C’erano una
volta venticinque soldatini tutti fratelli, perché tutti
fusi fuor dallo stesso vecchio cucchiaio di stagno.
Avevano il fucile in
ispalla, la divisa rossa e turchina, proprio bella, e tutti guardavano
diritto dinanzi a sé.
La prima cosa che
udirono al mondo, quando fu tolto il coperchio della scatola, fu il
grido: «Soldatini di stagno!»
Erano lì,
con le braccia dritte lungo il busto e lo sguardo
assente, mentre il caporale se ne stava impettito sul suo improvvisato
piedistallo arrangiato con un secchio di latta, a sbraitare come un
dannato nella speranza di riuscire ad incutere un po’ di
timore al plotone, troppo sfiancato per poter replicare in alcun modo.
‒ Signorsì, signore!
Era quella, la formula che ogni militare doveva usare per rispetto ai
propri superiori, quand’anche fossero stati dei semplici
sottufficiali. In fondo, loro non erano altro che l’ultimo
baluardo di quella misera guerra che si era protratta per troppo tempo,
senza neppur ricordare il motivo per cui era scoppiata.
Neanche rammentava quando tutto era cominciato. Nemmeno sforzandosi
riusciva a rischiararsi la mente, in quella memoria ormai consunta,
incapace persino di ricordarsi i nomi dei suoi compari d’armi
ch’avevano perso la vita, senza rendersene conto. Era
terrorizzato anche quel giorno, ma la monotonia
dell’indifferenza riusciva sempre a tranquillizzarlo, perfino
in quel momento, dove il rimbombo della granata esplosa la scorsa notte
gli riecheggiava nella mente. Mille immagini si susseguivano senza
sosta in quel monologo silenzioso, fatto di pezzi di carne che volavano
da una parte all’altra del campo, l’urlo disperato
di Wilfred, o Edward, non ricordava: era un ragazzino simpatico,
più giovane di lui di qualche anno.
Stringeva tra le mani il fucile, nella bocca il muto "mi dispiace" che
avrebbe tanto voluto dirgli, invece di voltargli le spalle al suono
della ritirata. Era morto, e senza neanche qualcuno ch’avesse
provato a salvarlo.
Sentiva la puzza della polvere da sparo, Keith stava di nuovo pulendo
la canna del fucile.
‒ Mi rilassa ‒ gli aveva detto un giorno, ‒ mi aiuta a non pensare.
Aveva ragione. L’urlo della paura squarciava loro i petti,
circuiva l’irrisolutezza del loro coraggio trascinandoli sul
fondo del baratro, dove sarebbe bastata solo un’altra
esplosione per poterli far sprofondare più in basso.
Lì, nel posto in cui non sarebbero più stati
capaci di tornare in superficie.
Si strinse nella sciarpa di lana grezza. Pungeva, e qualche buco
concedeva al freddo di pizzicargli la pelle del collo, eppure
continuava ad indossarla: rivedeva i begli occhi compiaciuti, e le mani
tremanti di lei mentre gli porgeva l’indumento cucito a mano. Aveva
visto le dita sottili bucherellate dall’uncinetto di ferro e
le labbra serrarsi in un sorrisetto imbarazzato.
‒ Non è granché, ma spero possa tenerti al caldo
‒ aveva sentito dire dalla sua vocina sottile, ‒ desidero solo che tu
non prenda un raffreddore.
Non l'era importato di quello che lui avrebbe potuto pensare,
perché così, ingenuamente com'era nata, parlava.
Così ingenuamente lo amava. E non aveva prestato affatto
attenzione al fatto che sarebbe stato più probabile morire
per un proiettile o per una bomba, lì fuori, nella guerra
che s’apprestava a scoppiare. Ciò a cui aveva
pensato era che non prendesse freddo, persa in quella
spontaneità di cui lui si era innamorato fin da subito.
Sfiorò quel volto sottile con le dita logore e consumate dal
lavoro nei campi, passando lievemente il pollice sulle labbra scarne di
lei, irretite dal freddo.
‒ Ti aspetterò.
Era troppa la fede di quelle parole, e lui non aveva avuto il coraggio
di contraddirle. Non poteva fuggire dalle sue belle mani che gli
avviluppavano il volto, né da quel bacio morbido, a contatto
con la bocca fresca e umida della giovane.
Ti amo,
gli aveva detto, con quel suo gesto. Ed è per questo che
devi tornare da me.
