Se ne stava con lo sguardo perso a fissare la punta della freccia
finita in fondo al lago, chiedendosi quale fosse il problema della sua
scarsa mira, mentre studiava l’arco di frassino al suo
fianco, forse ancora troppo grande per poterlo manovrare a suo
piacimento.
Cercò di recuperare il dardo, sporgendosi dalla sponda per
poterlo afferrare, ma l’acqua in quel punto era troppo
profonda perché potesse sperare di riuscirci; innervosito
dalla sua incapacità di nuotare, Non Teme smuoveva
l’acqua, nella vana aspettativa di poter sfiorare il fondo
melmoso che ormai ricopriva la punta di pietra.
Tanti sottili cerchi d’acqua si dissipavano dalle sue piccole
mani bagnate, ma la freccia non si mosse. Tutt’attorno era
ormai buio, e la luna calante sembrava indispettire le ombre intorno a
lui, che gli apparivano d’improvviso più
minacciose del solito. L’astro silenzioso sembrava
arrabbiato, perché era bizzarramente rosso. Si chiese se non
fossero gli spiriti adirati per il gesto avventato di allenarsi con
l’arco da solo, senza neanche la supervisione di uno dei suoi
genitori.
Desistette dall’ormai infausto intento di recuperare la
freccia, al suono del primo battito di tamburi che annunciava il
coprifuoco.
Calava la sera ,
portando con sé il silenzio ed il buio.
Scostò la pelle che ricopriva il telo del suo tepee¹,
entrandovi in silenzio. La dimora era piccola, per cui non
v’era dubbio che sua madre scoprisse presto il motivo che
l’aveva tenuto a lungo lontano da casa. Cercò di
nascondere l’arco come meglio poteva dietro la schiena, ma le
sue fattezze di giovane infante ancora sembravano volerlo sbeffeggiare
a causa della sua scarsa statura.
‒ Sei tornato tardi anche oggi, Non Teme. ‒ Il tono non gli appariva
neppure così irritato come al solito. ‒ Quando tuo padre non
c’è, sai che non voglio che vai in giro da solo.
Si sfilò l’arco dalle minute spalle che lo
sostenevano, poggiandolo distrattamente a terra. Capitava spesso che
suo padre non fosse presente durante quel periodo, il momento
dell’anno in cui i bisonti riapparivano sulle sponde del
fiume Sand Creek di ritorno dalla prima ghiacciata. Fuori faceva
freddo, e gli Cheyenne non erano stati ancora in grado di procurarsi le
nuove pelli per sopravvivere all’inverno che, a quanto
sembrava, appariva più frigido rispetto agli anni precedenti.
Per questo Non Teme si allenava con l’arco, per realizzare il
suo desiderio di poter incrociare un bisonte che sarebbe stato in grado
di centrare col primo scocco di freccia – se non
l’avesse pateticamente persa in mezzo al lago che richiamava
a sé la poca acqua del fiume, ormai compromessa dai primi
istanti di gelo.
Fabbricare una freccia non era semplice, non lo era affatto. Avrebbe
dovuto procurarsi un ramo che sembrasse abbastanza dritto, affilare una
pietra intonsa e legarla col fil di spago che avrebbe dovuto chiedere a
Grande Uomo, uno dei capi del villaggio, che di certo non era molto
avvezzo a concedere favori senza ricevere nulla in cambio.
‒ Vieni qui, ragazzo, ‒ gli aveva detto un giorno, ‒ tienimi
d’occhio il cavallo.
Fu una vera disdetta apprendere che Lampo nel Cielo, il pezzato di cui
il prode cheyenne andava tanto fiero, fosse uno scalmanato senza
precedenti: non aveva esitato neppure un istante, prima di mollare la
prima poderosa zoccolata contro il bel visino del giovane, che tornato
a casa si era ritrovato con due denti in meno ed un martellante dolore
alla tempia destra. Da quel giorno si era sempre guardato bene dal
concedere altri favori al suo capotribù, che ogni volta non
perdeva occasione per sbeffeggiarlo amorevolmente, come un mentore
ch’abbia visto il suo discepolo cadere distrattamente di
sella.
