Greta piaceva a tutti.
Possedeva una squisita eleganza, il suo modo di parlare era forbito, ma
mai pomposo. Indossava sempre degli abiti succinti e i suoi occhi erano
sempre incorniciati da una linea di eyeliner – che in
realtà non serviva a niente, lei era già bella
così.
Sarebbe stata magnifica persino con un sacco di juta e una pinza per
capelli in testa.
Durante l’intervallo, non era una novità osservare
sull’uscio dell’aula qualche spasimante in
borghese, speranzoso di poterle rubare qualche secondo di
conversazione.
Lei si alzava sempre a salutare tutti. Persino quando in aula entrava
un collaboratore scolastico, la sua piccola figura s’ergeva
dal primo banco con fare solenne, simboleggiando quel rispetto che
aveva sempre nutrito nei confronti dell’istituzione
scolastica.
Come se tutto ciò non bastasse, Greta era brava a scuola.
Una secchia,
qualcuno avrebbe potuto dire, ma nessuno s’era
mai azzardato a canzonarla, perché faceva parte di quella
privilegiata categoria di persone talmente brillanti da metter quasi
soggezione. Inoltre, era una di quelle che ti passava la versione
sottobanco.
Certo, doveva per forza essere buona, una come lei. In fondo risultava
troppo, chiedere che fosse almeno una stronza senz’anima.
Era a causa di tutta quell’aura di sempiterna
virtù, che Nives proprio non riusciva a sopportarla: dalla
profondità del suo ultimo banco, la piccola quattrocchi non
avrebbe mai potuto raggiungerla, quella luce.
Non che le importasse davvero. Si sarebbe accontentata volentieri perfino
di passare inosservata, ma la verità era ben diversa.
Se Greta non poteva essere scalfita dalle burle dei suoi compagni di
classe, c’era pur sempre lei,
la Quattrocchi. Grazie al suo
modo di fare timido ed esitante tutto era più semplice, la
si poteva prendere in giro come si voleva, era una ragazza
così insipida e piena di tic che bastava guardarla per
inventarsi un nuovo soprannome – e questo a prescindere dal
suo ridicolo nome, che già era stato ampiamente testato per
usarlo qualora tutti gli altri soprannomi non fossero più
stati divertenti.
Anche quel giorno se ne stava in disparte, la ragazzina bubbonica,
mentre sperava che il suono della campanella potesse arrivare un
po’ prima del previsto. In attesa del trillo imminente, la
sua mano faceva scorrere veloce la gomma su e giù per il
banco, nella vana speranza di cancellare quelle scritte a pennarello
indelebile.
Puzzi.
Hai del parmigiano in testa,
ah no, è forfora.
Con quegli occhiali giganti non ti si
vede la faccia. Meglio.
Nives non piaceva a nessuno. Aveva le sopracciglia incolte, gli occhi
incavati e non si faceva mai i baffetti – o almeno non
più.
‒ Devi farteli con la ceretta, stupida ‒ si era sentita dire un giorno
dalle sue compagne di classe, ‒ altrimenti, con i peli scuri che ti
ritrovi, assomigli a un orso.
Ci aveva provato il giorno dopo, ma sua madre le aveva risposto che era
ancora troppo piccola per pensare a certe cose. Così, si era
accontentata di un rasoio Wilkinson a tre lame, di quelli che suo padre
utilizzava innumerevoli volte, nonostante fossero usa e getta.
Il lunedì seguente si era presentata in aula con un taglio
che le sfigurava il labbro da parte a parte. Però non aveva
più i peli, almeno. Avrebbe dovuto pur contare qualcosa.
L’avevano presa in giro fino a quando non si erano stufati.
Erano loro, quelli che si stancavano di lei; per qualche ragione, non
accadeva mai il contrario. Forse dipendeva dal fatto che, sebbene fosse
lei il target preferito d’insulti e dispetti, Nives non
cercava mai di difendersi. Se ne rimaneva zitta, stringendo le labbra e
abbassando lo sguardo. Una così avrebbe fatto
pietà persino ad un sadico.