Non riusciva a ricordare quanto tempo fosse passato da allora, ma era
troppo, troppo perché lui potesse accettare di stare lontano
da lei ancora un altro minuto, un’altra ora, un altro anno.
Il gelo di dicembre era ormai giunto, ma lui non sarebbe morto di
freddo, o lei lo avrebbe sicuramente sgridato. Era per questo che,
nonostante avesse pensato ormai molte volte di farla finita, era ancora
seduto lì, ad osservare Keith e la sua stupida fisima di
pulire il fucile.
‒ Chi è di turno per stanotte? ‒ domandò il
sottotenente di reparto, giunto dinnanzi ai pochi uomini rimasti.
Si alzò in piedi, imbracciando lo schioppo. ‒ Sono io.
Ogni soldato era
identico agli altri; soltanto, per quello che era stato fuso per
ultimo, non era rimasto stagno abbastanza, e così gli era
venuta una gamba sola; ma egli stava altrettanto saldo
sull’unica gamba, quanto gli altri, che ne avevano due.
Perse la gamba
durante la battaglia della Somme, e il cielo volle che
non fosse troppo tardi per cauterizzargliela. Aveva gridato, aveva
sentito il fuoco bruciargli la carne penzolante dell’arto
mutilato e aveva implorato l’oblio di prendergli la
coscienza, nel vano tentativo di fuggire da quella spietata agonia che
gli divorava i tessuti.
L’aveva sognata, quella notte. L’aveva vista ridere
e cingergli il collo con le braccia sottili, mentre s’issava
sulla sua schiena per imitare il padre che la mattina presto se ne
andava a cavallo per i campi, ad appuntarsi quale fosse il terreno da
destinare al maggese. Lui l’assecondava, scarrozzandola da
una parte all’altra della fattoria, sperando che non le
venisse la bizzarra idea di mettergli delle briglie addosso.
Aveva una risata strana, sguaiata, tanto da far incaponire la madre. ‒
Una signorina non ride a quel modo.
Ma la sua risata gli piaceva da matti. Era spontanea, vera, di quelle
che fanno ridere a loro volta.
Aveva passato la sua giovane vita stretto alle braccia di quella
piccola ragazza, convinto di non poter chiedere altro se non la
felicità per entrambi. Se fossero stati insieme, era sicuro
che non sarebbe potuto accadere niente. Non conosceva la ragione di
quella certezza, ma la riscopriva ogni volta nei begli occhi pervinca
di lei, che sembravano avvolgerlo come una placida culla fatta di
serenità, di sogni in attesa d’esser realizzati.
Non ricordava i nomi dei suoi commilitoni; però quanto lei
volesse la casa con le persiane verde pastello, quello sì,
riusciva a figurarselo perfettamente. E voleva la casa vicino al Loch
Carron, lì dove avrebbe potuto svegliarsi con lo starnazzare
risoluto delle anatre, mentre preparava la colazione dopo aver discusso
con la gallina litigiosa riguardo a chi spettassero le uova appena
covate. Ricordava perfino quando gli aveva confidato come avrebbe
voluto che lui le chiedesse di sposarlo.
‒ Devi sorprendermi ‒ gli aveva detto, ‒ non voglio un mazzo di fiori e
una confessione.
‒ E allora cosa vuoi?
‒ Mah non saprei, devi essere tu a decidere. Io ti ho detto solo che
non voglio i fiori.
‒ Vorrà dire che ti porterò un mazzo di lattuga.
La vide sorridere. Nonostante la proposta assurda, sembrava davvero
felice di quel suo responso.
Quando si svegliò, la notte non gli era mai apparsa
così buia. Girò la testa a destra a manca, mentre
i medici della tenda tentavano disperatamente di rimetterlo sulla
brandina.
‒ Lei dov’è?! ‒ aveva urlato, ma gli anonimi volti
che lo squadravano dall’alto non sembravano curarsi dei suoi
vagheggiamenti.
Voleva riaddormentarsi, fosse anche solo per poterla rivedere
un’altra volta, la sua felicità, quella che gli
era stata tolta e che poteva spiare solo nell’eco dei suoi
sogni, dispettosi e inafferrabili, acerrimi rivali del suo conscio
frustrato e inerme di fronte all’ineluttabilità
del suo destino.
Si adattò presto a camminare con la stampella. Il lato
positivo – in tutta quella macabra vicenda – era
che non poteva più prestare servizio sul fronte. Doveva
rimanersene nella trincea, aiutando con i lavori di manovalanza
più osceni – pulire i calderoni arrugginiti,
svuotare le latrine improvvisate e riempire i secchi
dell’acqua stagnante caduta dal cielo il giorno prima. Non
era dignitoso, ma almeno era ancora vivo.
