#8: "Pensiero"
- Pooh, Opera Prima (1971)
La forte spinta della guardia che mi lanciava quasi di peso
nella cella mi fece perdere l'equilibrio e caddi a terra, con la faccia
sul sudicio pavimento della più sudicia prigione della
città. Il rumore metallico delle sbarre che si chiudevano
dietro di me mi fece tremare di paura. Non valse a nulla scattare in
piedi e aggrapparsi al freddo metallo per chiamare l'agente di turno,
non valse a nulla gridare di essere innocente o implorare se non un
avvocato almeno un po' di pietà. Il corridoio buio era
già vuoto. Nessuno era lì ad ascoltare le mie
urla di dolore, e qualcosa mi diceva che anche se qualcuno ci fosse
stato, non avrebbe di certo mosso un dito per aiutarmi.
Com'ero finito lì? Ricordo solo che quella notte
ero tornato a casa, avevo cenato presto ed ero andato a dormire, come
al solito. Il mio lavoro non mi permetteva di godermi le ore serali
come avrei voluto. Erano anni ormai che non mi sedevo su quella
poltrona polverosa nel mio salotto con un buon libro in mano. E dire
che da ragazzo ne avevo divorati a decine di libri.
Durante la notte, però, fui svegliato di soprassalto da un
boato mai sentito prima, quasi un'esplosione, vicinissima. Avevo
cominciato a temere per la mia vita, la mia immaginazione aveva subito
dipinto la scena di un'intrusione di qualche ladro o criminale venuto
ad uccidermi. E adesso, col senno di poi, l'avrei quasi preferito. No,
era qualcosa di molto peggio di questo. Effettivamente qualcuno aveva
fatto irruzione nella mia casa, sfondando la porta, ma non si trattava
di ladri, non si trattava di assassini. Gli intrusi non indossavano un
passamontagna o un casco per nascondersi dalle telecamere di
videosorveglianza, ma piuttosto una divisa. Erano agenti venuti ad
arrestarmi.
A nulla erano servite le mie proteste, le mie richieste di
spiegazioni. Gli agenti continuavano a parlare di una certa ragazza e
di un certo stupro. Mi definivano un mostro, minacciavano di farmi
marcire in galera. Io li ascoltavo imbambolato, non avendo ancora
realizzato quello che stava accadendo. L'unica cosa che ricordo
distintamente di quegli attimi concitati è il freddo delle
manette attorno ai miei polsi.
Erano passati diversi giorni da quella notte. Non saprei dire
con esattezza quanti: non ti concedono il lusso di un calendario qui
dentro. So soltanto che il freddo della cella stava cominciando
già a penetrarmi nelle ossa. Non avevo avuto il tempo di
rivestirmi quando sono stato arrestato, mi avevano portato qui
direttamente in pigiama e mi avevano fornito una sporca divisa che
tutto faceva tranne che tenermi al caldo.
Le guardie mi avevano spiegato, con un po' di infastidita
riluttanza e soltanto dopo le mie insistenze, che due notti prima del
mio arresto una ragazza era stata violentata giù in
città, nei pressi del porto. E a quanto pare la vittima
aveva fatto il mio nome. Non avevo idea di chi fosse quella ragazza, di
come facesse a conoscere il mio nome e del motivo per cui avesse deciso
di incastrarmi. Possibile che basti solo un nome per incolpare una
persona senza uno straccio di verifica? Possibile che basti solo la
testimonianza di una ragazza evidentemente in stato di shock a rovinare
per sempre la vita di un innocente? Possibile che la società
sia tanto inorridita da questo barbaro crimine da non voler neanche
pensare di ascoltare l'altra parte prima di condannarla ad una vita di
reclusione, ingiurie ed esclusione?
Ma da quei momenti era passato tanto tempo. Avevo ormai smesso
anche di chiedermi cosa ne sarebbe stato di me. Avevo perso l'appetito,
bevevo appena un sorso d'acqua al giorno, per tenermi in vita, anche se
la tentazione di lasciarmi morire era stata forte, in più di
un'occasione. Ma non potevo farlo, non prima di averle fatto sapere che
non c'entravo nulla. Lei ormai era il centro dei miei pensieri, la
speranza che lei non avesse perso la fiducia in me era il motivo per
cui continuavo a tenermi in vita.
Quel giorno chiesi alla guardia un pezzo di carta e una penna.