Non Teme non riuscì a dormire, quella notte. Ripensava alla
freccia, a quel bagliore che rifletteva i raggi ormai calanti del Sole
e al continuo tremolio dell’acqua increspata dalla sua mano,
speranzosa di poter anche solo sfiorare la punta stondata. Si
rigirò nelle pelli di daino consunte, chiedendosi se sarebbe
mai stato in grado di poterla conficcare nel tronco della quercia
ch’aveva preso come bersaglio quella mattina.
Quelli come lui non venivano mai scelti per andare a caccia, e ne
riusciva anche a comprendere il motivo: non esisteva una preda che, al
fruscio dell’arco teso, non fuggisse in trepida aspettativa
di una vita più duratura. Ma cos’avrebbe mai
potuto fare il cacciatore, se la sua mira non fosse stata al passo di
quella fuga?
Lui era avvezzo a starsene sdraiato sull’erbetta accanto al
lago, suonando con il flauto la dolce melodia che sua madre era solita
sussurrargli la sera, prima che giungesse il sonno, quand’era
ancora in fasce. Era bravo con la musica, o almeno era ciò
che gli aveva detto un giorno Pentola Nera, durante uno dei soliti
noiosi incontri tra tribù prima dell’incontro
ufficiale con l’esercito confederato.
Erano strani, gli archi dei coloni americani. Riuscivano a portarseli
comodamente alla cintola senza che quel peso gravasse loro sulle
spalle, ma non erano fatti di legno, com’era solito
figurarseli. Erano di ferro, e puzzavano tremendamente di uno strano
odore che si chiamava – ma questo gliel’avevano
detto dopo – polvere
da sparo. Non Teme non capì il significato del
termine, e non si sorprese del modo con cui gli cheyenne più
grandi di lui si limitavano a rispondergli: ‒ Quella è una pistola.
È un’arma ben peggiore di quel che credi. Stanne
alla larga.
Ciò che lo sorprendeva di più non erano certo gli
archi occidentali, ma le loro frecce: erano piccole, con una strana
forma a sfera – anch’essa di ferro – e
quando l’arco le scoccava facevano un sonoro “bam” che
squarciava l’aria come se tutti gli spiriti si fossero
destati al suono acuto di quell’arma e avessero iniziato a
disperdersi dallo spavento. La prima volta che aveva sentito uno sparo,
le orecchie gli erano fischiate per dei giorni, mentre ripensava alla
vibrazione dell’aria ch’aveva avvertito intorno a
sé al primo, secco colpo diretto alla fronte d’un
disertore.
A quei tempi nella riserva ne giravano parecchi, di confederati. Erano
stati incaricati di sparare a qualsiasi cane sciolto² che
si fosse intravisto all’orizzonte, uomo o donna che fosse. In
tempi di guerra non vi era alcuna differenza di sesso: un nemico
risultava tale persino se fosse stato avvolto nelle fasce prenatali.
Per questo Non Teme era stato chiamato a quel modo: fin da piccolo era
stato abituato a convivere con gente che non era la sua, che indossava
delle bizzarre casacche con sopra delle stravaganti targhette colorate
e dei piccoli pallini dorati che gli occidentali chiamavano bottoni.
S’era assuefatto all’ambiente squisitamente
americano, tanto da non provarne più timore: era
l’unico in grado di avvicinarsi all’accampamento
dei pallidi senza la paura d’essere arrestato, convincendosi
che i grandi non fossero poi così coraggiosi come credeva,
mentre li vedeva avvicinarglisi ogni volta che tornava dalla tenda
dell’ufficiale di servizio.
‒ Ti ha fatto del male? ‒ gli chiedevano terrorizzati, e allora lui
rispondeva con una scrollata di capo, prima di tornarsene nel tepee
dove la madre lo attendeva impensierita.