Attese paziente gli ordini dell’ufficiale a cui era stato
assegnato, ma quel giorno, di ritorno dal fuoco nemico, una brandina
era rossa, completamente inzuppata del sangue di un suo compagno. Del
suo compagno.
‒ Keith ‒ aveva sussurrato, perso ad osservare quello sguardo per
sempre volto al crepuscolo.
Tra le mani, stringeva ancora il suo fucile. Era davvero pulito.
La più
bella di tutti, però, era una piccola signora, ritta vicino
al portone aperto del castello; anch’essa di cartone, ma con
un vestito di velo leggerissimo,
ed un sottile nastrino azzurro sulle spalle, posto a mo’ di
sciarpa: nel mezzo del nastro era appuntata una stellina lucente,
grande come tutto il suo viso.
Era arrabbiata, quel
giorno. Lui le aveva detto che sarebbe dovuto
partire di lì a poco, e lei non aveva fatto altro che
imbronciarsi e rimanersene in disparte a braccia conserte, in attesa
delle sue scuse.
‒ Non è colpa sua, tesoro ‒ aveva cercato di farla ragionare
il padre, ‒ la chiamata alle armi purtroppo è obbligatoria.
‒ Ma mi lascerà sola ‒ aveva risposto, con la sua adorabile
boccuccia, ‒ ed io non potrò vederlo mai più.
‒ Questo non è vero. ‒ Le si avvicinò,
carezzandole una guancia. ‒ Tornerò da te ancora prima che
tu possa rendertene conto.
‒ Lo puoi promettere?
‒ Certo.
L’aveva vista sorridere, le placide braccia del padre
avvolsero entrambi in una dolce stretta affettuosa. ‒ Voi siete nati
insieme, e insieme starete per sempre.
Gli era piaciuta, la speranza di quella parole. Così tanto
da portarsele con sé sul fronte, mentre il fischio del treno
accresceva ad ogni istante la distanza che sembrava volerli dividere. E
chissà se lei avrebbe pensato a lui, mentre aiutava il padre
ad arare i campi, o nel preparare lo stufato di verdure che tanto gli
piaceva, quello con più carote, perché le patate
non gli andavano molto a genio.
Erano passati due anni. Aveva scritto solamente un semplice telegramma
a suo padre, ma a lei non aveva mai fatto sapere niente. Ne avrebbe
avute di cose di cui scusarsi, se fosse riuscito a tornare a casa.
‒ Ehi. ‒ Una voce fuori campo lo distrasse dal suo rimuginare. ‒ A che
diavolo stai pensando?
‒ Alla mia fidanzata.
La nuova recluta gli sorrise affabile; era un giovane alto e di
bell’aspetto, coi capelli chiari e gli occhi squisitamente
verdi. Si chiamava Noah, da quel che ricordava – in fondo lui
per i nomi non ci era proprio tagliato.
‒ È carina? ‒ gli chiese, interessato, ‒ scommetto di
sì.
Sorrise tra sé e sé, peccato non avere neanche
una sua foto. Quel pivello sarebbe crepato d’invidia. ‒
Sì, lo è.
‒ È bionda?
‒ No, rossa.
‒ Rossa, che sballo! ‒ Noah non cercava affatto di trattenere
l’entusiasmo. Buon per lui, almeno uno dei due era felice. ‒
Ti prego, dimmi che ha anche quelle belle lentiggini che hanno sempre
tutte le rosse.
‒ Le ha.
‒ E gli occhi?
Al solo ripensarci, si sentiva mancare il terreno sotto ai piedi. I
suoi magnifici occhi. Quello sguardo che aveva incrociato dozzine di
volte, senza mai stancarsi di vederlo riflesso nelle sue pupille. Una
parte di sé – quella nascosta e perversa
– aveva sognato di strapparglieli per poterseli tenere per
sempre, quei dannati occhi.
‒ Azzurri.
‒ È una bomba! ‒ esclamò, infischiandosene di
come potesse apparire poco appropriato il suo commento, ‒ e…?
‒ E cosa vuoi sapere ancora?
‒ Ci hai fatto… qualcosa?
Era accaduto per caso. Avevano fatto l’amore nel fienile,
mentre suo padre era via per la vendemmia.
