Gente, abbiamo finito anche questo
mappazzone. Grazie per avermi seguito fin qui, un grande
grazie a chi mi ha lasciato un parere.
Alla
prossima!^^
Capitolo
3
Austin
rientrò alla villa dopo essersi fermato a comprare da mangiare. Andò
in cucina, passò una spugna sul tavolo e lo asciugò, vi stese sopra
una tovaglietta di carta in modo che fosse esattamente a filo del
bordo, al centro di essa posò una confezione con un’insalata
pronta ai cui lati allineò con cura le posate, la forchetta a
sinistra e il coltello a destra e con la lama rivolta verso
l’interno.
Fatto
questo prese un bicchiere di plastica e lo collocò esattamente in
corrispondenza della piega mediana della tovaglietta, poi trasse dal
sacchetto del supermercato una bottiglia d’acqua e per qualche
secondo rimase indeciso su dove appoggiarla per non rovinare la
simmetria. Alla fine si riempì il bicchiere e poi la ripose
nuovamente nel sacchetto.
Si
stese un tovagliolo sulle ginocchia.
Consumò
il pasto con la compitezza che avrebbe potuto ostentare a Buckingham
Palace, quindi raccolse tutti i rifiuti, suddividendo carta, plastica
e organico in diversi contenitori. Pulì il tavolo.
Quando
ebbe finito, prese il libro che la signora Boyer gli aveva venduto e
cominciò a sfogliarlo.
Ci
trovò ben poco di interessante, in relazione al suo problema. Il
testo aveva l’obiettività dei pamphlet anti-giapponesi della
seconda guerra mondiale e le fotografie, perlopiù sgranate e poco
nitide, avrebbero potuto provenire da Christineberg come da qualsiasi
altra tenuta dei Caraibi. L’unica immagine che Austin trovò
vagamente interessante fu quella dei coniugi Barrow, in piedi davanti
alla fontana del cortile principale. La foto ricordava vagamente
‘American Gothic’, anche se i due avevano l’aria decisamente
meno arcigna della coppia di Grant Wood. La donna anzi sorrideva e
sembrava sul punto di salutare qualcuno con la mano. Era una bella
signora dai boccoli biondi, snella, dall’aria elegante.
A
un tratto sentì le note modulate di un canto. Tese l’orecchio
cercando di localizzare la provenienza del suono e si trovò a
rabbrividire, perché di colpo l’aria si era fatta decisamente più
fredda. Si alzò e si guardò intorno passandosi le mani sulle
braccia come per riscaldarsi, poi si diresse silenziosamente verso il
punto da cui gli pareva che provenisse la voce.
La
sua idea era quella di cogliere sul fatto l'autrice dei vocalizzi, o
perlomeno di individuare la zona della villa in cui lei e i suoi
complici si nascondevano, ma invariabilmente trovava vuota ogni
stanza su cui si affacciava, mentre il canto sembrava sempre
provenire da quella successiva. Alla fine raggiunse una porta
socchiusa, oltre la quale c'era un vano senza porte né finestre. Il
canto si interruppe. Egli accese la luce e si trovò di fronte il
muro deturpato di cui Borowicz aveva mandato la fotografia.
Lì
il freddo era particolarmente intenso.
Austin
osservò l'ambiente: soffitti altissimi, una lampadina fioca che
pendeva da un filo. Picchiettò con le nocche le gelide pareti, che
però gli rimandarono ovunque lo stesso suono. Fece scorrere lo
sguardo sul muro vandalizzato, ma al solito non riuscì ad attribuire
ai segni che lo deturpavano nessun significato a parte quello di
rovinare un lavoro appena fatto.
Uscì
dalla stanza e si richiuse la porta alle spalle. Prese il mazzo di
chiavi che il signor Donovan gli aveva lasciato e con quello che
doveva essere una specie di passepartout fece scattare la serratura.
La
guardò poco soddisfatto: era evidente che lo stesso mazzo di chiavi,
magari con un passepartout identico, doveva averlo anche chi stava
girando per la villa insieme a lui, perché da nessuna parte c'erano
segni di scasso, eppure le porte che lui era certo di aver chiuso a
chiave – e lui era uno che in queste cose non si sbagliava –
erano tutte aperte.
Si
chiese quale fosse il razionale alla base di quel comportamento:
forse i vandali volevano fargli credere che ci fosse il famoso
fantasma? Alzò le spalle: avevano decisamente sbagliato persona.
Andò
a Cruz Bay, entrò nella prima ferramenta e comprò una serie di
attrezzi, lucchetti e catenacci, quindi rientrò alla proprietà.
Il
resto del pomeriggio lo passò ispezionando ogni singolo edificio di
Christineberg. Si portava dietro una planimetria, una tavoletta di
supporto per scrivere, una gomma e una matita, oltre naturalmente
alle attrezzature acquistate: in ogni costruzione sbarrava tutte le
finestre dall'interno, ispezionava il luogo in ogni sua parte,
prendeva qualche fotografia, annotava eventuali appunti sulla mappa,
quindi usciva e applicava sulla porta un catenaccio nuovo, chiuso con
uno dei lucchetti acquistati. Da ultimo, fotografava anche la porta
dall'esterno.