Accadeva ogni volta: passava le sue giornate pregando qualunque santo
che conosceva di non dover fare nulla per cui valesse la pena esporsi.
Persino durante l’appello faceva fatica ad alzare la mano e a
pronunciare “Presente!”, e quando lo faceva
c’era sempre qualcuno che la ridicolizzava. ‒ Non si
è sentito ‒ le dicevano, ‒ alza un po’ la voce.
A peggiorare le cose, era il suo cognome: Vitale, esattamente quello
dopo Vallante. Greta
Vallante.
Poteva davvero far risuonare fieramente la sua voce gracchiante, dopo
aver sentito la dolcezza del timbro vocale della compagna? Se
l’era chiesto troppe volte, facendo finta di non darci troppo
peso. In realtà, per quello stupido quesito aveva passato
più di una notte ad occhi aperti.
Se solo fossi un po’
più come lei, si era detta un
giorno, mentre prendeva la strada per i grandi magazzini.
Le era subito piaciuto, quel maglione giallo con sopra la scritta Make
It Better. Tra l’altro si ricordava
d’aver visto
molte sue compagne di scuola indossare quelle felpe giganti. Oversize,
le era parso di sentire durante una conversazione; chissà,
magari una di loro avrebbe anche potuto chiederle dove
l’avesse comprato e magari lei avrebbe potuto accompagnarla.
Avrebbero potuto scambiarsi i numeri di telefono e decidere
d’incontrarsi il giorno dopo per prendere un gelato alla
caffetteria.
Sì, le sarebbe piaciuto.
Giulia De Santis fu la prima ad incrociarla, di fronte
all’ingresso della scuola. Si portò le mani
laccate dalle unghie di gel permanente alla bocca, trattenendosi dallo scoppiare a
riderle in faccia.
‒ Scusa, Nives. ‒ Si era avvicinata a lei, afferrandole un lembo del
nuovo acquisto. ‒ Dove hai trovato questa… cosa?
La ragazza con gli occhiali sorrise, emozionata al pensiero che
finalmente qualcuno avesse potuto notare il suo cambiamento. ‒ Ai
grandi magazzini.
‒ E hai pagato per averla?
‒ Certamente ‒ s’era affrettata a dire. Ci mancava solamente
che pensasse che fosse anche una ladra. ‒ Costa poco, se vuoi posso dir-
‒ No guarda. Ne faccio a meno.
Si era chiusa così, quella conversazione. Senza neanche il
tempo di farle terminare una frase di senso compiuto.
Ironia della sorte fu che si venne presto a sapere che in
realtà quel maglione era della vecchia collezione di abiti a
basso costo – ed era la linea maschile, per giunta. In
effetti, le sarebbe bastato guardare l’etichetta prima di
gettarla via, e notare così la grande scritta in grassetto
For Men.
Peccato. Quel maglione le piaceva davvero.
♠
‒ Vitale, riporta il dizionario nell’aula insegnanti.
Si era alzata non appena aveva sentito l’ordine impartitole
dal professore. Non aveva fatto caso ai risolini divertiti dopo
ch’era inciampata in una tracolla lasciata distrattamente a
terra, e aveva afferrato il vocabolario consunto per riportarlo
nell’armadietto del suo docente di lettere.
Camminava più lenta del solito, lo faceva perché
sperava che il tempo scorresse un po’ più in
fretta.
Le passavano accanto tante persone, ma non sapeva dire chi fossero
né da quale classe provenissero: non era abituata a guardare
i volti degli altri, al limite si concedeva di fissar loro le scarpe
che indossavano quel giorno.
Se lei non li guardava, loro non la guardavano. Era un sillogismo
semplice, ma efficace.
Bussò alla piccola porta, temporeggiando prima di aprire.
Non le aveva risposto nessuno, ma forse entrare era da maleducati.
Inclinò la maniglia, e sbirciò dentro con la coda
dell’occhio: c’erano solo due professori di liceo,
intenti a risolvere qualche sciocchezza del registro elettronico.
Meglio così.
