L’odore bruciacchiato dei toast mescolato all’acre
sapore di un caffè troppo strong.
Si stravacca sul divano, si
porta una sigaretta alla bocca e l’accende. Ora
può farlo, tanto non c’è più
nessuno.
La foto della loro settimana
bianca a Courmayeur è ancora lì sul
comò, dove l’ha lasciata l’anno prima. I
suoi occhi sono bellissimi come allora, mentre sorride di fronte al
fotografo che l’ha scattata.
Potesse tornare indietro, anche
lui sorriderebbe.
La prima boccata.
È
strano non sentirsi sgridare per essere ancora in boxer e
canottiera. È strano non sentirla lamentarsi del volume
troppo alto dello schermo piatto. Dà una rapida occhiata in
giro: guarda i suoi collant ancora appesi alla sedia, la notte in cui
sono tornati dal matrimonio di Paolo. Osserva il profumatore
d’ambienti della Thun, quello che gli è costato un
occhio della testa perché lei lo desiderava troppo,
quell’affare spruzza tumori a quel prezzo così
vantaggioso. E non può fare a meno di sorridere nel vedere
il plaid con sopra i gattini, quello che si metteva sempre sulle gambe
ogni sera, prima di vedere un film.
La seconda boccata.
Passa
svogliatamente in rassegna le bollette: certo, deve pagarlo lui, il consumo di
quella fottuta piastra. Senza quell’attrezzo avrebbe
risparmiato almeno cento euro. Al diavolo.
Però.
Però quanti soldi spenderebbe volentieri, solo per poterla
rivedere davanti allo specchio del bagno, ad imbufalirsi contro il
crespo inarrestabile dei suoi capelli o contro quei fantascientifici
chili di troppo che le sbucavano durante la notte,
d’improvviso, come un incubo pronto a farle un dispetto. Che
razza di lunatica.
La terza boccata.
Prima o poi
dovrà cancellarlo, il messaggio personalizzato
della segreteria telefonica, con lei che sbraita frasi senza senso
prima del bip.
In tanti anni non gliel’ha mai permesso, ma adesso che non
c’è più nessuno potrà farlo.
Potrà mettere un messaggio normale, e la gente non si
chiederà più se abbia chiamato lui o
l’istituto d’igiene mentale.
La quarta boccata.
Ha lasciato in
frigo quell’orribile yogurt greco. Lo comprava
ogni santa volta, ne mangiava uno, poi lasciava i restanti superstiti
lì, in attesa che scadessero. No, non li ha mai mangiati
– e come avrebbe potuto, facevano più schifo del
tofu biologico che si ostinava a comprare nonostante sapesse
così tanto di cartone.
La quinta boccata.
Fissa
l’oblò della lavatrice. Dentro
c’è ancora il suo reggiseno rosso, quello che
tanto gli piace, con la chiusura sul davanti. Lo indossava sempre dopo
le loro tremende litigate, durante le quali finivano inevitabilmente a
letto. A ben ripensarci, probabilmente lo faceva apposta.
L’ultima boccata.
Spegne la
sigaretta contro il vetro del posacenere. È
strano, non ricorda d’essersi mai sentito così
male.
Si gira a guardare la porta e
la immagina rientrare come ogni sera, con la solita busta della spesa,
i capelli impigliati nella tracolla della borsa e il fiatone.
Lo fa in automatico, anche se
sa che è un gesto inutile.
Perché
lì – ormai – non
c’è davvero più nessuno.
NOTE DELL'AUTRICE:
Ho approfittato del contest di MaryLondon
per poter - ancora una volta - stare dalla parte dei "vinti", per
così dire. Lo so, probabilmente vi starete chiedendo se mi
diverto a trattare di personaggi sfigati, che hanno sempre fisime e
paturnie mentali.
La verità è che non mi annoio affatto a parlare
di loro, al contrario. Sono affascinanti, nelle loro assurde
elucubrazioni, nel loro modo sciatto di concepire la vita.
E' una breve flash-fic che ho scritto immaginandomi quante persone
possano essersi sentite in questo modo, una volta o due, durante San
Valentino.
Spero vi sia piaciuta, anche se breve.
Baci,
_EverAfter_