Quando
terminò il lavoro, ormai era l'imbrunire.
Rientrò
nella villa e anche lì fece il giro delle finestre, bloccando il
meccanismo di ognuna di esse con diversi giri di filo di ferro, in
modo che fosse impossibile scassinarle dall'esterno. Lo fece con
particolare cura nella camera da letto della signora Barrow, ovvero
quella dove l'aveva trovata per ben due volte aperta.
Passò
poi alle porte, bloccando serrature e catenacci in modo che fosse
impossibile azionarli dall'esterno. A quel punto, eseguì un nuovo
giro d'ispezione in tutta la dimora, come sempre non trovando anima
viva.
Si
guardò intorno pensoso: se n'erano andati? Li aveva chiusi fuori?
Erano nascosti in qualche stanza segreta che non aveva ancora
individuato? Ricontrollò la planimetria: le tavole risalivano agli
anni '60 del secolo precedente, epoca in cui probabilmente erano
stati eseguiti i rilievi catastali di tutte le proprietà dell'isola.
Porte nascoste o passaggi segreti precedenti a quell'epoca ovviamente
non apparivano sulle mappe.
Tornò
in cucina. Il libro sugli orrori di Christineberg, che aveva lasciato
chiuso sul tavolo, era aperto e a pagine in giù sul pavimento. Alzò
stupito le sopracciglia e istintivamente si guardò intorno, ma tutto
sembrava a posto. Si chinò a raccoglierlo e notò che era aperto
esattamente sul ritratto di Ingeborg Barrow.
Lo
ripose e di nuovo si guardò intorno. Un libro non cade da solo, si
disse. Un libro cade se a esso viene applicata una forza sufficiente
a spingerlo giù dal tavolo su cui è posato.
Era
quindi evidente, tornando alle sue ipotesi di prima, che i personaggi
che giravano nella villa non
se n'erano andati e non
li aveva chiusi fuori, chiunque essi fossero.
Forse
lo stavano addirittura tenendo d'occhio, con sistemi che non era
ancora riuscito a scoprire.
Si
forzò ad apparecchiare ostentando indifferenza e consumò il pasto
tendendo l'orecchio a ogni minimo rumore.
Nulla
turbò la quiete. Il silenzio era tale, anzi, che se si concentrava
riusciva a udire il battito del proprio cuore. All'esterno non tirava
un filo d'aria e sembrava che anche i mille rumori della notte
tropicale si fossero sopiti. Era come se tutto fosse immobile in
attesa di qualcosa.
Austin
guardò l'orologio, quindi si alzò con l'intento di fare un nuovo
giro di ispezione. Tolse la suoneria al cellulare e se lo infilò in
tasca, poi si avventurò nei corridoi ormai immersi nelle tenebre
portandosi dietro solo una torcia elettrica, per non annunciare il
suo arrivo tramite l'accendersi e spegnersi delle luci nelle varie
stanze.
Questa
volta li avrebbe sorpresi e poi avrebbe chiamato la polizia, così
avrebbe sistemato definitivamente la questione.
Raggiunse
il salone delle feste e vi si affacciò. La stanza era praticamente
vuota. Il pavimento sgombro permetteva di apprezzare il sontuoso
disegno di una palladiana bianca e rossa, in alto si coglieva il vago
baluginio di gocce di cristallo.
I
pochi mobili erano stati spinti contro le pareti, e coperti com'erano
di lenzuoli bianchi evocavano sinistre presenze.
Austin
fece qualche passo all'interno e subito fu investito da un'ondata di
freddo così intenso che si trovò a rabbrividire. Nello stesso
momento, il fascio di luce della torcia si affievolì fin quasi a
scomparire, trasformandosi in un vago lucore giallastro.
Sì
udì l'eco flebile di un canto femminile.
In
quella luce fioca, ad Austin parve che uno dei lenzuoli stesse
ondeggiando. Puntò la torcia in quella direzione, ma non riuscì a
capire se quello che stava vedendo era un reale movimento o solo un
gioco di ombre.
Si
trovò a deglutire: forse aveva scoperto in che modo la gente si
nascondeva nella villa.
Forse
sotto quel telo – sotto quanti teli, a questo punto? – c'era
qualcuno che chissà da quanto tempo lo stava tenendo d'occhio.
Un
passo dopo l'altro, si avvicinò. Il freddo era intenso, la
sensazione di essere osservato anche. Più la luce investiva il
lenzuolo ormai ingrigito, più esso appariva immobile.
Si
avvicinò ancora, rimase immobile con l'orecchio teso, pronto a
cogliere il minimo rumore. La stoffa si era mossa o era semplicemente
passato un refolo d'aria?
Allungò
una mano, afferrò un lembo del lenzuolo. Tirò.