‒ Buongiorno ‒ mormorò, i due non sembravano neanche averla
notata.
Cercò l’armadietto con sopra il nominativo del suo
professore, senza successo. Fece un respiro profondo, riprendendo la
ricerca dagli sportelli più bassi. Dannazione, non erano
neanche in ordine alfabetico.
Sentì la porta aprirsi; si voltò a guardare il
nuovo arrivato e sentì il cuore esploderle
dall’ansia: aveva alzato di poco lo sguardo, ma fu
sufficiente per identificare nel corpo che le stava di fronte Greta,
che la squadrava perplessa. Come non capirla, era inginocchiata a
terra, con il dizionario in mezzo alle gambe. Era già un
miracolo che non si fosse messa a ridere.
‒ Il prof mi ha mandata a controllare che non ti fossi persa ‒ si
giustificò, mentre con l’indice sottile della mano
indicava un armadietto posto in alto, lì dove gli occhi da
talpa di Nives non riuscivano a guardare, ‒ è lì.
Si rimise in piedi, spolverandosi il tessuto liso dei jeans sulle
ginocchia. ‒ Grazie.
‒ Figurati, però sbrigati.
Non rimase con lei ad aspettarla. Forse dava per scontato che fosse un
incarico talmente stupido da non richiedere l’ausilio di
un’altra persona. Come contraddirla.
Nives si portò in punta di piedi, a stento riuscì
a girare la chiave dell’armadietto. Afferrò il
dizionario con entrambe le mani, iniziando a saltellare nella speranza
che s’infilasse nell’ammucchiata sparsa di libri
che il docente si riprometteva sempre di sistemare, salvo poi trovare
l’ennesimo imprevisto per rimandare.
Durante il quinto tentativo il pesante volume le sfuggì
dalle mani, cadendo rovinosamente a terra con un tonfo capace di far
sobbalzare gli altri due docenti rimasti all’oscuro di quel
bizzarro teatrino. Fissavano il
dizionario, la cui copertina
– già logora – si era strappata a seguito
dell’urto improvviso.
‒ Ti sei fatta male? ‒ si sentì domandare.
Alzò lo sguardo. Davanti a lei c’era quello
più giovane dei due. Non ricordava in che sezione andasse,
ma era certa che fosse il nuovo insegnante di storia e filosofia del
primo anno di liceo.
‒ No, professore. Sto bene.
Era davvero alto. La sua sagoma longilinea risultava la cornice
perfetta a quel volto disteso, reso imponente dalla mascella squadrata
e dalla corta barba dove alcuni corti peli bianchi avevano iniziato ad
ammonirlo sui primi segni della senescenza. In realtà, le
sembrava che avesse meno di quarant’anni.
Ho fatto un casino,
pensò, cercando di trovare una
spiegazione da dare al proprio docente. Una che magari non la facesse
apparire come una perfetta idiota.
Forse mettendo dello scotch non se ne sarebbe accorto, o almeno era
quello che sperava. In quel momento l’unica cosa a cui
riusciva a pensare era di volersi mettere a piangere in un angolino per
maledirsi di essere sempre così stupidamente incapace.
Lei sarebbe riuscita a
infilarlo al primo tentativo. Magari avrebbe
anche sistemato i libri.
‒ Sicura di sentirti bene? ‒ Ancora quella voce, ma Nives non era
più così vicina come il suo corpo le suggeriva.
Era molto, troppo lontana da quel luogo, persa in quel labirinto fatto
di frustrazione e rabbia repressa, un mondo dove, almeno per qualche
istante, riusciva a compatirsi di quanto la sua esistenza fosse
superflua.
Chissà cosa avrebbero pensato i suoi genitori, nel vederla
in quello stato: fosse stata in sua madre, lei non avrebbe mai
accettato l’idea d’aver concepito una figlia
così maldestra; non solo completamente inadatta a svolgere
qualsiasi tipo di compito, ma per giunta una che rasentava la
perfezione ad un perenne disadattamento sociale.
Cos’avrebbe mai potuto raccontare, della propria vita? Che le
era sfuggita dalle mani senza neanche aver avuto il tempo di capirla?
