rinharu model
Nella
corsia
accanto, sempre
atto III:
acqua, per cambiare
«Ehi, Haru. Non hai provato anche tu qualcosa, durante quella
gara... ?»
Quanti cambiamenti avrebbe ancora dovuto affrontare, pur di non
lasciare andare quella sensazione?
C'era voluto del tempo, affinché capisse. Rin Matsuoka aveva
invaso
la sua vita con la furia di un maremoto, lasciandolo
irrimediabilmente diverso; il suo ricordo, le sue parole avevano
eroso granello dopo granello tutto ciò che Haruka credeva di
volere
– anzi, addirittura di essere. E quel
viaggio in Australia,
improvvisato, ne era solo l'ennesima conferma. Quel letto che
entrambi avevano accettato di condividere, per quella notte, una
firma su un patto già stipulato anni prima.
Rin sapeva parlare con il tono calmo dello scorrere dei ruscelli di
montagna; era un mormorio continuo, pieno della nuova vita che Haruka
aveva cominciato inconsapevolmente a desiderare. Ma non era successo
durante quell'episodio in particolare a cui Rin si riferiva,
risalente a pochi mesi prima, no; da anni, Haruka non faceva altro
che nuotare, sempre più veloce, sempre più
spesso, per raggiungere
l'unico traguardo che davvero contava. E quel traguardo era...
«Rin» lo interruppe, ad un certo punto, voltandosi
lentamente sul
fianco, verso di lui; quella distanza ormai quasi nulla, tra loro,
venne definitivamente spazzata via quando la mano di Haruka
sfiorò
quella del rosso con cautela, ma con lo stesso disperato bisogno che
aveva avvertito quella volta da bambini, in piscina, chissà
quanti
anni prima. Se per Rin rompere le barriere era facile, quasi
naturale, per Haruka quel gesto era il risultato di mesi di pensieri,
di ricordi, di speranze. «Hai mai visto l'Acqua?»
La domanda poteva sembrare illogica ed incomprensibile, persino a chi
conosceva Haruka e il suo modo diretto (persino troppo, quasi da
risultare stralunato) di esprimersi. Eppure, non era quello il caso
–
non stavolta: perché era certo che solo Rin potesse
comprendere
quello di cui stavano parlando e ne ebbe la conferma quando l'altro
quasi sussultò per poi girarsi verso di lui ed incontrare il
suo
sguardo, evidentemente colto alla sprovvista.
Scintillarono negli occhi di entrambi le espressioni di quegli anni
passati ad inseguire, disperatamente, quella che a tutti gli effetti
si sarebbe potuta considerare una musa del nuoto:
una figura
sfuggente ma costantemente presente per guidarli, per spingerli ad
andare più veloce, per costringerli a
non mollare.
«... Che razza di—domanda è?»
riuscì infine a soffiare Rin,
sempre sulla difensiva quando si trattava di sentimenti; eppure,
Haruka sentiva solo l'agitarsi lieve delle onde. «Vedo
l'acqua tutti
i giorni». Distolse lo sguardo, lo indirizzò verso
le ventole sul
soffitto, che a fatica davano un po' di refrigerio alla stanza e poi
rimase in silenzio, quasi colpevole.
«Sai a cosa mi riferisco» insistette dunque il
moro, testardo
abbastanza da proseguire e stringere ancora la mano di Rin che,
consapevole quanto poco convincenti suonassero i tentativi di fuggire
dalla domanda, non riusciva a sottrarsi da quel contatto.
Il silenzio che ne seguì parve essere a malapena scalfito
dagli
sporadici suoni della notte di Sidney, i quali si potevano udire
dalle strade attorno all'albergo dove soggiornavano: rumori di
clacson, risate allegre, voci che parlavano in inglese.
All'improvviso, Rin si sollevò a sedere, la canottiera nera
stropicciata a causa dello stare disteso; Haruka lo vide portarsi la
mano libera sul volto, di fronte agli occhi e, persino nel semi-buio
della stanza, ebbe la sensazione che fosse rosso in volto.