Ripensò a com’era bella quel pomeriggio, tutta
sudata, con il corsetto slacciato alla bell’e meglio e i
capelli in disordine, arricciati da qualche spiga bionda sparsa a
terra. Se l’era premuta contro il petto, lasciandole appena
il tempo di riprendere fiato, prima di farla sua ancora una volta.
Un’altra. Un’altra ancora.
La pelle biancastra aveva iniziato ad impallidire al riflesso della
luna nascente, e i suoi occhi avevano tacitamente implorato che
giungesse il sonno ad intorpidirle i sensi, prima di pronunciare il suo
nome, con la bocca serrata contro la pelle della sua clavicola.
L’aveva tenuta tra le braccia per tutta la notte,
sussurrandole ciò che il suo cuore gli suggeriva, e
addormentandosi con le sue piccole mani strette alla pelle della
schiena.
Aveva sognato quel dolce amplesso così tante volte da
essersene ormai dimenticato: più cercava di raggiungere
l’agognato ricordo, più la sua memoria gli
sfuggiva, in una sfida che lo vedeva sempre perdere, fino al giorno in
cui aveva creduto che non fosse mai successo.
‒ Forse sì.
A sera inoltrata i
giocattoli cominciarono a divertirsi: si scambiavano visite ballavano,
giocavano alla guerra.
Quando l'indomani i
bambini si alzarono, il soldatino fu messo vicino alla finestra e, non
si sa se fu un troll o una folata di vento, la finestra si
aprì e il soldatino cadde a testa in giù dal
terzo piano. Fu un volo terribile, a gambe all'aria, poi cadde sul
berretto infilando la baionetta tra le pietre.
I militari erano
tutti con la testa affossata nella trincea. La nube
tossica si espanse fin nel corridoio principale, laddove il
sottufficiale Patel tentava disperatamente di raggiungere la radio per
dare notizia della bomba a gas appena esplosa. Non appena lo vide
accasciarsi a terra e sputare sangue, capì che non
c’era ormai più speranza.
S’issò sulla stampella, con le orecchie ancora
ovattate dall’esplosione e il corpo intorpidito; dannazione,
se avesse ancora avuto la sua gamba sarebbe sicuramente stato in grado
di fuggire più in fretta. Si portò un fazzoletto
alla bocca, inalando quanto più aria possibile e trattenendo
il fiato per il tempo sufficiente per scappare dal gas. Non credeva che
ce l’avrebbe fatta, a stento riusciva a vedere dove stava
andando, figurarsi riuscire a scampare alla morte per
l’ennesima volta.
Se non si fossero rincitrulliti la sera precedente, avrebbero potuto
salvarsi tutti. Ancora poteva sentire in mezzo al marasma
l’odore del bourbon, il fastidioso puzzo dei sigari rimasti
accesi sulla bocca dei soldati ubriachi e insonnoliti, che ogni tanto
si risvegliavano per dare una boccata di fumo prima di riassopirsi.
Poteva sentire gli schiamazzi goliardici e irrisori, alcuni –
i più audaci – che si atteggiavano a donne di
bordello, mimando con le braccia le forme risolute del bel sesso che si
concedevano di sognare ogni notte, fosse anche solo per fuggire
dall’orrore a cui ogni giorno venivano condannati.
Perché era accaduto? Perché a loro?
Certo, era normale chiederselo. Immaginava che non fossero stati i
primi ad aver provato quell’orribile veleno, e di certo non
sarebbero stati gli ultimi. La guerra non gli era mai parsa
così brutta come in quell’istante: gli aveva
portato via ciò che di più caro possedeva, vedeva
persino vacillare la sua sanità mentale, chiedendosi se
sarebbe mai riuscito a tornare davvero a casa.
Non era solo per lei, in realtà. Voleva rivedere
Plockton¹, la sua piccola vegetazione lussureggiante, e
riascoltare il fruscio dei pescherecci al largo della spiaggia, mentre
il sole calava all’orizzonte e l’olezzo del pesce
inaspriva le narici, al ritorno dei marinai stanchi, sudati, con
addosso l’odore salmastro dell’oceano.
Quante volte ci erano andati insieme, da piccoli, ad ascoltare i
racconti che parlavano di mostri marini ed eroici avventurieri. Lei era
sempre spaventata, ed ogni volta si stringeva al suo braccio, con il
bel volto lentigginoso che s’illuminava alla luce del piccolo
falò attorno al quale sedevano, durante le placide sere
d’estate. Già allora era completamente assorto
dallo sguardo vispo della ragazza, dal suo sorriso sdentato e dalle
trecce rosse, così in sintonia con gli scoppi delle fiamme
dinnanzi a loro.