Che risate si sarebbero fatti, nell’aldilà, nel
vederla inciampare su di un sasso e cadere dritta all’inferno.
‒ Ehi. ‒ Si sentì afferrare delicatamente per la spalla. Il
suo buonsenso rinsavì. ‒ Tutto ok?
‒ No.
Come diavolo le era venuto in mente di rispondere a quel modo?
Lo sguardo dell’insegnante sembrò impensierito per
qualche istante. Lui di certo non poteva capire cosa si provasse: a
giudicare dal pullover marroncino e dal colletto liso della camicia,
era evidente la sua stoffa da vincente. ‒ Cosa senti?
Nulla. Non
sentiva nulla, era proprio quello il problema. Aveva
lasciato le emozioni in un angolo della mente, lì dove non
avrebbe potuto trovarle. Perché quelle puttane la ferivano,
la ferivano come dardi infuocati, e allora al diavolo il buonsenso, al
diavolo i “non fa niente”, al diavolo gli
“andrà meglio la prossima volta”. La
verità era che non c’era mai una prossima
volta,
perché nessuno le aveva mai dato seconde chance.
A che servivano? Un incidente come lei le avrebbe usate solo per
fallire un’altra volta, e un’altra volta ancora,
fino a quando intorno non fosse rimasto più niente per cui
valesse la pena riprovare.
‒ Il professore si arrabbierà ‒ disse, col tono atono e gli
occhi spenti, ‒ s’arrabbierà di nuovo con me.
‒ È per questo che sei così triste? ‒ La sua voce
era dolce, i suoi occhi le apparivano come due pozze d’acqua
verde, resi ancora più grandi dagli occhiali adagiati con
cura sul naso leggermente aquilino.
Annuì senza dire null’altro, mentre si lasciava
scortare nella sua aula da quell’uomo che non le sembrava
affatto un insegnante. Sarà
un altro scherzo?
Bussò alla porta, Nives se ne stava tranquilla dietro le sue
grandi spalle. Il professore non ci mise molto ad aprire.
‒ Chiedo scusa. ‒ Il tono con cui si esprimeva era diverso da quello di
prima. Era più professionale, sicuro di sé. ‒
Credo di doverle delle spiegazioni.
‒ Nives, che hai combinato questa volta? ‒ Era ovvio che sarebbe finita in quel modo, in parte se lo aspettava.
‒ No, lei non c’entra ‒ s’affrettò a
dire quello più giovane, ‒ la colpa è mia,
involontariamente ho fatto cadere il suo dizionario per terra e la
copertina si è strappata.
La ragazza si voltò ad osservare l’espressione
pacifica con la quale il suo accompagnatore si esprimeva: era
rilassata, priva di nervi. Stava mentendo, eppure era come se fosse
sinceramente dispiaciuto per qualcosa che non aveva fatto. Che
stramboide.
‒ Capisco. ‒ Il professore non sembrava convinto della versione
raccontata, ma si limitò ad accettarla senza domandare altro.
‒ So che è un vocabolario molto costoso ‒
continuò l’altro, ‒ se vuole posso sempre
ricomprarglielo.
‒ Non serve. ‒ Si voltò verso l’alunna,
squadrandola con fare severo. ‒ Torna in classe.
Fece come le era stato ordinato, concedendosi una rapida occhiata verso
chi l’aveva salvata, almeno per quel giorno. Non sapeva chi
fosse, il suo nome, la classe, l’età. Non sapeva
niente di lui.
Eppure – per la prima volta – si sentiva un
po’ meno triste.
♠
Il cielo di quella mattina era più nuvoloso del solito.
Nives attendeva l’acquazzone da un momento
all’altro, mentre si trascinava davanti al grande cancello
della scuola. Con la sfiga che le carezzava la schiena, era capace di
beccarsi in fronte l’unico fulmine che sarebbe caduto.