Il
telo cadde a terra in uno sbuffo di polvere. Austin si trovò a fare
un salto indietro col cuore che gli balzava nel petto, ma poi emise
in un sospiro sollevato il fiato che aveva involontariamente
trattenuto: quella che gli era apparsa davanti era solo una vecchia
pendola.
Sospirò
e si passò una mano sulla fronte, umida di sudore nonostante il
freddo, e a quel punto percepì un lieve odore di fumo.
Si
girò brusco e corse nella direzione da cui era venuto, guardandosi
intorno alla ricerca di possibili focolai d'incendi. Quando raggiunse
la zona delle stanze di servizio, si accorse che il fumo stava
uscendo dalla cucina. Vi entrò e si trovò davanti il libro su
Christineberg, in mezzo al pavimento, che bruciava a fiamma chiara.
Lesto
corse al lavello, spillò una ciotola d’acqua e gliela buttò
sopra, e le fiamme si spensero sfrigolando. Rimase per qualche
secondo immobile a osservare il mucchio di cenere fumigante, poi dal
piano superiore giunse di nuovo il canto, questa volta associato allo
sbattere di una finestra.
Corse
su e a colpo sicuro si diresse verso la camera di Ingeborg Barrow: le
ante erano spalancate, i vetri coperti di brina. Sul muro, sempre
incisa con qualcosa di acuminato, era comparsa una parola:
Verità
Dapprima
si immobilizzò, poi fece girare intorno lo sguardo alla ricerca di
qualcosa che potesse fungere da arma. Perché a quel punto era
chiaro: non solo c’era qualcuno, ma quel qualcuno era vicinissimo a
lui, forse anche in quel preciso momento, ed era abilissimo a
rendersi invisibile.
Si
chiese che cosa significasse quella scritta. Perché proprio ‘verità’
e non, ad esempio, ‘andatevene’?
Non
c’era risposta, ovviamente.
Non
trovando nulla che potesse essere usato a scopo difensivo, infilò la
mano in tasca e strinse in pugno il mazzo di chiavi, facendo sì che
esse sporgessero come aculei fra un dito e l’altro, poi avanzò
adagio.
Nella
villa frattanto si era ristabilito il silenzio, la patina di ghiaccio
che aveva ricoperto i vetri si andava sciogliendo e gocciolava adagio
sul pavimento. Assieme alla brezza tiepida, entravano dalla finestra
aperta il profumo del frangipani e il canto degli uccelli notturni.
Con
il cuore che ancora gli pulsava nelle orecchie, Austin si avvicinò
adagio e osservò il meccanismo di chiusura: il filo di ferro non
c’era più. Qualche spezzone era sparso in giro, ma del resto non
c’era traccia.
Serrò
comunque le ante, vi trascinò contro un mobile per maggiore
sicurezza, quindi tornò in cucina. Lì le cose erano come le aveva
lasciate: al centro del pavimento c’era ancora la pozzanghera
annerita con dentro quel che rimaneva del libro, la luce era accesa e
la temperatura normale. Per scrupolo andò a controllare anche i suoi
effetti personali, ma di nuovo li trovò intatti.
Certo
che non avrebbe più dormito, tanto per fare qualcosa si mise a
pulire il pavimento.
§
Seduto
nel patio di un caffè del centro, una tazza fumante davanti, Austin
rifletteva sugli avvenimenti della notte precedente.
Per
la prima volta nella sua vita professionale, non sapeva che pesci
pigliare. Non capiva in che modo i misteriosi sabotatori riuscissero
a fare quello che aveva visto, né quanti fossero o dove si
nascondessero. Possibile che sotto alcuni dei lenzuoli che coprivano
i mobili ci fossero in realtà delle persone? Come entravano in
stanze chiuse a chiave? Come graffiavano un muro fino ai mattoni
senza lasciare un'impronta sul pavimento?
Nessuna
di quelle domande aveva una risposta. Non ne aveva una plausibile,
perlomeno.
Bevve
un sorso, quindi riappoggiò la tazza esattamente nel cerchio marrone
che essa aveva lasciato sul tovagliolo, poi la girò in modo che il
manico fosse parallelo al bordo del tavolino. Raddrizzò il
cucchiaino, che nel movimento si era inclinato di qualche grado.
Trucchi
cinematografici? Avrebbero richiesto attrezzature che non aveva
trovato da nessuna parte. Fenomeni naturali o perlomeno fisici? Aveva
sentito dire che le famose pareti che trasudavano sangue di certe
case infestate
erano in realtà eventi perfettamente spiegabili, legati a umidità,
muffe o altri normalissimi problemi. Peccato che i muri di
Christineberg fossero da quel punto di vista del tutto sani.
Allucinazioni,
allora? Suggestione? Sonnambulismo? Magari era lui stesso che prima
sigillava le finestre e poi andava a riaprirle in stato di trance?
Ormai
era disposto ad aspettarsi qualsiasi cosa.