Non Teme non aveva mai capito cosa il suo popolo ci trovasse di
così terrificante, negli altri. Lui, da un
certo momento in poi, aveva iniziato perfino a trovarli affascinanti:
gli uomini con quel loro modo forbito di parlare, lo schioppo in
braccio e il capellino con la visiera, e le donne dal seducente
chiacchiericcio e le labbra tinteggiate dai colori dei fiori
primaverili che sbocciavano sulle sponde del Sand Creek. Si domandava
spesso dove trovassero tutte le piume che sbucavano dai loro adorabili
cappellini, ma si convinse che dovessero giungere da una remota terra
lontana, poiché quelle tonalità non le aveva mai
viste addosso al piumaggio dei volatili che – ormai
– aveva imparato a riconoscere durante le mille fallimentari
battute di caccia.
I suoi coetanei tendevano sempre a prenderlo troppo in giro sulla
faccenda, chiamandolo barbaramente lo “cheyenne
civilizzato”, per grazia e colpa di quella sua indole votata
alla conoscenza del mondo, che sovente esulava dal rimanere concentrata
sugli usi e costumi legati solo al suo popolo; tuttavia non si era mai
sentito oppresso dal chiacchiericcio dei giovani cheyenne,
convincendosi che l’appartata solitudine del lago e il suono
spumeggiante della piccola cascata ch’ivi moriva fossero
più che sufficienti per colmare il silenzio della sua mente,
un baratro dedito all’atarassia e dal quale gli risultava
sempre più difficile separarsi.
Anche quella notte Non Teme faticò nel concedersi al sonno.
Sua madre lo sgridava spesso, certa che le occhiaie del figlio, unite
al suo corpo gracilino e poco avvezzo all’attività
fisica, fossero dovute al suo atteggiamento indolente che non
s’armonizzava affatto col resto del gruppo dei giovani
cheyenne, i quali al contrario erano venuti su forti e aitanti, con la
pelle più rossa e il volto più fiero. A ben
guardarlo, Non Teme appariva davvero come un bambino dei visi pallidi³,
il che rendeva la madre offesa e il padre sempre più
incollerito.
Si consolava, lo cheyenne civilizzato, nel credere che –
forse – se fosse riuscito a scoccare una freccia e a centrare
un bersaglio, allora qualcuno sarebbe anche stato in grado di
accettarlo, riconoscendogli delle doti ch’esulavano dal
semplice ozio e dall’abilità nel suonare il flauto
– perizia della quale i suoi compagni più giovani
si facevano beffe, a suon di malizia e di denigranti schiaffi sulla
nuca del povero ragazzo.
Uscì fuori dal tepee, convinto che la sua mancanza di sonno
fosse colpa della luna rossa, portatrice di sventura. Non che credesse
davvero a quella stupida superstizione, la stessa a cui il suo popolo
si votava solo perché non era in grado di spiegarsela in
altro modo. Aveva seguito i passi di quella mattina, spingendosi lungo
le sponde del placido fiume Sand Creek e giungendo nell’ansa
più profonda, quella che si radicava a ferro di cavallo,
lì dove Pentola Nera aveva fatto accampare i suoi prima
dell’arrivo dei tenenti confederati, in attesa di stipulare
l’ennesimo trattato di pace, che qualche colono da quattro
soldi avrebbe stracciato non appena l’occasione fosse stata
propizia.
Non Teme immaginava che non fosse bello vivere così e
tuttavia non riusciva ad immaginare un'esistenza diversa da quella: chi
aveva vissuto per molti anni nel buio di una grotta, non poteva
abituarsi alla luce del sole; lui si sentiva esattamente a quel modo,
vittima di un futuro che avrebbe potuto essere migliore, ma che forse
avrebbe distrutto quel poco che rimaneva al suo popolo, per quanto
piccolo e insignificante potesse apparire agli occhi dei potenti uomini
d’affari, a cui non sarebbe dovuta importare la guerra, ma
che nonostante tutto ancora la finanziavano, pretendendo sempre
l’ultima parola.