Le converse che indossava – logore e coi lacci rosicchiati
dal suo cane – sembravano divertirsi a metterla in
difficoltà. Maledetti mignoli dei piedi, già
l’immaginava gonfi e pieni di vesciche; una volta andata in
bagno, si sarebbe messa dei fazzoletti per evitare che
s’infiammassero ancora di più. Che ironia della
sorte: a quell’età la sue compagne i fazzoletti se
li mettevano nei push-up rigonfi manco avessero un’ottava,
mentre lei… beh, a lei andavano bene nelle scarpe,
d’altronde piatta com’era avrebbe dovuto consumare
un intero rotolone Regina – sì, di quelli che non
finivano mai. Povera foresta amazzonica.
Si portò davanti all’ascensore, premendo la
freccia in basso. Non che avesse mai capito a che servisse
quell’altra. Lei – nel dubbio – le
premeva sempre entrambe. Le porte si aprirono lentamente davanti a lei,
e quel fastidioso temporeggiare fu ripagato dall’appagante
presenza della persona che tanto aveva sperato di vedere.
‒ Professor Patruno. ‒ Era così sorpresa da scoprirsi
inabile a parlare.
Lui le aveva appena sorriso, con quel suo sguardo dolce e pieno di
premure. ‒ Nives, che piacere vederti.
Che piacere vederti.
Qualcuno glielo aveva mai detto?
‒ Come sta?
‒ Io benissimo ‒ replicò, mentre le porte si chiudevano
dietro di lui. A Nives non importava, sarebbe salita a piedi piuttosto,
al diavolo i mignoli consumati. ‒ Ti vedo in forma.
‒ Sì, è che mi sento abbastanza preparata per la
verifica di oggi.
Sembrò sorpreso delle sue parole. ‒ La professoressa Tursi
mi ha detto che sei migliorata moltissimo in greco.
‒ Diciamo di sì.
Diciamo,
era un mero eufemismo. Aveva imparato a memoria tutte le
classi verbali, i verbi irregolari, le declinazioni dai suffissi
diversi. Sapeva persino coniugare i tempi che si studiavano al quinto
ginnasio. Il tutto, solo nella speranza di sentire quella stupida frase.
‒ Sono molto contento ‒ le rispose, entusiasta, ‒ immagino debba
tenermi pronto per quando diventerai mia alunna.
Nives non riuscì a togliersi quel sorriso compiaciuto dalla
faccia neppure quando entrò in classe, fottendosene
altamente degli schiamazzi e del vociare meschino con cui era solita
essere accolta. Non immaginava che l’espressione
“avere la
testa fra le nuvole” potesse essere
così calzante per quella situazione, per lei. Per certi
aspetti, era piacevole.
La docente le mise la verifica sul banco: Foglio B.
Lo faceva sempre, la Tursi. S’ingegnava nel creare almeno
quattro tracce diverse, nella speranza che copiare risultasse
più complicato. Come se nel secolo degli smartphone questa
cosa potesse essere efficace.
In realtà, Nives faceva parte di quella ristretta cerchia di
dannati ch’erano incapaci persino di copiare.
‒ Vitale, oggi tu siedi avanti ‒ sentì dire
dall’insegnante, che le indicava il posto accanto a Greta. ‒
Così posso vederti.
Certo, non si fidava di lei. Come poteva una ragazzina come lei
migliorare così vistosamente nel giro di pochi mesi? Meglio
diffidare, dopotutto. Al diavolo, maledetta istituzione scolastica.
Si sedette, non concedendosi neppure di guardare nella direzione di
colei la cui superiorità sembrava intimorire persino quelli
che le stavano seduti alle spalle. Nives si sorprese di quanto la cosa
le fosse indifferente, e con tranquillità si accinse a
svolgere il primo periodo della versione.
Sembrava più semplice di quelle su cui si era esercitata:
erano tutti verbi di prima classe, con qualche congiuntivo un
po’ fastidioso, ma niente che non si potesse risolvere.
Sospirò sollevata, concludendo il compito con precisione
certosina.
Si voltò un istante a fissare il foglio elegantemente
scritto dalla penna della compagna, e per un istante si
soffermò sulla frase che stava terminando di scrivere.