«Non so se è la stessa cosa» ammise,
infine, ancora incapace di
guardarlo. «Mi è capitato di... vedere qualcosa
mentre
nuotavo. Qualche volta».
«Qualcosa» gli fece eco Haruka, così da
costringerlo a continuare,
sollecitandolo a lasciarsi andare. Rin, che da bambino non riusciva
mai a tenere la bocca chiusa, adesso sembrava avere
difficoltà
nell'aprirsi, nel confessare un segreto che, in realtà,
Haruka
conosceva già.
«Quando abbiamo gareggiato la prima volta»
mormorò il rosso, a
voce bassa e con fretta, quasi volesse evitare che l'altro capisse.
«Sapevo che c'era un altro bambino come me nella corsia
accanto,
eppure... ho avuto la sensazione che fosse diverso. Che tu fossi
diverso».
Stavolta fu il turno di Haruka mettersi seduto, la mano ancora
stretta in quella dell'altro come se tutto ad un tratto potesse
scivolare via; si limitò in un primo momento a seguire con
occhi
curiosi e avidi le linee sinuose delle sue spalle, del suo collo,
della mascella parzialmente nascosta dai capelli in disordine.
«Perché?» sussurrò poi, senza
rendersene conto.
«Perché sembravi appartenere all'acqua. Come se
tu—fossi
l'Acqua».
Nonostante si pensasse preparato a simili affermazioni, Haruka
avvertì un brivido attraversargli la schiena ed ebbe bisogno
di
qualche attimo per realizzare che, alla fine, quell'infinito nuotare
in circolo lo aveva finalmente condotto alla sua meta: ciò
che per
anni aveva inseguito sotto la superficie dell'acqua adesso era
lì, a
pochi centimetri da lui, asciutto e caldo, reale e corporeo.
«Non me lo avevi mai detto» si limitò a
replicare il moro,
mascherando quanto in realtà il suo animo si stesse
dibattendo
dentro lui, come se volesse finalmente abbandonare il mare per
provare a spiccare il volo – lontano, più
lontano,come se
avesse appena scoperto la superficie dopo che Rin gliel'aveva
mostrata.
Capì solo in quel momento la natura di quello che, anni
prima, aveva
banalmente etichettato come “prurito” nello stomaco.
«Pensavo di essere pazzo» brontolò
immediatamente l'altro.
«Io ho pensato che fosse la mia guida». Il corpo
del moro scivolò
in avanti, più vicino a quello di Rin, fin quando non si
vide
costretto a lasciare andare la mano del ragazzo per costringerlo a
voltarsi verso di lui, così da poterlo guardare negli occhi:
come
aveva immaginato, persino nel bel mezzo della notte, il suo volto
pareva di un bel colore rosso e, a giudicare da come la pelle
scottava sotto le sue dita, non doveva essere solo un'impressione.
«L'Acqua ci ha trovati».
Lo sentì trattenere il respiro, anche se non ne comprese
subito la
ragione; lo sguardo del rivale di sempre brillava quanto le luci
della notte australiana, scintillava più della superficie di
qualunque specchio d'acqua.
Era strano sentire così vicino il respiro di qualcuno, il
calore del
corpo di un altro; si chiese, anzi, se fosse possibile essere
più
vicini ancora, se fosse possibile cacciare quell'ultima sciocca
distanza che li divideva dal traguardo.
Fu Rin a trovare per primo il coraggio di dare quell'ultima
bracciata; un movimento minimo fu sufficiente a far sì che
le loro
labbra si raggiungessero dopo essersi inseguite tanto a lungo. Fu un
bacio breve, impacciato, eppure in grado di mandare entrambi in
apnea, di far battere i loro cuori con la stessa forza con cui
tuonavano nei loro petti grazie all'adrenalina delle gare.