Il giovane cheyenne si era chiesto spesso il perché di tutto
quel bizzarro teatrino: lui non era bravo con l’arco e
perciò non poteva andare a caccia, dunque gli appariva un
mistero il perché quegli uomini così bravi coi
numeri s’interessassero alla guerra, che certo non era loro
appannaggio. L’aveva chiesto tante volte persino a Pentola
Nera, ma il capovillaggio non aveva mai risposto, intimandogli che le
questioni degli adulti l’avrebbero distolto dal suo obiettivo
d’imparare a scoccar frecce.
Fu così che, dopo quella domanda irrisolta, Non Teme aveva
deciso di non interrogarsi più sulle vicende del mondo degli
adulti, sia che esse appartenessero al suo popolo o ai coloni.
‒ Sono troppo complicati, gli uomini, ‒ aveva detto un giorno alla
madre, ‒ quelli che decidono le guerre se ne stanno seduti, e quelli
che non vorrebbero farle le fanno perché sono costretti da
quelli seduti.
Certo, il suo punto di vista era più basso poiché
portava gli occhi di un bambino. Eppure sua madre pensava davvero che
avesse ragione, durante quel suo sermone improvvisato e che celava in
sé la nefasta verità della guerra: suo figlio non
sarebbe mai stato un feroce combattente, ma la sua vispa intelligenza
coglieva gli aspetti più dettagliati d’ogni
singola cosa che lo circondava; a modo suo, anche quella era una dote
concessa a pochi.
Se ne rimase in silenzio a contemplare la luna rossa, stendendosi sul
tappeto verde inumidito dalla prima rugiada e gustandosi la delicata
brezza che gli scompigliava i capelli scuri e smuoveva i fili
d’erba a contatto con le sue dita intirizzite. Si
tranquillizzò al pensiero che fosse una notte come tutte le
altre che aveva vissuto nella sua vita. Sul punto di chiudere gli occhi
ed essere accolto nel mondo dei sogni, lì dove avrebbe
potuto avvicinarsi di un passo agli spiriti, Non Teme sbarrò
lo sguardo al secco “bam”
che sentì in lontananza.
***
Il “bam”
non era più uno, ma molti, troppi
perché Non Teme potesse credere che si fosse trattato di un
caso, quando col respiro trafelato s’accinse ad incrociare il
primo tepee insanguinato. L’apnea dei polmoni, dapprima
dovuta semplicemente alla folle corsa per tornare alla riserva, era
divenuta un grido che gli toglieva il fiato, obbligandolo ad
appoggiarsi al primo tronco capitato a tiro, nella vana speranza di
recuperare, insieme al respiro, anche un po’ di
lucidità, la stessa che scivolava via ad ogni corpo che
vedeva giacere a terra, ormai privato del soffio vitale.
Tremò al pensiero di sua madre, mentre si lanciava nel
tumulto di quella battaglia a senso unico: riusciva a scorgere di
sfuggita le divise dei commilitoni americani sui cavalli nevrili, la
polvere gettata alla rinfusa dagli zoccoli scalpitanti e il clamore
delle pistole che fendevano l’aria coi pallettoni, diretti
verso il torace della sua gente vestita di bianco, macchiata di rosso.
S’accorse del suo tepee ormai in fiamme e del corpo quasi
senza vita che vi risiedeva dentro: vide sua madre boccheggiare
nell’ultimo respiro, in cerca del figlio che non avrebbe
più rivisto, mentre gli spiriti s’appropriavano
della sua anima, speranzosi di riuscire a salvare almeno quella.