Ma quello non è un verbo medio-passivo?
Forse non se n’era accorta. Dopotutto, Greta non sbagliava
mai. Eppure quella frase non aveva assolutamente senso, tradotta in
italiano; probabilmente anche lei se n’era accorta,
perché la vide sbarrare il periodo con un lieve accenno di
frustrazione.
Nives sapeva come tradurre quella frase, eppure se ne stava
lì, incapace di darle la soluzione che si rifiutava di
uscirle dalla bocca. Se Greta avesse sbagliato, allora lei avrebbe
avuto una chance. La chance di smettere di essere l’eterna
inferiore, l’ultima ruota del carro, anzi no, la ruota di
scorta all’ultima ruota del carro. Avrebbe potuto avere la
possibilità di cambiare, di poter finalmente urlare al
mondo: “Vedete, gente? La vostra fottuta perfezione non
esiste!”
Doveva solo voltare lo sguardo e fare finta di non aver visto niente, e
tutto si sarebbe risolto. In fondo, Greta non le aveva mai suggerito
niente – non
poteva, era
al primo banco, mentre lei se ne
stava nel placido buio della sua seggiola in fondo a destra. Insomma,
se lo meritava; forse non aveva studiato abbastanza, mentre lei non
aveva fatto altro che farsi il culo dalla mattina alla sera tardi.
Eppure si sentiva in colpa, incapace di soffocare il proprio rimorso.
Greta non le aveva fatto niente, mai.
Non l’aveva mai presa
in giro, non l’aveva mai vista ridere alle battute maligne
dei suoi compagni di classe. Una volta, durante un’assemblea
d’istituto, le aveva persino ceduto il posto a sedere.
Perché
ce l’aveva con lei? Il senso
d’inferiorità che aveva sempre nutrito nei suoi
confronti era un mostro creato dalla sua mente insana, ma la compagna
di classe non aveva fatto nulla per alimentarlo. Aveva fatto tutto
Nives, da sola. Ci aveva sguazzato per mesi nel suo fare corrotto
dall’incapacità, e non si era mai chiesta se vi
potesse porre rimedio in qualche maniera. Forse le piaceva, essere
tratta a quel modo. Le persone parlavano di lei. In quel
modo, seppur
con la frustrazione di essere il loro burattino preferito, Nives non
era mai dimenticata. Di sicuro era quella a cui tutti prestavano
attenzione.
Le risultava improvvisamente un’ovvietà, quel suo
malsano masochismo.
‒ Ehi ‒ sussurrò, controllando che la Tursi non le sentisse
dal fondo dell’aula, ‒
ποιέω quando è
medio-passivo significa “fare con le proprie forze”.
Greta la fissò, e Nives vi scorse un’insolita
sorpresa nelle sue iridi scure. Come non capirla, anche lei si stupiva
di quanto appena fatto. Aveva solo
bruciato l’unica occasione
che aveva per brillare – almeno una volta –
più di lei.
Non attese neppure una sua replica; si alzò a consegnare il
foglio sulla cattedra, tornandosene al suo posto di sempre per mettere
la penna nell’astuccio prima che squillasse il suono della
campanella che annunciava la fine delle lezioni.
All’uscita, il cielo le apparve un po’ meno
nuvoloso.
♠
L’aveva solo intravista, eppure le sembrava una donna
affascinante, composta nel suo succinto tailleur color carta da
zucchero; la borsa a tracolla le pendeva morbidamente dalla spalla, a
litigare coi boccoli castani ch’erano rimasti incastrati
sotto la cinta di pelle. La fede nuziale abbracciava il suo anulare,
brillando come un piccolo miracolo dorato.
Doveva essere in gamba, per essere stata chiamata durante
l’assemblea d’istituto per la giornata contro il
bullismo. Forse era una psicologa.
Nives sapeva che lei era la moglie del professor Patruno.
Quella notizia le bastava per renderla incapace di prendere parte
all’incontro. Non voleva vederla, quella sua schifosa
perfezione. Di certo non pensava che l’insegnante potesse
avere un debole per le barbie.