Non aveva mai voluto tutto questo. Non era stato lui a scegliere
d’abbandonare il suo piccolo mondo felice, e ad ogni passo
che compiva lontano dalla morte, dai suoi compagni, si sentiva vittima
di un insano senso di colpa. Non gl’importava di salvare
nessuno, lui non era un eroe, non voleva neanche esserlo.
Voleva solo avere un’altra possibilità, quella
giusta, che gli avrebbe finalmente permesso di tornare a casa e
riabbracciare la sua vecchia vita, fatta di anonime giornate,
così belle da passare inosservate alla gente grande, gli
stessi volgari sempliciotti che se ne stavano tronfi sul proprio trono
di velluto rosso, con il doppiopetto sbottonato a causa dello stomaco
pieno e gli occhi puntati sul mondo, lì dove avevano scelto
di cominciare una guerra che nessuno di loro stava combattendo davvero.
Che bravi soldatini ch’erano stati. Avevano obbedito ogni
giorno, svolto ogni singolo compito ch’era stato loro
assegnato. Ed erano morti, a ormai troppi passi di distanza
perché potesse ancora vederne i volti agonizzanti, con le
bocche ormai livide e tormentate, nell’attesa di un soffio
d’aria che non sarebbe più giunto a salvarli. Non
quella volta.
E lui, dove mai poteva andare? Era ormai un esule del campo di
battaglia, e avrebbe dovuto trovare un modo per non perire sotto ai
colpi del fuoco nemico. Avrebbe dovuto trovare un modo per tornare a
casa, in modo da sfuggire all’accusa d’esser un
disertore. Avrebbe tanto voluto essere il militare che tutti avrebbero
acclamato, ma quel poco che rimaneva del suo buonsenso
gl’impediva di agire come quegli ardimentosi eroi di cui gli
narravano i marinai.
Dannazione. E dire che non si era mai sentito così vigliacco.
Uno dei bambini
più piccoli prese il soldatino e lo gettò nella
stufa, senza alcun motivo. Sicuramente era colpa del troll.
I suoi colori erano
ormai sbiaditi, ma chi poteva dire se fosse per il viaggio o per la
pena d’amore?
Il soldatino
guardò la fanciulla e lei guardò lui, e lui si
sentì sciogliere, ma ancora teneva ben stretto il fucile
sulla spalla. Intanto una porta si spalancò e il vento
afferrò la ballerina che volò come una silfide
proprio nella stufa vicino al soldatino. Sparì con una sola
fiammata, e anche il soldatino si sciolse completamente.
Venne a sapere della
sua morte durante la prigionia, attraverso un
telegramma striminzito.
Scarlattina.
Durante la notte, ciò che gli era rimasto era scivolato via
per sempre, vittima anch’esso dei residui della guerra.
Se n’era andata via in punta di piedi, senza svegliare
nessuno. Tipico di lei, in fondo. Odiava dipendere dalle persone.
Odiava vederle soffrire.
Era seduto sul pavimento, con le spalle premute contro le sbarre
arrugginite della cella, gli occhi stanchi e incavati, le labbra
incapaci di trattenere oltre quell’urlo che sembrava
lacerargli ciò ch’era rimasto
dell’involucro di carne che conteneva la sua anima
– ammesso che ne avesse ancora una.
L’avevano arrestato mentre cercava di superare la frontiera.
Dalla divisa che indossava, risultò a tutti ovvia la sua
incresciosa diserzione. Fu sbattuto in galera, in attesa di un verdetto
che non sapeva quando sarebbe giunto. Da quel momento in poi, non gli
sarebbe comunque importato.
Sarebbe voluto tornare da lei, risentire il suo vociare risentito ed
isterico, mentre lo sgridava d’averci messo molto, troppo. E
allora lui l’avrebbe abbracciata, sussurrandole che non aveva
fatto altro che pensare a lei, che s’era ancora vivo
– un po’ a pezzi, magari, ma vivo – era
per il costante ricordo del suo sorriso, dei suoi occhi spensierati e
dei morbidi capelli che gli pizzicavano le guance. Lei si sarebbe
rasserenata, la conosceva troppo bene.
E chissà, forse sarebbe finalmente riuscito a costruirle la
casa con le persiane verdi, quella sul Loch Carron; e forse la mattina
lei avrebbe potuto sentire le sue dannate anatre, mentre gli preparava
la colazione, indispettendosi per la sua poca dimestichezza con la
nuova cucina. Avrebbero passato la giornata nei campi, tenendo fede
alla promessa che il padre aveva fatto loro, prima che lui partisse.