Bevve
un altro sorso di caffè e per un po' rimase a guardare la gente che
passava. Doveva essere arrivata una nave da crociera e gruppetti di
turisti in abiti leggeri, con spalle e nasi arrossati dal sole
tropicale, si guardavano intorno alla ricerca di divertimenti.
Operatori locali offrivano souvenir ed escursioni.
Aggrottò
le sopracciglia all'ennesimo strillo di bambino e si girò in modo da
dare le spalle alla chiassosa masnada: aveva bisogno di concentrarsi
e quel disordine non faceva altro che renderlo nervoso.
Nella
sua nuova posizione, si trovò a contemplare una di quelle cassette
di vecchi libri che andava di moda tenere nei locali. Generalmente
erano piene di manuali di cucito del secolo precedente o di
enciclopedie per ragazzini, quindi niente di interessante, ma in quel
caso una copertina attirò la sua attenzione. Si trattava di un
disegno a colori che riproduceva il ritratto dei coniugi Barrow, con
tanto di fontana zampillante alle loro spalle. Il titolo recitava:
'Mama Inga: il jumbie[1] buono'.
Austin
raccolse il libro e lo osservò: sembrava una pubblicazione di
qualche ufficio turistico locale e faceva parte di una collana che
trattava delle curiosità di St. John. A giudicare dallo stato di
conservazione e dalla grafica, doveva avere come minimo trent'anni ed
era il classico esempio di libercolo che durante le grandi pulizie
veniva indirizzato alle vendite di beneficenza o alle biblioteche
condivise.
Aprì
la valigetta che aveva con sé, tirò fuori 'Scienza della Logica',
di Hegel, e lo depose nella cassetta, quindi cominciò a sfogliare il
libro che aveva trovato.
Praticamente
fu come prendere il libro dell'associazione storica e rivoltarlo come
un calzino. Forse quello esagerava dalla parte opposta, ma descriveva
tutt'altro che una crudele negriera dedita a sevizie ed esperimenti
su cavie umane.
Ingeborg
Barrow – Mama Inga, come affettuosamente veniva chiamata – veniva
rappresentata come una specie di filantropa, impegnata in diuturne
opere di carità. Laureata in medicina, aveva allestito un
ambulatorio per curare gli schiavi, ma in pratica tutti gli abitanti
dell'isola si recavano da lei in caso di bisogno. La sua tenuta era
un impianto modello, con tanto di orari di lavoro e pensione per gli
anziani. I bambini andavano a scuola, i nuclei familiari che si
formavano ricevevano abitazioni separate. Vi erano orti e animali da
cortile per provvedere alle necessità degli schiavi.
Gli
schiavi, peraltro, lo erano solo di nome, perché ricevevano un
regolare salario. Morendo senza eredi, la donna aveva dato
disposizioni affinché gli essi fossero liberati e Christineberg
diventasse di loro proprietà.
Alla
morte di Mama Inga, diceva a quel punto il libro, era nata anche una
curiosa leggenda: si diceva che il suo fantasma continuasse ad
aleggiare nella tenuta, ma solo per aiutare chi vi si recava. Qualche
escursionista che si era perso nei dintorni di Christineberg aveva
raccontato di essersi imbattuto in una vecchia signora in abiti
antiquati che lo aveva accompagnato fino a che non aveva ritrovato la
strada e poi era misteriosamente scomparsa senza lasciare tracce.
Altri
dicevano che, colpiti da malattie, si erano recati alla tenuta e vi
avevano dormito. Mama Inga era apparsa loro in sogno e aveva dato
suggerimenti per cure che si erano poi rivelate efficaci.
In
generale, spiegava il libro, non era difficile incontrare quel
gentile jumbie. Più spesso lo si sentiva cantare, ma a volte si
faceva vedere come anziana signora dai capelli bianchi oppure
lasciava altri segni del suo passaggio.
Una
fotografia mostrava una parete sulla quale era inciso un grazioso
disegno a motivi floreali.
A
quel punto, Austin abbassò il libro. Per quanto sciocco e
inattendibile, quel testo gli dava importanti informazioni: primo,
esisteva davvero una leggenda sul fantasma. Secondo, chi stava
tentando di sabotare gli affari del signor Donovan doveva come minimo
conoscerla, perché imitava in tutto e per tutto quelle che il libro
descriveva come sue tipiche manifestazioni.
Infilò
l'opuscolo nella valigetta, quindi pagò il conto e se ne andò.
Quando
fu sulla strada tirò fuori la mappa di Cruz Bay, individuò un
negozio di audio e video e vi si diresse.
§
“Austin.”
“Senta,
il tempo stringe, la banca deve aver fiutato qualcosa e mi sta col
fiato sul collo. Come stanno andando le cose?”
“Ci
sto lavorando, signor Donovan.”
“Beh,
veda di sbrigarsi. Questi mi stanno alle costole.”
“Il
problema è che non abbiamo a che fare con degli sprovveduti.”