Sospirò, seduta sulle mattonelle scure del bagno delle
ragazze, con le spalle al muro e le braccia strette attorno alle gambe.
A vederla, la scena appariva persino più patetica del
normale.
Non riusciva neanche a capire il perché di tanta improvvisa
depressione. Sapeva perfettamente che non avrebbe potuto sperare
nient’altro da lui, dall’uomo che occupava i suoi
pensieri da ormai alcuni mesi, da colui che l’aveva salvata e
l’aveva inconsapevolmente incitata al cambiamento.
Il professor Patruno – di tutto questo – non sapeva
un bel niente. Forse a stento ricordava l’episodio in cui
l’aveva conosciuta. Come non capirlo, rispetto a quella
magnifica donna lei doveva apparirgli come uno dei Muppet.
In quel suo piccolo mondo deprimente, Nives non aveva bisogno di
scoprire cosa il docente pensasse di lei: preferiva rimanere
nell’ignoranza, piuttosto che sentirsi dire di essere una
studentessa come le altre. Fino a quando poteva permetterselo, le
appariva piuttosto semplice considerarsi speciale.
Quante volte si era lamentata con lui dei suoi compagni? Quante volte
aveva approfittato del suo essere derisa per poter ottenere un
po’ delle sue attenzioni?
Persino quella giornata era stata pensata per lei: era per lei che
quella donna stava parlando ininterrottamente da due ore ed era sempre
per lei che il professore aveva chiesto alla moglie d’indire
un incontro con i ragazzi.
Eppure Nives non voleva partecipare a quell’insulso teatrino,
fatto di volti che annuiscono senza capire nulla di quello che viene
spiegato loro; parole insensate, quelle che il silenzio dei perdenti
non era mai riuscito a esprimere. Persino qualche istante prima
l’era sembrato che alcuni dei suoi compagni si fossero
voltati a guardarla, non le serviva certo comprendere il
perché. Finita l’amorevole chiacchierata, sarebbe
tornato tutto esattamente come l’aveva lasciato: sarebbe
tornata in classe, avrebbe preso la gomma e avrebbe cancellato dal
banco la grande scritta Nives
Seta Ultra scritta col pennarello
indelebile.
Non le importava più.
In quel blando momento di felicità che si era concessa prima
di sprofondare di nuovo nel baratro, non c’era più
nessuno. Terra bruciata, riusciva a sentirne l’immaginario
puzzo persino in quel momento. Forse era l’odore stantio
dell’urina che riempiva l’aria di un sinistro odore
azotato, o forse la sua immaginazione che si dilettava a vederla
soffrire.
La
felicità è per gli stupidi, si era
detta
spesso. Adesso ne aveva la conferma.
Lo stridio dell’uscio la risvegliò da
quell’impasse e si trovò a fissare le ballerine
bordeaux della sua acerrima compagna di classe.
‒ Che c’è? ‒ Forse qualche mese prima non le
avrebbe neanche rivolto la parola, intimorita com’era dalla
sua presenza. In quell’istante però era tutto
diverso. Lei,
Nives, si sentiva diversa.
La ragazza non le aveva risposto; si era limitata a sedersi al suo
fianco, stando attenta a non sgualcire la delicata gonna a campana.
Ed erano lì, i due ossimori viventi di quella vita, le due
facce della stessa medaglia che sembravano combattersi a vicenda, in
quel circo massimo in cui lottavano solo per il diletto di chi le
osservava dagli spalti. Nives pensava che vi fosse una certa
epicità, in tutto ciò.
‒ Tutto bene? ‒ si sentì chiedere semplicemente, ‒ prima non
sembravi avere un bell’aspetto.
‒ Sì, beh, non ho mai un bell’aspetto ‒
confermò la ragazza, con voce stridula.
Aveva bisogno di piangere, di gridare come non le era mai capitato
nella vita. Non solo perché sentiva di aver perso contro la
moglie del suo tanto amato professore – non che si aspettasse
di vincere – ma soprattutto perché era frustrante
tornare alla realtà, sentirsi nuovamente sprofondare in
quell’abisso fatto di soggezione e sciocche paure.
