aria lo scudiscio e gli assestò un colpo sulla schiena. La recluta
scattò in piedi, quindi con mossa fulminea si protese per afferrare
il nerbo. Il maresciallo però evidentemente se l'aspettava, perché
con un gesto ancora più repentino lo sottrasse alla sua presa e di
nuovo lo colpì con esso, questa volta in pieno viso. Il ragazzo
emise un ringhio, ma rimase immobile. Persino dalla distanza a cui
stava assistendo alla scena, Ehrenold colse nel suo sguardo torvo il
brillio della sfida.
“Chi
è?” chiese quando il maresciallo fu di nuovo accanto a lui.
Tenhar
alzò le spalle. “Un cavallo selvaggio. Ne salta fuori uno in ogni
Compagnia, più o meno: un ragazzetto presuntuoso che crede di poter
obbedire agli ordini solo se ne ha voglia.”
“Vanno
raddrizzati,” si limitò a considerare Ehrenold. Spostò nuovamente
lo sguardo sul ragazzo, che stava correndo sul terreno dissestato
come un cervo inseguito da una muta di cani. Lo vide arrivare a una
serie di tronchi successivi, posti di traverso sul percorso, distanti
l’uno dall’altro circa un braccio e ad altezza crescente da
terra. Strinse appena gli occhi: l'ostacolo era uno dei più infidi,
richiedeva equilibrio, agilità e forza. Era necessario balzare da un
tronco all'altro senza fermarsi e alla fine spiccare un balzo più
lungo degli altri, afferrare al volo una fune penzolante,
arrampicarsi su quella e poi tornare giù scivolando lungo una
pertica.
Ehrenold
rimase immobile a fissarlo. Il ragazzo saltò sul primo tronco,
ondeggiò ma mantenne l'equilibrio, passò al secondo e poi al terzo,
allargò le braccia per non cadere, saltò sul quarto...
“Non
ce la fa,” disse Tenhar scuotendo la testa.
Il
ragazzo scivolò, cercò con un guizzo di rigirarsi e aggrapparsi al
tronco, ma crollò a terra sollevando uno spruzzo di fango.
“Alzati,
specie di idiota!” ruggì il maresciallo, quindi a voce più bassa,
rivolto a Ehrenold: “Sarebbe un buon elemento, ma lo vedi anche tu:
troppo precipitoso, non pensa a quello che fa, la sua unica
preoccupazione è alzare la cresta, come se servisse a qualcosa.”
“Chiamalo
qui,” disse il Luogotenente.
Il
maresciallo aggrottò appena le sopracciglia come se la cosa lo
stupisse, ma subito dopo si girò di nuovo verso il campo e disse:
“Tu! Vieni qui subito!”
Il
ragazzo abbandonò il percorso e li raggiunse, quindi si mise
sull'attenti.
Ehrenold
lo squadrò serio: era fradicio, coperto di fango, con il volto
bianco di fatica e la guancia segnata dal colpo di scudiscio. Ansava
pesantemente.
“Come
ti chiami?” gli chiese.
Il
ragazzo serrò i denti e incupì lo sguardo. “Siwald.”
“Siwald,
Luogotenente,” lo corresse il maresciallo. Il ragazzo strinse gli
occhi e ripeté: “Siwald.”
Tenhar
lo colpì di nuovo con lo scudiscio, il giovane si limitò ad
aggrottare le sopracciglia, poi a bassa voce ringhiò: “E adesso
cosa fai, maresciallo, mi spedisci sul percorso di guerra? Sai che
novità.”
In
tono pacato, il sottufficiale rispose: “No, il percorso di guerra è
per i soldati. C’è giusto bisogno di un mulo alla cava, domani ti
presenterai là all’alba e farai quello che ti ordineranno.”
“Sissignore.”
“Ora
torna sul campo e ripeti i tronchi.”
“Sissignore.”
Il
ragazzo salutò e corse via.
Ehrenold,
che aveva assistito impassibile alla scena, a quel punto chiese: “Gli
è già stato assegnato un mentore?”
Tenhar
scosse la testa. “Lo vedi anche tu com’è: provoca, fa lo
stupido, cerca sempre di avere l’ultima parola. Se l’era preso
uno della Guardia d’Onore, nientemeno, e dopo qualche giorno l’ha
rifiutato.”
“Come
mai?”
Il
maresciallo alzò le spalle. “È il peggior cavallo selvaggio che
mi sia capitato da anni. Uno così non lo vuole nessuno.”
“Si
è fatto avanti qualcun altro?”