Dall'altra
parte ci fu qualche secondo di meditativo silenzio, quindi Donovan
chiese: “Lei pensa che quelli là potrebbero essere stati inviati
dalla banca? Mi mandano a puttane tutto l'investimento, io non riesco
a restituire il prestito e loro si beccano la tenuta?”
“Devo
ancora capire chi sono.”
“Ma
la sua impressione qual è?”
“Al
momento non sono in grado di elaborare un parere attendibile,”
rispose Austin in tono neutro.
Donovan
imprecò e chiuse la comunicazione.
§
Seduto
al tavolo della cucina, Austin controllò lo schermo del computer
portatile. Quel pomeriggio aveva nascosto una videocamera a
infrarossi nella stanza della signora Barrow. Di tanto in tanto
controllava se c'erano movimenti sospetti, ma fino a quel momento non
aveva visto nulla.
Improvvisamente
le luci sfarfallarono, si affievolirono e poi ripresero l’intensità
solita. Da qualche punto imprecisato della casa giunse l’eco di un
canto.
Con
una strana sensazione di aspettativa, l’uomo fissò lo sguardo
sullo schermo del computer.
Sul
muro sembrò delinearsi una figura umana. Dapprima appena un’ombra,
che pian piano andò definendosi e arricchendosi di particolari, fino
a diventare una donna con una pettinatura ottocentesca e un abito
lungo.
Austin
trattenne il respiro.
Ella
si mosse, dapprima lentamente, poi in modo sempre più percettibile.
Di pari passo, la sua sagoma diafana andava in qualche modo facendosi
tridimensionale, pur mantenendo l’aspetto incorporeo. Dietro di lei
si intravedevano i segni del muro come attraverso un vetro semiopaco.
“Mama
Inga,” mormorò Austin.
Come
se l’avesse sentito, l’apparizione si girò verso la videocamera.
Sebbene l’uomo fosse certo di averla nascosta bene, ella la
individuò immediatamente e vi si avvicinò fissandola con intensità.
Austin
deglutì e si fece indietro sulla sedia mentre lo schermo del
computer veniva completamente invaso dal volto della misteriosa
signora e gli occhi di lei, neri come pozzi nel lucore innaturale
dell’infrarosso, scrutavano attenti, come alla ricerca di qualcosa.
Infine
guizzarono sicuri e si avvinsero al suo sguardo.
Egli
avrebbe voluto sottrarsi, allontanarsi l’apparecchio, uscire dalla
stanza, ma si accorse di non riuscire a muovere un muscolo. Quegli
occhi non lo abbandonavano.
Il
computer si spense facendolo sussultare, poi arrivò il freddo. Un
gelo siderale, che istantaneamente coprì di brina lo schermo ormai
nero dell’apparecchio e tutta la superficie del tavolo. Di nuovo le
luci sfarfallarono e si affievolirono, negli armadietti le stoviglie
sbatacchiarono come per effetto di una scossa tellurica.
A
quel punto, Austin ebbe la consapevolezza di non essere più solo.
Fioco
e dolce, echeggiò il canto. Era vicinissimo.
Egli
rimase immobile, con la precisa percezione dei capelli che lentamente
gli si rizzavano sulla nuca. “Chi sei?” mormorò. Il fiato gli si
condensò in una nuvola di vapore.
Non
giunse risposta. Eppure Austin aveva la netta sensazione di occhi
attenti che lo scrutavano.
Strinse
i pugni così forte che quasi si piantò le unghie nei palmi, poi si
girò di scatto. Colse la fugace visione di una figura in piedi
dietro la sua sedia, ma così diafana che quasi si confondeva con la
parete, poi la luce e la temperatura tornarono normali e fu come se
essa non fosse mai esistita.
Per
un tempo imprecisato, egli rimase immobile, ansante, con lo sguardo
fisso sul computer spento e le braccia penzoloni. Si sentiva spossato
come dopo una corsa di chilometri, il sudore freddo gli aveva
appiccicato la camicia alla schiena.
Si
passò una mano sulla fronte e lasciò vagare intorno lo sguardo di
chi si è appena svegliato da un coma. Inutile girarci intorno: era
sconcertato. Se pensava alle teorie con cui aveva affrontato la
faccenda della villa, si sentiva come uno che ha costruito un
castello con dodici mazzi di carte e se lo vede franare a terra per
un colpo di vento.
Non
c’era nessuno, a Christineberg, e non c’era per un semplice
motivo: che la tenuta era infestata da un fantasma.
Niente
sabotatori, niente concorrenti astuti del signor Donovan. Ora capiva
la reticenza dell’avvocato Keynes e il rancore della signora Boyle,
ora capiva perché quel posto era stato letteralmente regalato.
Passò
un dito sullo schermo del computer, che dopo essere stato coperto di
brina era rimasto imperlato di condensa. Nessun fenomeno fisico a lui
noto sarebbe stato in grado di produrre un effetto del genere. Non
certo in meno di tre secondi e con una temperatura esterna intorno ai
cento gradi.