Non pianse, Non Teme. Non ne ebbe il tempo, perché
s’era già affrettato a cercare Grande Uomo per
avvertirlo dell’imboscata, convinto che almeno lui potesse
fare qualcosa. Sentì il “bam”
dietro alle sue spalle, la sua gamba arrestò la corsa e
obbligò l’intero corpo a fare altrettanto; era
consapevole d’essere spaventato e tuttavia riprese a
camminare, consapevole che il coraggio gli stesse dicendo cosa fare
nell’attimo di smarrimento, lì dove il panico
aveva preso il sopravvento intimandogli di rimanere fermo.
Grande Uomo non era nella sua tenda. Tutt’attorno le urla
disperate del suo popolo sembravano consigliargli di scappare lontano
dal massacro: il fumo divorava la tela dei tepee come un mostro lesto a
spalancare le proprie fauci in vista del pasto più
succulento, i soldati facevano razzie dei pochi beni che appartenevano
ancora alla sua gente, alcuni un po’ ubriachi si dilettavano
ad inveire contro i suoi amici, ormai cadaveri che se ne stavano
lì, con gli occhi aperti e l’ultimo urlo di dolore
volto al cielo, laddove anche la luna aveva preso a sanguinare ormai
dal pomeriggio precedente.
Assistette alla spietata razzia di una giovane ragazzina della sua
età, Passero della Neve, che veniva portata via da due
uomini con gli occhi lucidi e le mani sudate, mentre
nell’unico tepee rimasto ancora illeso una madre scongiurava
i soldati di non portare via il bambino che stringeva tra le braccia;
non venne affatto ascoltata, poiché il più
nerboruto tra i presenti l’aveva afferrata per i capelli e
trapassato il collo da parte a parte con un coltello sottile. Non Teme
rimase zitto, voltandosi nella direzione dov’era convinto che
sarebbero andati i coloni non appena avessero adempiuto a quella
carneficina immotivata: era certo che se fosse riuscito ad avvisare
Pentola Nera, forse qualcuno avrebbe potuto ancora salvarsi.
Si lanciò nella corsa, ma non fu abbastanza svelto da poter
evitare la raccapricciante scena dei corpi orrendamente mutilati, le
urla dimezzate dai pochi rimasti ancora in vita, mentre i morti
innaffiavano la terra di sangue e saliva che usciva dalle bocche
rimaste aperte prima dell’ultimo fiato. Non Teme si
bloccò, nello sguardo le prime lacrime si addensavano e gli
rendevano la vista meno efficiente, ma non a sufficienza
perché potesse evitare di assistere al resto: gli archi di
ferro dei soldati sparavano senza sosta verso gli uomini tornati dalla
caccia, sul cui volto – oltre ai colori con cui erano soliti
decorarsi – recavano tracce di rabbia, smarrimento, paura.
Intravide suo padre nell’atto di disarmare un milite, mentre
quello premeva ripetutamente il grilletto contro la sagoma scolpita
dell’indiano, che al primo scocco della piccola pallottola
cadde a terra con un unico tonfo sordo. Non gridò, non si
contorse. Attorno a lui una macchia rossa iniziò a
dissiparsi, inghiottendo il verde del praticello.
Non ci aveva mai pensato alla morte, Non Teme. Forse perché
gli era stato insegnato che quando l’anima si allontanava dal
corpo significava che aveva compiuto tutto ciò che si era
professata di fare prima di nascere. Eppure non era convinto che fosse
decoroso morire a quel modo, con lo sguardo assente ed il sangue che
colava via da una ferita lasciata aperta da qualcun altro. Gli spiriti chiamano a loro
solamente chi è pronto, gli avevano detto. Ma
come poteva essere davvero così, quando il bebè
che la donna stringeva tra le braccia qualche istante prima giaceva a
terra con il pianto smorzato e il corpo ridotto a brandelli?