“Sì,
del resto lo vedi com’è: ha del potenziale.”
“E
quindi?”
“Niente,
anche il secondo l’ha rifiutato.”
Ehrenold
assentì serio. “Gliene resta uno,” considerò.
“Già,
poi finisce a fare lavori di fatica per il resto della sua vita.
Niente armi, niente onore.”
Il
Luogotenente volse di nuovo lo sguardo verso il ragazzo: lo vide
balzare dal tronco più alto, afferrare la fune e sollevarsi a forza
di braccia fino al gancio che la sosteneva. “Sarebbe un peccato,”
disse.
§
Ehrenold
portò fuori dalla scuderia il cavallo, quindi gli fece fare qualche
passo sul selciato. Si chinò e si accertò che le zampe dell’animale
fossero state fasciate accuratamente, poi passò a controllare la
sella.
“È
a posto,” gli disse Rowden, già in groppa al suo destriero.
“È
sempre meglio esserne certi.”
“Da
queste parti gli stallieri sanno il fatto loro.”
“Come
se alla nostra guarnigione non fosse così.” Poi, dopo una pausa:
“Voglio portare gli uomini sul percorso della prova di campagna.”
Detto questo, Ehrenold allungò le staffe, mise le redini sul collo
del cavallo e montò in sella. Come sua abitudine, fece fare qualche
passo all’animale tenendogli le redini lunghe, poi le accorciò
nuovamente chiedendogli un assetto impostato. A quel punto spronò e
partì al piccolo trotto.
La
squadra gli si accodò assumendo la corretta formazione.
Raggiunsero
una zona poco lontano dal giro di mura più esterno di Herburg, che
veniva mantenuta incolta e boscosa proprio per lo svolgimento dei
Giochi. Vi si snodava un grossolano percorso lungo il quale, a
intervalli regolari, si trovavano postazioni per gli osservatori,
ovvero coloro che avevano il compito di controllare che il
regolamento fosse rispettato e le formazioni mantenute.
Il
cielo era azzurro, ma la mattina era fredda e l’erba ghiacciata
scricchiolava sotto gli zoccoli dei cavalli. I rami degli alberi,
ancora spogli, erano coperti da una sottile patina di brina, che
riluceva sotto i raggi del sole.
Sul
terreno indurito dal gelo gli zoccoli tonfavano cupi.
Ehrenold
percepì un animale che scartava alle sue spalle. “Tenere i cavalli
alla mano,” ordinò senza voltarsi. Scrutò il percorso, che si
addentrava nella selva tra rovi e tronchi caduti. Ogni tanto vi era
un piccolo segnale rosso, che indicava gli ostacoli. Il primo – il
più facile – era uno sbarramento costituito da tre file di barili
rovesciati.
“Dietro
di me,” ordinò, quindi mise il cavallo al galoppo leggero.
In
quel momento, l’aria sembrò tremare per un improvviso rombo di
zoccoli. Ehrenold fermò la squadra, quindi si girò sulla sella:
c’era un’altra squadra in avvicinamento. Il suo sguardo si fece
acuto ed egli d’istinto rinsaldò la stretta delle ginocchia sulla
cavalcatura. Rowden, che a sua volta s’era girato per guardare, a
bassa voce gli raccomandò: “Non fare azioni avventate.”
I
nuovi arrivati si avvicinarono ulteriormente, poi il comandante del
drappello fece cenno ai suoi di fermarsi e continuò ad avanzare da
solo.
Ehrenold
rivolse uno sguardo all’amico, quindi raggiunse l’altro e gli
chiese: “Che ci fai qui?”
Questi
sorrise ironico. “Strana domanda da parte tua: porto i miei a
vedere il percorso.”
“Adesso
tocca a noi.”
L’altro
scosse la testa. “Tocca a chi se lo prende. Non è questa la tua
filosofia?”
Ehrenold
assottigliò lo sguardo. “Che intendi dire?”
“È
quello che hai fatto nella battaglia di Aleet, no?”
“Negativo.
Nella battaglia di Aleet ho eseguito gli ordini, e prima te ne
convincerai, meglio sarà per te.”
“Gli
ordini di chi?” replicò l’altro sprezzante. “Quelli che ti sei
dato da solo, forse.”
“No,
quelli del Sovrintendente Durwane.” Ehrenold fece una breve pausa,
quindi aggiunse: “Hai mai pensato di chiedere a lui come sono
andate veramente le cose? Oppure ti fa comodo pensare che la
promozione sia toccata a me perché ho agito in modo scorretto?”