Si
mosse sulla sedia, facendo scricchiolare il vecchio legno. Recuperò
un fazzoletto di carta e asciugò meticolosamente il portatile,
quindi lo ripose.
Di
nuovo si guardò intorno, ma ormai non c’era più nessuno a parte
lui.
Si
alzò con fatica, appoggiandosi al bordo del tavolo, poi guardò
fuori dalla finestra: stava albeggiando, il cielo si era fatto color
pervinca, vagamente sfumato di rosa verso il basso. Gli edifici
emergevano pian piano dalla foschia del mattino, i primi uccelli
diurni cominciavano a far sentire i loro richiami.
Si
portò all’aperto ed emise un sospiro di sollievo nel sentire
l’aria tiepida sulla pelle. Dopo il silenzio gelido della villa,
gli parve di cogliere nella natura innumerevoli, rassicuranti rumori.
Attraversò
il cortile sul quale si affacciavano gli edifici di servizio,
raggiunse il limitare della vegetazione. Coperto di rampicanti, il
piccolo mausoleo appariva indistinto nelle brume dell’alba.
Lo
raggiunse. Tutto era come l’aveva lasciato, ma al tempo stesso era
come se non lo fosse, perché in ultima analisi era cambiato il
significato di quello che stava vedendo: ciò che aveva fino a quel
momento interpretato come vandalismi o sabotaggi era in realtà la
protesta di un fantasma adirato.
Si
appoggiò a una delle colonnine dell’edificio mentre una sorta di
vertigine minacciava di sopraffarlo: un fantasma. I fantasmi non
esistono, avrebbe detto a chiunque prima di quella notte.
I
fantasmi sono proiezioni psichiche, sono leggende per spaventare gli
allocchi. Sono il retaggio irrazionale di una cultura popolare basata
su credenze e non su dati scientifici.
“Sì,
col cazzo,” si trovò a dire a voce alta.
Abbassò
gli occhi sulla tomba e per un po’ rimase a contemplarla in
silenzio. Cosa avrebbe dovuto fare? Non lo sapeva.
Riusciva
a riconoscere una contabilità fraudolenta con una semplice occhiata
ai libri mastri, gli bastava un colloquio di dieci minuti per
individuare il marcio in un’offerta commerciale, sapeva stare
dietro a un debitore con la perseveranza impersonale di un branco di
iene che insegue il bufalo ferito, ma fino a quel momento aveva
relegato con disprezzo il soprannaturale tra le chiacchiere da comari
e non se n’era mai occupato.
Quindi
che fare?
Di
nuovo fissò la tomba. La prima cosa che gli venne in mente fu quella
di vedere cosa c’era dentro. Non che si aspettasse di trovare la
sposa di Dracula o cose del genere, tuttavia la sua impostazione era
e rimaneva scientifica, anche di fronte a una faccenda di quel
genere, e risolvere un problema implicava necessariamente conoscerne
tutti i termini.
Peraltro,
non gli pareva esattamente una cosa normale che ci fosse una tomba in
un giardino. Il posto delle tombe era notoriamente il cimitero.
Si
chiese se fosse quello il problema: magari la signora Barrow era nel
posto sbagliato. Magari – va a sapere – in un cimitero si
creavano le condizioni ottimali per far finire gli spiriti nel posto
giusto, qualunque esso fosse, mentre al di fuori delle mura
consacrate questo non succedeva.
Il
ragionamento era debole, lo riconosceva da solo, non teneva conto di
innumerevoli variabili, come l’inumazione di atei o tombe al di
fuori dei camposanti da cui però non scaturivano fantasmi, ma in
effetti non aveva altri elementi da cui partire.
Andò
all’edificio nel quale erano conservati gli attrezzi e si procurò
un palanchino, poi tornò al mausoleo.
Per
l’ennesima volta fissò la tomba: era una lapide bianca, semplice e
linda, probabilmente come doveva essere stata la signora Barrow in
vita. Faceva venire voglia di sedersi lì di fianco, di parlarle,
quasi, come si sarebbe fatto con una vecchia zia buona e saggia.
L’idea
di serenità che comunicava sembrava non avere nulla a che fare con
tutto il bailamme che succedeva di notte.
Piantò
il palanchino in una fessura e fece forza. Con un rumore raschiante
che sembrava uscito da un film horror, il blocco di marmo si spostò
di mezzo pollice[2].
Non
successe assolutamente niente. Non scaturirono dalla fossa entità
soprannaturali e non si udirono lamenti o grida. Il cielo rimase
azzurro, la temperatura non si abbassò, gli uccelli continuarono a
cantare imperterriti.
Altra
spinta, altro movimento della lapide.
Pian
piano, la pietra fu spostata quel tanto che avrebbe consentito di
dare un’occhiata a quello che c’era sotto.
