È un turbine di gocce di pioggia, quello che mi avvolge?
Sento freddo, lo sento sotto la pelle, nelle fibre muscolari, dentro
alle ossa fino al midollo.
I vestiti ormai lerci d’acqua sono incollati al mio corpo,
pesanti come un’ancora ostinatamente incollata al fondale.
La pioggia ancora mi scroscia addosso, sfruttando le mie forme per
raggiungere quel tetto in cemento più in fretta, folate di
vento, sempre più spesso, però, mi sbattono
contro, mi riempiono le narici e la bocca di quelle gocce che
continuano incessantemente a cadere dal cielo oscuro.
I bagliori della civiltà a stento si possono riconoscere
attorno a questo balcone sul mondo su cui sono stato portato.
Dovrei voltarmi, almeno per controllare cosa ne è stato
della guida che mi ha condotto fin qui, ma, ancora una volta, il mio
corpo pare aver una propria coscienza che si contrappone alla mia,
avendone la meglio.
Onde gelide si formano sul tessuto dei miei vestiti increspati, come
vele che si gonfiano sotto la prezza e risalgono il mio corpo.
Improvvisamente la punta dei miei piedi ricade mollemente verso il
basso, senza più nessun appoggio a cui assicurarsi.
Dovrei urlare, ma il vento mi riempie la gola non appena le mie labbra
tentano di aprirsi.
La pozzanghera che si era creata sotto di me è sempre
più lontana, talmente scura da non poter nemmeno mostrare la
mia terrorizzata immagine riflessa che va rimpicciolendosi verso le
nubi.
Le luci offuscate dalla nebbia di gocce d’acqua si fa sempre
più importante, avvolgendo prima il quadrato cinto da bassi
muri di sicurezza del balcone e mostrando vagamente dove
c’è civiltà e dove questa finisce, in
lontananza.
Salgo quasi in linea retta verso il cielo, la maglia che mi copre il
petto si gonfia ritmicamente, risalendo fin quasi ad arricciarsi
all’altezza del mento, ogni volta che una folata trova uno
spiraglio attraverso il quale entrare per frapporsi tra il tessuto e la
mia pelle.
Le mie gambe penzolano sul vuoto reso indistinto dal grigiume che
ammanta tutto, oscillando appena nel vortice che mi ha abbracciato.
Le raffiche si fanno più intense, strisciandomi addosso
sempre più sovente.
I miei arti non riescono più a stare fermi nella posizione
in cui li avevo lasciati. Le mani, per quanto provi a tenerle accanto
al mio torso, continuano a impattare ed allontanarsi dalla maglia
zuppa. Le ginocchia che mi paiono così lontane scalciano in
ogni direzione, trascinandosi dietro tutto ciò che le sta
sotto.
Sono in balia di quel temporale che mi ha rapito.
I capelli si sono liberati delle gocce che li tenevano fermi sulla mia
fronte, unendosi al turbine che li circonda, scontrandosi e
allontanandosi in una continua danza.
Il balcone dal quale mi sono levato non è più
distinguibile nella bruma illuminata da centinaia di lampioni
invisibili ai miei occhi.
Non saprei dire quanto sono arrivato in alto, ma, forse, è
meglio non conoscere questa informazione.
Un lampo illumina il cielo davanti a me, in lontananza.
Pochi secondi e un tuono mi scuote le viscere, facendomi torcere lo
stomaco con il suo rimbombo.
Una folata più forte delle precedenti mi risale le gambe e
il torace, fino a toccarmi il limite della fronte.
Posso avvertire chiaramente il mio sangue venir risucchiato verso il
basso dall’improvvisa spinta che ho ricevuto, per poi
fermarsi non appena questa si spegne.
Mi pare eterno il tempo in cui non sento nulla attorno o su di me.
Sono sospeso nella nebbia, senza nulla sotto i piedi e senza punti di
riferimento se non il baluginio giallastro che mi promette qualcosa di
molto lontano sotto le mie suole.
Il sangue mi invade quindi la testa, non appena il mio corpo, privato
del sostegno del vento che fino ad allora mi aveva cullato, comincia a
precipitare.
Le mie membra volteggiano incontrollate, il sotto e il sopra perdono
ben presto un senso, mentre la maglia e i pantaloni continuano ad
accartocciarsi e distendersi.
La pioggia mi cade appena addosso, quasi come se, seguendo
l’esempio della brezza, avesse deciso di ignorarmi.
La coltre grigia ancora mi cela ciò che le sta sotto,
impedendomi di capire, anche in quegli ultimi momenti, quanto tempo
ancora sentirò l’aria che impatta sul mio corpo in
caduta libera.
Provo ad inspirare profondamente con il naso l’aria gelida
che mi circonda, cercando di calmare il mio cuore impazzito.
È già successo.
Non so cosa stia accadendo ora, ma ho già visto tutto.
Andiamo al prossimo, non posso far altro che rassegnarmi
all’impotenza a cui il mondo mi sta mettendo di fronte.
Allargo le braccia e le gambe, cercando disperatamente di stabilizzare
quelli che dovrebbero essere gli ultimi metri della mia caduta
vertiginosa.
L’aria mi impatta sul ventre e sul viso, non abbastanza
solida per rallentarmi o fermarmi.
Finalmente tra il bagliore soffuso si ricomincia a riconoscere la forma
del balcone da cui sono partito, sempre più definito, sempre
più vicino.
Chiudo le palpebre, aspettando che l’universo si muovesse per
me.
Non sento nulla.
Non sento il mio corpo impattare sul cemento bagnato.
Non sento le mie ossa spezzarsi.
Non sento il mio sangue mescolarsi all’acqua delle
pozzanghere.
Non sento nulla.
Sento freddo, però.
Apro lentamente le palpebre, intimorito.
Un materasso morbido mi supporta la schiena madida di sudore, cinta da
un pigiama che appena ricorda cosa volesse dire essere asciutto.
Mi metto a sedere nella quasi completa oscurità della mia
camera.
Il cuore ancora mi batte forsennatamente nel petto.
Lascio che il palmo della mia mano mi percorra i lineamenti del volto,
liberandolo dalle gocce di sudore che ancora lo imperlano.
Provo a respirare profondamente, ma ancora i miei polmoni si rifiutano
di riempirsi interamente.
Rimango per un po’ seduto immobile, rigido, con il sedere ben
premuto sul materasso impregnato.
I miei occhi si perdono nell’oscurità davanti a me.
Insicuri su cosa andare a cercare.
Il mio cuore comincia a rallentare.
Il mio respiro torna a regolarizzarsi.
Il braccio su cui mi sto puntellando smette di tremare.
Gli ultimi postumi del sonno evaporano dal mio cervello, facendolo
tornare al suo stato normale.
Ho bisogno di una doccia, ora.
Angolo dell'autore:
Sarò breve, lo giuro.
Spero di avervi intrattenuto, almeno un po'.
So che non è un capolavoro, ma per averlo partorito in mesi concitati in cui non ero al meglio della mia forma fisica e mentale sono abbastanza soddisfatto del risultato.
In ogni caso, grazie per essere passati, grazie per avermi letto, grazie di tutto.
Ora vi lascio, sperando di potervi rivedere, da qualche parte.
Vago |