Non avevo neanche io idea di cosa ne avrei fatto, ma sentivo il bisogno
di sfogarmi, di gettare su di un foglio tutto ciò che avevo
dentro, nella speranza di trovare un po' di pace. La guardia mi
guardò con sospetto e quasi indignazione. Il suo pensiero
gli si leggeva negli occhi, ma la sua voce dura mi confermò
che avevo interpretato bene il suo sguardo:
- Come può un essere tanto spregevole da violentare
una ragazzina avanzare una qualunque richiesta? Non sono neanche tanto
sicuro che per te valgano le norme sul rispetto dei diritti umani:
gente come te è al di sotto della decenza umana.
- La prego, sto impazzendo qui dentro. Non c'entro nulla! Non
so neanche chi sia quella ragazza! Non vi chiederò
più nulla!
Non so come accadde, ma con un po' di insistenza alla fine la
guardia cedette e mi portò quello che le avevo chiesto.
Probabilmente aveva solo voglia di farmi star zitto e di tornare al suo
giro di ronda, ma per me questo bastava e avanzava.
Mi accucciai sul pavimento e cominciai a scrivere,
febbrilmente. La mia mano correva da sola sul foglio, quasi come se
avesse coscienza propria e fosse stata impaziente di scrivere quelle
parole da giorni. O forse era soltanto la follia che stava cominciando
a prendere il sopravvento sulla mia mente. Queste furono le parole:
"Non
restare chiuso qui, pensiero, tra le mura
di questa cella. Purificati dal sudiciume che mi circonda, riempiti di sole e va' nel cielo,
accogli il mio messaggio per lei, l'unica donna della mia vita. Cerca la sua casa e poi, sul muro,
scrivi tutto ciò che sai, che è vero.
Non posso sapere cosa tu pensi di me, cosa ti avranno
detto di me, quante lacrime tu abbia versato credendomi capace di
commettere un crimine così disgustoso, ma credimi, amore
mio. Non c'entro nulla. Sono un uomo strano ma sincero. Questo
è il messaggio che affido a questa carta, cerca di spiegarlo a lei,
pensiero. Quella notte giù in città non c'ero.
Non ho idea di chi fosse quella povera ragazza, male non le ho fatto mai, davvero.
Davvero.
Quasi ti sento, pensiero mio. Mi rimbombi in testa da
quando mi hanno rinchiuso qui. Sono giorni che non mangio, che non
dormo. Solo lei nell'anima è
rimasta, lo sai. Il suo volto, il suo
profumo, i suoi occhi innamorati. Innamorati di me. Non posso pensare
che in questo momento quegli stessi occhi stiano piangendo per me. O
peggio, di me.
Questo uomo
inutile troppo stanco è ormai.
Stanco di lottare, stanco di piangere, stanco di vivere, se non fosse
per il ricordo di lei, l'unica persona al mondo di cui gli interessa
l'opinione. Solo tu, pensiero, puoi fuggire se
vuoi. Vola, va' da lei, la sua pelle morbida accarezzerai e
le farai sentire il mio calore, il mio conforto per le sue lacrime
ingiustificate. Ormai non ha più senso preoccuparmi per me,
ho già patito tutto il dolore che avevo in corpo. Ora mi
interessi solo tu.
Vola, pensiero mio, trovala e portale il mio
messaggio. C'è sulla montagna il
suo sentiero, vola fin lassù da lei, pensiero.
Spiala dalla finestra, guardala distesa sulle lenzuola, dal cuscino ascolta il suo
respiro, porta il suo sorriso qui vicino, vicino. Convincila
della mia innocenza, non farla soffrire."
Terminata quella lettera sconnessa, ripiegai con cura il
foglio, come facevo da bambino. Un paio di pieghe sarebbero bastate e
ne sarebbe venuto fuori un piccolo aeroplano, l'unica forma che la mia
mente provata riuscì a concepire che fosse capace di uscire
da quella cella. Quando lo ebbi terminato, mi avvicinai alla finestra
e, colto un soffio di vento, lo lasciai andare.
Lo guardai volteggiare in aria e fui assalito dal dubbio che
non sarebbe mai arrivato a destinazione. E infatti, dopo un po' l'aereo
cominciò a perdere quota, a planare lentamente verso il
terreno, prima ancora di superare le mura di cinta di questa nera
prigione.
Non volli guardare. Me ne tornai sulla mia branda. Volevo
continuare a sperare. Sperare che il messaggio, quasi per miracolo,
riuscisse ad arrivare a destinazione, che non si fermasse nel cortile
del carcere. Non seppi mai il suo destino.
E per quanto riguarda me, non c'è molto altro da
raccontare. La mia vita è terminata nel momento in cui
quelle fredde manette si sono posate sui miei polsi. Non
scorderò mai quella sensazione.
Come vorrei avere uno dei miei libri qui, a tenermi compagnia.
Magari quello che mi avevi regalato tu, amore mio, quello con la tua
dedica sul frontespizio e con le pagine intrise del tuo profumo.
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