“Ma
certo, è molto semplice,” lo rimbeccò sarcastico il nuovo
arrivato, “mi faccio dare una licenza, attraverso l’Impero,
arrivo fino ai territori di Kelesh, cerco il Sovrintendente Durwane e
se non è ancora caduto in battaglia e acconsente a darmi udienza,
gli chiedo come sono andate veramente le cose. Ma perché non ci ho
pensato prima, dico io?”
“Te
lo dico io perché non ci hai pensato, Wardan,” replicò duro
Ehrenold, “perché è a
te che fa molto comodo
pensare che sia andata come tu immagini. La verità però è
un’altra: io ho eseguito gli ordini del Sovrintendente, ho fatto
avanzare i miei uomini nella maniera più giusta e ho conquistato
l’obiettivo. E ora tornatene dai tuoi e lasciaci passare: per le
prossime due ore il percorso è nostro.”
“Io
dico che il percorso è di chi se lo prende!” replicò brusco
Wardan, quindi spronò il cavallo, che balzò in avanti costringendo
Ehrenold a far scartare il proprio per non venire travolto.
Il
Luogotenente riprese in un attimo il controllo del destriero, quindi
si lanciò all’inseguimento del rivale.
Rowden
si voltò verso la squadra e in tono imperioso disse: “Voi restate
qui!” Poi si rivolse alla squadra di Wardan e aggiunse: “E anche
voi!”
Si
fece avanti un maresciallo: “Conosci le regole, capitano: durante i
Giochi i gradi non contano.”
“Certo,”
replicò Rowden, “comanda la squadra chi è più bravo, giusto?”
Spostò il cavallo in modo da pararsi tra i due gruppi e l’inizio
del percorso. “Oppure chi ha più buon senso.”
Non
aggiunse altro: spronò l’animale e scomparve sulle tracce dei due
ufficiali.
Percorse
il primo rettilineo a rotta di collo, gli occhi fissi sull’ostacolo
di barili. Volò sullo sbarramento, si piegò per evitare un ramo,
quindi si raddrizzò subito dopo e serrò le ginocchia per affrontare
una curva a gomito. Superata quella, vide in fondo a un rettilineo i
due capisquadra che galoppavano fianco a fianco, cercando di
superarsi a vicenda. Fece un rapido calcolo: non sarebbe mai stato in
grado di raggiungerli, ormai avevano troppo vantaggio.
Percepì
un rumore di zoccoli alle spalle, si girò e vide il maresciallo che
gli aveva risposto poco prima. L’uomo galoppava a briglia sciolta,
tenendosi piegato sulla sella per guadagnare più velocità
possibile.
“Capitano!”
lo udì gridare. “Capitano Wardan!”
Rowden
spronò a sua volta, sebbene l’animale stesse già correndo così
forte che nell’aria gelida gli lacrimavano gli occhi. Sbatté la
palpebre, ma non osava staccare una mano dalle redini per tergersi.
Alzò comunque lo sguardo, e pur sfocata vide la seguente scena: il
cavallo di Wardan scartò, urtò quello di Ehrenold e lo spinse verso
il bordo pista, che in quel punto era coperto di alti cespugli dai
rami spinosi.
Il
destriero del Luogotenente scivolò sul terreno ghiacciato e ruppe
l’andatura. Si mantenne in piedi, ma finì fuori pista, fece due o
tre tempi di galoppo tra gli sterpi e saltò un ramo caduto, quindi
sgroppò e scrollò la testa innervosito. Ehrenold strinse le
ginocchia e lo riportò sul terreno battuto, ma Wardan aveva già
preso troppo vantaggio e stava scomparendo dietro una curva.
Fermò
il cavallo.
Rowden
tirò a sua volta le redini e fu oltrepassato dal sottufficiale, che
in breve scomparve dietro il suo comandante. Batté la mano sul collo
del destriero e gli fece fare qualche passo. Accaldati per la folle
galoppata, gli animali erano circondati da una nuvola di vapore ed
emettevano getti bianchi dalle froge a ogni respiro. “Ti ha
spinto,” disse.
“Può
darsi,” fu la risposta di Ehrenold, “di sicuro sperava che sarei
caduto o avrei azzoppato il cavallo.”
“Se
lo segnalassi ai giudici, sarebbe squalificato.”
Il
Luogotenente scosse la testa. “Se tu lo segnalassi, il suo
maresciallo direbbe che non è vero e si aprirebbe un’indagine.”
“Ma
tu puoi confermare che ti ha spinto deliberatamente, quindi
l’indagine ci darebbe ragione.”