‒ Com’è, Greta? ‒ aveva domandato infine, senza
neanche rendersene conto, ‒ com’è essere te?
Silenzio. Immaginava fosse una domanda sciocca, tanto più
perché l’aveva posta infischiandosene di quello
che la compagna avrebbe potuto pensare di lei. Dopotutto, non si
aspettava certo che l’opinione che aveva di lei fosse alta.
Vide l’angelo della classe sistemarsi la treccia a spina di
pesce che le ricadeva lungo la spalla sinistra. Il suo sguardo non
sembrava porre attenzione alcuna a ciò che la circondava e
per un istante Nives credette di veder le belle mani affusolate
abbandonarsi ad un incerto tremolio.
‒ Uno schifo ‒ rispose, non scomponendo affatto quella sua eterea
figura, ‒ davvero uno schifo.
L’aria si faceva sempre più stantia ad ogni
studentessa che entrava e usciva dal gabinetto, mentre in sottofondo
potevano entrambe sentire lo sciabordio dello scarico appena tirato.
Non si stavano parlando, eppure era come se quel silenzio fosse
così carico di parole da non essere in grado di pronunciarne
altre.
Una come Nives rimaneva sola perché era troppo poco. Greta
rimaneva sola perché era troppo e basta.
‒ Che ironia, ah? ‒ domandò lei che non era abbastanza.
‒ Già.
Si fissarono per un istante, e senza motivo si sorrisero. O meglio, un
motivo c’era, ma lo conoscevano solamente loro. In fondo, non
erano poi così diverse.
‒ Senti ‒ s’azzardò Greta, portandosi le mani sul
grembo, ‒ dopo la scuola, ti va di andare a prenderci un succo?
In quell’innocente proposta, Nives rivide tutto.
Le scritte sul banco.
I sorrisi denigranti.
Il rasoio usa e getta di suo padre.
Il bel maglione giallo da uomo.
Il dizionario che cadeva a terra.
Il volto del professor Patruno che le sorrideva.
Il tailleur color carta da zucchero della moglie.
Le sembrava un castello fatto di carte francesi, quelle belle, lise
nella custodia plastificata. Costruito su quell’insicurezza
che reggeva le fondamenta di troppi piani instabili, che cadevano, si
sfaldavano, e che puntualmente Nives ricostruiva, un po’ alla
volta, con la mano che tremava e che rischiava di distruggere un altro
piano.
Avrebbe potuto continuare in eterno, accontentandosi di vedere solo i
volti dei jack, delle regine, dei re, infischiandosene altamente di
ciò che sarebbe potuto accaderle. Se c’era
qualcosa che il suo spietato senso d’inferiorità
le aveva insegnato, era che poteva farne
a meno. Aggrapparsi ad una
corda avrebbe fatto più male che lasciarla andare.
Eppure il castello era davvero crollato, questa volta. E Nives era
davvero troppo pigra per rimettersi a costruirlo pezzo dopo pezzo.
‒ Perché no.
Avrebbe ricominciato da lì, per piccoli passi. Forse il
senso d’oppressione sarebbe passato, forse no. Non le
importava neanche.
Seduta a gambe incrociate, accanto alla sua nemesi, con
l’aria ricolma d’urea stantia.
Quel momento, le apparve perfetto.
Fine
Ennesimo
momento di sclero, sono molto contenta di aver scritto questa storia,
nonostante tutto.
Per scriverla ho ripensato un po' alla vecchia me del liceo
e mi sono chiesta come ci si potesse sentire ad essere esclusi da una
realtà meravigliosa come quella dei propri compagni di
classe.
Ancora una volta, mi sono concessa di parlare per il silenzio dei
dimenticati, spero che questa storia possa farci riflettere e andare
avanti, ricordando sempre le nostre debolezze e non dimenticandoci di
superarle.
Ringrazio moltissimo molang
per avermi dato l'opportunità di scrivere questa storia! :D
A presto!
_EverAfter_
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