Quando recuperarono i propri spazi, però, quella distanza
non aveva
più il sapore di una sfida; era un traguardo ottenuto, che
faceva
ancora fremere i loro corpi ma che al tempo stesso sapevano di poter
ottenere di nuovo, insieme, ancora e ancora.
«Mio padre» sussurrò Rin e a Haruka
ricordò il rumore delle onde
che si poteva ascoltare riecheggiare nelle conchiglie, anche quando
il mare era lontano. «Lui... mi diceva sempre che ci sono
persone
destinate ad incontrarsi».
«A cambiarsi» lo corresse Haruka, ricordando ancora
quella
sensazione di buffo solletico nello stomaco, quella voglia di
superare i propri limiti che gli incontri con Rin, anche quando brevi
o disastrosi, avevano sempre accresciuto in lui.
«E a ritrovarsi. Sempre».
A quelle poche parole, seguì una carezza leggera e delicata,
nonostante Rin avesse le mani grandi. Haruka si ritrovò
quasi a
socchiudere gli occhi, lasciando che l'immagine del ragazzo andasse
lentamente a sovrapporsi a quella silhouette indefinita, compagna di
sempre, che aveva sempre visto nuotare al suo fianco.
Era abituato a sentire la presenza di Rin in acqua, nella corsia
accanto. Anche quando non c'era, da quando le loro strade si erano
divise, a Haruka bastava chiudere per un attimo gli occhi per
ricordare lo spettacolo a cui, grazie a lui, aveva assistito. Era
abituato a lasciarsi trascinare dai ricordi di tutte le volte in cui
Rin aveva invaso la sua vita; ogni volta l'aveva presa, ribaltata
–
una tempesta, che al suo passaggio spesso aveva lasciato distruzione
ma anche nuove speranze, portando il sereno con sé.
Forse Rin era davvero lo spirito dell'Acqua.
Ma adesso poteva percepire la sua presenza anche lì, su quel
letto.
Sentiva lo stesso irrefrenabile bisogno di congiungere le loro mani,
di stare al suo fianco, di continuare a correre ed era certo, ormai,
che sarebbe stato in grado di avvertirlo anche quando sarebbero fuori
dalla piscina oppure troppo lontani per incrociare i propri sguardi.
A quel lungo, pensieroso ma non scomodo silenzio, seguirono due
sorrisi complici, che presto si tramutarono in risate sommesse e
stupide – la sua più accennata, quella di Rin
più brillante,
fragorosa.
«Forse gli altri hanno ragione» mormorò
Rin ad un certo punto e,
quasi fosse incapace di stargli distante troppo a lungo,
poggiò la
propria fronte contro quella di Haruka.
«Su cosa?»
«Siamo davvero due maniaci dell'Acqua».
{parole:
1475}
note: Terza parte,
conclusiva del punto di vista di Haruka! La scena su cui mi
sono basata è, secondo me, il luogo di arrivo di un rapporto
che è sempre stato burrascoso, nel bene e nel male (motivo
per cui la Rinharu secondo me possiede così tanta potenza):
è finalmente un porto sicuro dove riposare, per entrambi,
come se l'Australia fosse stato designato come luogo di rinascita per
entrambi. Ecco, ho voluto riprendere questa scena per
ricucire al canon la questione "soulmate"; proprio
perché è un traguardo per loro, perché
questa è la prima scena in cui Rin riesce a parlare
letteralmente con il cuore in mano a Haruka e lui ascolta, colpito,
commosso, scosso. La dinamica ha preso pieghe differenti,
qui, ma il concetto è sempre quello: sono uniti,
un legame più forte che mai, indissolubile. E finalmente
(spero?) si rivela il prompt da cui si è avviata la
raccolta, quel linguaggio
che appartiene solo a loro: una figura indefinita che rappresenta
l'altro, in acqua, pronta a motivare, a spingerli a continuare a
nuotare. Non è un linguaggio molto ortodosso, me
ne rendo conto, ma (anche parzialmente nel canon, considerando che si
percepiscono a miglia e miglia di distanze) è il loro
linguaggio.
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