“Non
è detto, in fin dei conti è la nostra parola contro la loro,
inoltre non eravamo in gara e quello che ha fatto Wardan in senso
stretto non è proibito.” Ehrenold si voltò verso la direzione in
cui i due erano scomparsi, quindi aggiunse: “E poi dovrei quasi
ringraziarlo: in questo modo mi ha fatto capire cos’ha in mente.”
Rowden
si girò a sua volta verso il proseguimento della pista, quindi fissò
l’amico e gli chiese: “Pensi che lo rifarà?”
Ehrenold
alzò le spalle con noncuranza. “Senza dubbio sta meditando
qualcosa, ma non farà niente in gara: ci sono gli osservatori e
avrebbe troppo da perdere se lo vedessero.” Mise il destriero al
passo. “Ora andiamo, però. Già che i ragazzi sono in sella,
voglio approfittare per fare un po’ di allenamento.”
“Sei
ferito da qualche parte?”
“Solo
un paio di graffi.”
“E
il cavallo?”
“A
posto. Fergund sa il fatto suo.”
Per
un po’ procedettero in silenzio uno accanto all’altro, poi d’un
tratto Ehrenold chiese: “Hai mai pensato a quando dovrai fare il
mentore?”
Rowden
aggrottò le sopracciglia e si voltò stupefatto a fissarlo. “Prego?”
chiese, ancora non del tutto certo di aver capito bene.
“Il
mentore,” ripeté Ehrenold mantenendo lo sguardo fisso fra le
orecchie del cavallo, “prendere un ragazzo, insegnarli le cose.”
Fece una pausa, a Rowden parve che sorridesse fra sé e sé.
“Trasformarlo in un soldato.”
Il
capitano lasciò passare qualche istante, quasi aspettandosi che
l’altro avrebbe aggiunto qualcosa, infine si decise a chiedere:
“Come mai mi fai questa domanda? Tutti lo dovremo fare, prima o
poi, è la regola.”
“Tu
pensi che sia difficile?” continuò Ehrenold, seguendo il filo dei
propri pensieri.
Rowden
scosse la testa. “Non saprei, francamente non ci ho mai pensato. Ma
poi, cosa sono questi discorsi? Adesso dobbiamo pensare ai Giochi,
faremo i mentori quando sarà il momento, esattamente come diamo il
nostro contributo alla generazione quando le matrone stabiliscono che
dobbiamo farlo.”
Ehrenold
annuì a quelle che erano cose ben note per ogni uomo di Kjarr,
tuttavia dopo un po’ disse: “Tu credi che io sarei in grado di
farlo?”
A
quel punto, Rowden fermò il cavallo, costringendo l’altro a fare
altrettanto, quindi replicò: “Senti un po’, ogni promozione che
hai ricevuto è stata sul campo, sei il comandante di una squadra dei
Giochi, hai solo venticinque anni e hai già non so quanti tatuaggi
di guerra, sei l’incarnazione di ogni valore di Kjarr. Se non sei
in grado tu, non vedo chi possa esserlo. E comunque, ti ripeto che
adesso non è una faccenda di tua competenza. Ti occuperai di un
ragazzo quando ti diranno che devi farlo.”
Ehrenold
non rispose. Il sole si era alzato ulteriormente e la brina che
copriva i rami aveva cominciato a sciogliersi, rendendoli lucidi e
scuri. Nell’aria c’era un gran silenzio, solo in lontananza si
sentiva l’eco flebile di una canzone di marcia. Rowden seguì lo
sguardo dell’amico e si accorse che egli stava cercando di
localizzare la provenienza del canto. “Ci sei?” gli chiese.
L’altro
ebbe un lieve sussulto. “Sì, scusa.”
“Dicevo
che adesso dobbiamo pensare ai Giochi, Ehrenold, null’altro
importa.”
“Ovvio
che penseremo ai Giochi,” rispose il Luogotenente con una nota di
durezza nella voce.
“Null’altro
importa,” ripeté Rowden. “A Heiswegen si aspettano che diamo
buona prova di noi, non possiamo deludere chi ci ha dato fiducia.”
“Non
lo faremo,” replicò Ehrenold incupendo lo sguardo.
“E
allora è il caso che tutte le nostre energie finiscano lì,” gli
ricordò Rowden. “Lascia perdere la faccenda del mentore finché
non sarà tutto concluso.”
L’altro
rimise il cavallo al passo, segno che considerava la discussione
finita. Il capitano restò per qualche istante a guardarlo mentre si
allontanava, quindi spronò a sua volta la cavalcatura e lo
raggiunse.
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