Austin
appoggiò da una parte il palanchino, quindi si terse il sudore dalla
fronte. Scrutò dapprima con vaga esitazione il buco nero che gli si
apriva davanti ai piedi, quindi trasse di tasca il cellulare, attivò
la torcia e la puntò nella fossa.
Non
c’era niente.
L’uomo
aggrottò le sopracciglia e si inginocchiò per guardare meglio, ma
dovette arrendersi all’evidenza: quella che stava illuminando era
una cavità completamente vuota.
Si
rialzò perplesso e di nuovo si pose la fatidica domanda: che fare?
§
Austin
si sedette al tavolo della cucina. Gettò un’occhiata al
contenitore con l’insalata pronta, ma la forchetta rimase al suo
posto, a sinistra e perfettamente allineata al bordo della
tovaglietta.
La
giornata era trascorsa infruttuosa. L’avvocato Keynes non si era
fatto trovare, la signora Boyle aveva rifiutato di vederlo. Il signor
Donovan gli aveva fatto un’altra telefonata: la banca aveva
sicuramente capito qualcosa, non c’era più tempo.
E
lui, per la prima volta nella sua vita professionale, non sapeva che
pesci pigliare. Dedicò un’altra occhiata alla cena, ma poi la
spinse addirittura via.
Le
luci ebbero un’oscillazione: eccola che tornava, e lui non sapeva
che fare.
“Cosa
vuoi?” chiese a voce alta.
Le
luci sfarfallarono di nuovo.
“Dimmi
cosa vuoi, no? Così la facciamo finita.”
Le
luci si spensero e si riaccesero.
“Bah,”
brontolò Austin poco convinto. Diede un’altra occhiata alla cena,
poi girò le spalle e si ritirò in camera.
Quella
notte fece un sogno: nella stanza senza finestre, quella dove
Borowicz aveva fotografato la prima parete deturpata, c’era una
porta e da essa si dipartiva una scala che scendeva.
Nonostante
la sua consolidata abitudine di lavarsi e sbarbarsi prima di
qualsiasi altra cosa, non appena si svegliò, Austin si vestì
sommariamente e corse nel piccolo vano.
Sul
muro opposto alla porta c’era un crepa verticale, che partiva dal
pavimento e si fermava a metà altezza.
A
quella vista, egli corse a prendere la mazza da muratore e con tutte
le sue forze l’abbatté contro la parete. Un mattone cadde
rivelando un vano buio, dal quale uscì una zaffata di muffa e limo.
Austin prese il cellulare, attivò la torcia e scrutò al di là:
c’era una scala, e andava verso il basso.
I
successivi quaranta minuti li trascorse a demolire la parete. Quando
ebbe creato un vano sufficiente a consentire il passaggio, si procurò
una torcia più potente e scese.
I
gradini erano scavati direttamente nella pietra e le pareti, man mano
che procedeva verso il basso, diventavano sempre più grezze e
irregolari.
Alla
fine c’era una grotta. Il vano era probabilmente di origine
naturale, ma era stato scavato e ampliato da mani umane, che
l’avevano anche reso approssimativamente quadrangolare.
Al
centro, su due cavalletti, c’era una bara coperta da uno strato di
polvere e muffa. Contro una parete c’era una cassa di metallo
chiusa da un catenaccio.
La
temperatura, già fredda in quel luogo sotterraneo e chiuso, calò
d’improvviso. “Sei qui, vero?” chiese Austin.
“Ah,
memoria, nemica mortale del mio riposo,” sussurrò una voce
femminile, così lieve che l’uomo non avrebbe saputo dire se
l’aveva sentita veramente o solo immaginata.
Egli
non gettò nemmeno un’occhiata al feretro, era abbastanza chiaro
chi contenesse. Rivolse invece la sua attenzione alla cassa: vi si
chinò dinnanzi e l’aprì, rivelando una serie di volumi. Ne prese
uno a caso: era un libro mastro vergato a mano. Con qualche
difficoltà per la grafia antiquata, scorse le varie voci, trovando
fra le altre quaderni da scuola, una lavagna, medicinali, cuoio per
fare scarpe, stoffa per corredi e simili.
Il
documento era in un ordine scrupoloso.
Trovò
poi dei libri paga e una cartella nella quale erano conservate
numerose ricevute, anch’esse in un ordine che stupì persino lui.
Infine
c’era un diario.
Portò
tutto in cucina, si procurò carta e penna per prendere appunti, poi
si immerse nella lettura. Di tanto in tanto aveva la sensazione che
qualcuno stesse leggendo da sopra la sua spalla, ma per il resto
nulla turbò la sua concentrazione.
Quando
ebbe terminato, aveva praticamente riempito il blocco. Scorse le
pagine coperte della sua scrittura fine e ordinata, quindi si procurò
un ulteriore foglio, sul quale cominciò a elencare una serie di
punti:
-
I fantasmi esistono.
-
A Christineberg c’è un fantasma, cosa vuole? Risp.: Verità, cfr.
scritta su muro.