Voi siete nati insieme, e insieme starete per sempre.
Dov’era la sua promessa? Dov’era lei, mentre il suo
cuore urlava all’inganno?
Non l’aveva aspettato, come sempre aveva fatto di testa sua.
E così, se n’era andata. E non avrebbe visto la
casa, né sentito le anatre. Non si sarebbe arrabbiata con i
fornelli, non l’avrebbe più sgridato. Non gli
avrebbe più detto quanto lo amava.
Sentì uno strano dolore pugnalargli il torace, e gli occhi
farsi sempre più gonfi a causa di quelle lacrime a cui
neppure aveva fatto caso. Non avrebbe dovuto fargli questo: lui, che
aveva raccomandato l’anima al Dio in cui tanto credeva, aveva
fatto l’impossibile per rimanere vivo.
Tutto, solo per tornare da lei.
Tutto, solo per scoprire che non ci sarebbe stata.
Capì che il prezzo da pagare era stato troppo alto. Lui
sì, respirava ancora, il suo cuore – distrutto e
ormai senza più traccia d’alcuna favilla
– ancora batteva. Ma a cosa sarebbe servito, quel suo corpo
ormai inutile? Che gioia avrebbe mai potuto ancora provare, dopo che
l’ultimo briciolo di speranza era stato fatto a pezzi da quel
misero foglietto di carta raggrinzito?
Il primo singhiozzo giunse violento a riempirgli la bocca. E al diavolo
il dignitoso contegno dell’uomo, mentre il bambino
ch’era stato sputava via tutto il dolore che quel corpo non
riusciva a contenere. Al diavolo le scampagnate in mezzo ai boschi e i
racconti dei marinai. Al diavolo le promesse, i progetti e le puerili
aspettative.
I dolci ricordi si dissipavano come fiele nella sua mente, la fortezza
dell’intelletto soccombeva ai rigidi colpi di quel dolore
lacerante, così violento da risultargli persino
più insopportabile dell’agonia a cui era stato
costretto durante l’operazione alla gamba. Quel dolore no,
non riusciva a controllarlo. Era come una presenza aleatoria e senza
consistenza. Non avrebbe mai potuto uccidere ciò che non
riusciva neanche a vedere. Eppure, uno dei due avrebbe dovuto perdere
quella sfida, perché non potevano essere entrambi padroni di
quel corpo. Non più.
Si voltò verso l’improvvisato tavolino accanto al
letto. Lì, sfatta e ormai logora, vi era la sciarpa di lana
grezza. Quella che lei aveva fatto per lui. Quella brutta, con tanti
buchi quanti ne aveva lei sulle mani, quel giorno che
gliel’aveva data.
Si alzò, sfiorandola delicatamente con la punta delle dita
annerite.
Il suo
regalo. Quello che gli avrebbe concesso di tornare da lei.
Salì su un panchetto. Legò
un’estremità del tessuto al cordone in ferro che
pendeva dal soffitto, mentre si portava l’altra intorno al
collo. Poi calciò via il sostegno sotto al piede.
S’addormentò per sempre, senza emettere alcun
fiato, con le iridi vitree incatenate all’immagine eterna di
lei che apriva una finestra dalle imposte verdi.
Lì, sul Loch Carron.
Quando
il giorno dopo la domestica tolse la cenere, del soldatino
trovò solo il cuoricino di stagno, della ballerina il
lustrino tutto bruciacchiato e annerito.
Fine
¹: Piccolo
villaggio della Scozia.
Note dell'autrice:
Sappiate che ci sto
provano in tutti i modi a non scrivere nulla di triste, ma niente,
proprio non mi riesce.
Per il contest indetto da Laodamia94
- che tra parentesi ringrazio, per avermi dato
l'opportunità di scrivere una storia del genere - ho deciso
di optare per un'altra terribile vicenda.
Sono una grandissima appassionata di storia, e non potevo scegliere
altro se non la Prima Guerra Mondiale come contesto.
Che dire, la storia mi rendo conto che ha veramente del cupo, ma
immagino che ipoteticamente parlando una vicenda come questa non fosse
poi così distante da ciò che accadeva nella
realtà di tutti i giorni.
Spero solo di non avervi annoiati, grazie a chi ha trovato il tempo
anche solo per leggerla!
A presto,
_EverAfter_