Si volse indietro solamente per un istante, ad osservare
l’ombra del suo popolo svanire via in quella notte di guerra,
con la luna che ancora sanguinava ed il cuore in subbuglio, vittima
dell’orrore, della paura. Si portò fino alla
sponda del lago, nella mente le immagini appena vissute
schiaffeggiavano il suo amor proprio: lui, che aveva
creduto che quella gente non fosse così male; lui, che aveva
perso del tempo prezioso solamente per cercare di capirla; lui, che era
rimasto solo, immerso in quel silenzio che d’improvviso gli
appariva insostenibile, come monito a quella sua indole controcorrente
che aveva cercato di farsi piacere il loro status di pellerossa con il
solo scopo di poter vivere un’esistenza pacifica.
Tutto questo non c’era più, mentre il Sand Creek
trascinava con sé l’acqua rossa e il sudiciume
delle carni sporche di sangue. E portava via gli urli di battaglia, le
grida di paura, i soprusi, l’orrore dipinto negli occhi di
chi non aveva avuto neppure la grazia di serrar le palpebre al suon dei
fatali spari. Non Teme capì che non sarebbe più
valso a niente cercare d’imparare a tirare con
l’arco, perché non avrebbe mai potuto contrastare
quell’ondata di odio che si era manifestata sottoforma di
polvere nera e rabbia. Ancora s’interrogava sul
perché fosse accaduto tutto ciò, ma
più tentava di raggiungere le risposte, più esse
venivano dilavate via insieme ai corpi dei defunti compagni.
Non si sentiva smarrito, non tremava. Tutto intorno a lui sembrava
opacizzarsi e perdere consistenza, quando ormai l’unico
colore che riusciva a distinguere era il rosso. Volse lo sguardo alla
luna, chiedendosi come avesse fatto la piccola e ferruginosa freccia
dei visi pallidi a colpirla da così lontano –
certo il tiratore doveva esser dotato d’una mira eccezionale.
Non poteva dire che non gli fosse parso strano sin dal primo
pomeriggio, che il silente astro notturno fosse così
rubicondo da far impallidire le distese dei papaveri
sull’orlo dell’appassitura. In quel momento
riusciva a spiegarsi molte cose, e non certo le attribuiva agli spiriti
inquieti: la luna era stata ferita a morte, placida compare del
massacro a cui aveva dovuto assistere nonostante fosse assai distante.
Chissà cos’avevano contro la luna –
chissà cos’avevano contro loro.
Pentola Nera un giorno gli aveva detto che bastava molto meno di
ciò che possedevano, per essere felici. Lì per
lì non si scompose, cercando di prestare attenzione
all’accento stretto della parlata del capotribù.
Ebbe modo di pensarci solamente tornato a casa, quando sua madre stava
ancora attendendo il suo rientro, sgridandolo per l’ennesimo
ritardo.
Non Teme non aveva vissuto una vita che si potesse definire lunga,
questo lo ammetteva. Eppure, per qualche motivo, sentiva
ch’era stata abbastanza. Piccola, insignificante, ma serena,
placida come le carezze di sua madre e le pacche troppo nerborute di
suo padre. Difficile per certi aspetti, lì dove aveva
cercato di colmare le sue lacune fisiche e caratteriali con la costanza
nel tirar con l’arco. Facile, come le note che uscivano
volentieri dal suo flauto di legno. Eternamente in combutta con gli
opposti, fatta di alti e bassi come gli inverni e le estati che non
avrebbe più vissuto, da quell’istante in poi.
Non s’interrogò più e
s’arrese allo scalpiccio dei passi dietro di lui, mentre
voltandosi osservava l’espressione cupa e ansiosa del colone.
Non Teme non aveva paura di morire, persino in quel momento il suo
sguardo non tremava. Ciò che gli si parava dinnanzi era un
uomo come molti altri che aveva visto nella sua vita: aveva due occhi
scuri, due orecchie, un naso, una bocca, due mani strette attorno alla
pistola. Aveva il fiato corto e il sudore sulla fronte, forse non aveva
neanche voglia di ucciderlo. Eppure, l’avrebbe fatto comunque.