-
Verità, perché? Risp.: Associazione storica dice calunnie su
tenuta. Perché? Disonestà intellettuale? Forse figura sig.ra Barrow
inaccettabile per mentalità attuale?
-
Opuscolo vecchio vero – Libro associazione falso (cfr. libri mastri
etc. + diario).
-
Museo chiuso causa intervento soprannaturale?Ira sig.ra Barrow?
-
Frase memoria/riposo: forse situazione attuale non permette eterno
riposo a sig.ra Barrow? Sig.ra vuole andare a… (dove vanno gli
spiriti)?
-
Bara nella grotta: sig.ra Barrow desidera sue spoglie rimanere
Christineberg (cfr. diario per descriz. evento). Possibile murare
nuovamente accesso? Controllare problemi sanitari.
-
Cosa dire sig. Donovan?
Picchiettando
sul tavolo con la penna, Austin rilesse attentamente ciò che aveva
scritto. Fatto questo posò il foglio collocandolo con il margine
inferiore esattamente parallelo al bordo del tavolo, si alzò e
accese la macchina per il caffè, quindi, nell’attesa che la
bevanda fosse pronta, andò finalmente in bagno a lavarsi e a farsi
la barba.
Al
ritorno si versò una tazza di caffè, la sorbì con calma, lavò il
recipiente e lo depose capovolto nell’acquaio.
Fu
solo a quel punto che prese il cellulare e compose il numero del
signor Donovan.
“Come
sta andando?” berciò nel microfono l’imprenditore.
“Bene.”
Seguirono
alcuni secondi di silenzio, poi giunse la stupefatta replica: “Bene?
Come sarebbe a dire? Il problema è risolto?”
“Diciamo
che lo sarà se lei farà alcune cose.”
Altri
secondi di pausa, poi: “Chi è che vuole mazzette?”
“Nessuna
mazzetta, signor Donovan. Ho trovato alcuni documenti storici nella
villa, sarà necessario farli pubblicare.”
“Cosa?
Cosa cazzo hanno a che fare dei documenti storici con gli stronzi che
mi sabotavano il lavoro?”
“Ho
stipulato un accordo: se ci sarà la garanzia che i documenti
verranno pubblicati, gli atti di sabotaggio cesseranno.”
La
voce dell’imprenditore assunse un tono di incredulità: “Con chi
l’avrebbe stipulato, questo cazzo di accordo? La pubblicazione,
poi, quanto mi verrà a costare?”
“Sicuramente
meno di quello che al momento sta rischiando di pagare alla banca.”
§
La
festa di inaugurazione era nel pieno dello svolgimento. Abbronzatura
perfetta, smoking di sartoria, un raggiante signor Donovan riceveva
gli ospiti sulla porta.
La
villa era aperta e completamente illuminata, uomini e donne in abito
da sera, chi con un bicchiere e chi con un piatto del buffet in mano,
chiacchieravano distrattamente, ammirando gli arredi d’epoca e i
pavimenti a palladiana, per l’occasione lucidati praticamente a
specchio.
Un
po’ discosto dalla folla, Austin osservava serio lo svolgersi
dell’evento. Teneva d’occhio soprattutto un tavolino sul quale,
disposte a piramide, c’erano un certo numero di copie omaggio di un
libro dal titolo: ‘La verità su Ingeborg Barrow’. La gente
passava, le sfogliava, qualcuno se ne portava anche via una.
Il
fantasma non aveva più dato segno di sé, il che forse significava
che se n’era andato, o magari stava rispettando la sua parte
dell’accordo.
Uscì
in giardino: il garden designer aveva superato se stesso e la distesa
di piante mezze inselvatichite che circondava la tenuta si era
trasformata in un magnifico parco. Il mausoleo era rimasto, ma il
signor Donovan aveva voluto che la lapide fosse rimossa.
La
cosa in fondo aveva poca importanza.
Austin
si sedette su un gradino, si appoggiò all’indietro e chiuse gli
occhi. Dalla villa giungevano musica forte e voci, percepì la risata
stridula di qualcuno che doveva già essere parecchio ubriaco.
Poi
udì il fruscio di passi in avvicinamento e una voce chiese: “Signor
Austin, è qui?”
L’uomo
si riscosse bruscamente. Scattò in piedi e si sistemò le falde
della giacca. Individuò lo spencer bianco di un cameriere. “Eccomi,”
rispose.
“Meno
male, l’ho cercata dappertutto. Il signor Donovan vuole fare un
discorso, ci tiene che ci sia anche lei.”
“D’accordo,”
rispose lui con poco entusiasmo, “vengo subito.”
Mentre
stava per allontanarsi in direzione della villa, un refolo freddo gli
scompigliò i capelli. Percepì qualcosa come un bacio sulla guancia
mentre nell’aria echeggiava, di certo per l’ultima volta, il
canto che ormai aveva imparato a conoscere.
[1]
Nel folklore locale, lo spirito di un trapassato.
[2]
Un pollice corrisponde a 2,54 cm.
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