Lo sguardo del giovane cheyenne si posò sulla delicata
smorfia di disappunto dipinta sul volto emaciato del suo carnefice. Non
avrebbe saputo dire se fosse deciso all’ultimo fatale gesto o
se i ripensamenti fossero giunti troppo presto a fargli abbassare
l’arma. Non Teme non aveva poi tutta questa fretta di
trapassare.
È sufficiente,
continuava a ripetersi. Ciò
che ho vissuto fino ad ora è sufficiente.
Non era mai stato molto bravo con le bugie, per questo sua madre sapeva
sempre quando mentiva e quando no. Per certi versi, era davvero
frustrante essere un pessimo menzognero. Persino in
quell’istante, mentre l’uomo che non sarebbe mai
stato s’imponeva di mantener contegno, il bambino che era
tremava e implorava tacitamente il suo aguzzino di risparmiarlo. E
chissà, forse Non Teme avrebbe anche pianto, se non fosse
stato così orgoglioso da rigettare ogni vile atto di
codardia: in quel decoroso atteggiamento portava con sé le
anime morte durante quella notte d’eccidio, convincendosi che
fosse l’ultimo atto d’amore che potesse mostrar
loro, prima del suo congedo dalla terra dei vivi.
Sentì lo sparo, ma non provò dolore. Il soldato,
affogato nel dispiacere per l’irremovibile ordine, lo aveva
colpito dritto nel petto, laddove il cuore aveva cessato di battere
nell’istante in cui la freccia di ferro l’aveva
carezzato. Il giovane cheyenne chiuse lentamente le palpebre, cadendo
nel punto in cui nessuno avrebbe mai potuto continuare ad abusare del
suo corpo senza vita: venne inghiottito dalla dolcezza delle
increspature, avvolto nell’acqua che tanto gli avrebbe
ricordato la sua nascita, se solo quella non fosse stata la sua morte.
S’assopì, una volta che il suo corpo ebbe toccato
il fondo.
L’uomo, che ancora stringeva la pistola tra le mani,
s’avvicinò alla sponda del lago, scosso dai
tremori. S’affacciò a vedere il corpo
dell’innocente a cui aveva strappato la vita, consumandosi
nel rimorso e nel tormento d’aver preso troppe anime, per
quella notte. Lì, tra le dita rigide del piccolo cheyenne,
v’era qualcosa che luccicava sul fondo: non riusciva bene a
distinguerla, ma avrebbe giurato che si trattasse di una freccia dalla
punta leggermente stondata.
Lui non l’avrebbe mai saputo, ma Non Teme gli sarebbe stato
eternamente grato per averlo aiutato a raggiungerla.
Fine
¹:
Una tenda conica originariamente fatta di pelli, corteccia di betulla o
teli, resa famosa dai nativi americani.
²: I Cani
sciolti erano degli indiani ribelli che si opponevano con
fermezza ai trattati di pace coi coloni, sostenendo che la loro etnia,
essendo precedente all'insediamento dei coloni, non avrebbe dovuto
essere vincolata nelle riserve.
³: Dispregiativo per indicare i coloni americani.
Angolo
dell'autrice:
Non
sarò mai troppo grata a
mystery_koopa per aver indetto questo contest, ti
ringrazio davvero.
Non so dirvi esattamente che cosa mi abbia spinta a parlare di questo
popolo, mi rendo conto a volte che scrivere è davvero una
questione di attimi: giunge l'idea e ti lasci condurre da essa.
Fin da piccola ho sempre avuto un piccolo amore per le tribù
indiane, sviluppando anche una sorta d'"invidia" nel loro modo pacifico
di condurre la vita. Nessuno parla mai di loro, forse perché
in effetti durante questo periodo l'America davvero ne ha passate di
cotte e di crude. Eppure, loro c'erano,
anzi. Ci sono sempre stati, se vogliamo.
Per cui niente, spero di esservi riuscita a trasmettere un po' di
quell'amore che nutro nei confronti di questa storia.
A presto,
_EverAfter_
|