14 inevitabile follia
14
inevitabile follia
Palazzo Jarjayes, 17 Luglio 1789
Oscar e André sono morti, ma sono ben altri i fantasmi che
si aggirano in questa notte di veglia per Palazzo Jarjayes.
Sono i fantasmi delle colpe, dei rimorsi, degli sbagli.
Sono spettri di giorni passati, spesso troppo uguali, con silenzi
egoisti, bugiardi, vigliacchi.
Sono i sentimenti troppo taciuti o malamente espressi e le presenze
date per scontate, ignorando la parca pronta a tagliare il filo.
Sono tutti quei giorni trascorsi ad autoingannarsi in attesa di un
domani ugualmente freddo e senza coraggio.
Giorni come celle con pietre di gelide bugie ed alla sera restavano
solo i rimpianti.
Non c'erano veri motivi di malessere tra queste mura sontuose ed
eleganti: una buona salute, le tavole imbandite, un futuro
potenzialmente roseo.
Ma… Se solo… Questo mancava: se solo... Se solo
avessi agito, parlato, osato.
Se solo…
Perché apriamo gli occhi sul mondo quando già li
stiamo chiudendo?
Vago al buio per questi corridoi e d'un tratto mi par di sentirlo:
l'inconfondibile aroma del suo tabacco da pipa, pizzicare le narici,
obnubilare la mente, trasportare i pensieri altrove, in paesi lontani,
in luoghi piacevoli. Semplicemente altrove, perché qualunque
luogo sarebbe meglio di qui ed ora per lui.
Seguo le tracce del fumo, dapprima solo per mezzo dell'olfatto, poi
scorgo anche una piccola nube vagare per il corridoio, come una
nebbiolina di fine estate, che mi guida a ritroso alla sorgente, fino
al grande salone dove egli si è ritirato allontanandosi da
tutti, deluso dalla progenie superstite, dal mero accapigliarsi dei
generi per vili questioni economiche, da uomini quest'ultimi che di
uomo hanno solo la parvenza, non certo la statura da lui pretesa. Per
lui, per il generale, “l'uomo”, inteso nelle
virtù
di coraggio, determinazione, valore, si fa, non si genera. Ormai lo ha
capito, sua figlia glielo ha dimostrato. Triste che se ne renda conto
troppo tardi.
E capisco perché proprio lì sia andato.
Eccola: mi accoglie appena entro, illuminata dalla luna e dalla mia
candela; superba ed angelica al contempo e resto tanto incantato e
sorpreso e ammirato che allungo una mano perché
d’istinto
vorrei toccare, sapere se è reale o solo un altro fantasma
della
mia mente.
- No! ... È ancora fresco… - esclama una voce
autoritaria alle mie spalle, dal buio.
Immaginavo fosse lì. Un ombra nell'ombra, invisibile.
- Sembra così … viva. - mormoro senza riuscire a
distogliere lo sguardo dalla tela.
- Già, il pittore è stato bravo, dannatamente
bravo.
Odo tintinnare cristallo con cristallo; si riempie il bicchiere di
cognac, il generale, per l'ennesima volta credo a giudicare dai
movimenti scoordinati. La voce strascicata mi fa capire che
si
è abbonamente rifugiato un qualcosa di consolatorio, sebbene
dannoso e temporaneo. Male consolatorio abbastanza comune in questa
casa; male che ho affrontato anch'io e, lo ammetto, mai realmente
sconfitto.
Scomposto, disordinato nell'aspetto, egli siede sulla
poltrona
che so di un vivace, sanguigno, color porpora, ma che nelle tenebre
pare nient'altro che nera; porta il bicchiere alle labbra, ma non beve.
- Non sono riuscito a dirle addio, - mormora - ero convinto che sarebbe
tornata.
Stringe un pugno lo porta alla fronte, picchiettandosela nervosamente,
incapace di capire, di credere, di accettare ciò che non
può più essere rimediato.
- Non doveva andare così…- sibila, malcelando un
dolore
rabbioso - Le cose potevano cambiare, io potevo cambiare… Si
parla, si ragiona, le cose si aggiustano… Il
tempo…
Lo ascolto seguitando a contemplare i tratti perfetti di quel volto che
fu altrettanto perfetto; scuoto appena il capo perché so che
il
generale non parla, ordina; egli non ne discute, esige; e soprattutto,
non cambia; non su valori per lui intoccabili quali la
lealtà
alla Corona. E so che è quello il peccato mortale che non le
avrebbe mai perdonato.
- Aveva la tisi …- lo interrompo.
Ormai non c'è motivo di tacere, non c'è ragione
perché egli non debba stare peggio di come sta. Ed il colpo
è grave.
- Terminale. Al meglio, solo pochi mesi di vita. - aggiungo mestamente.
Restiamo in silenzio per attimi senza tempo, ciascuno immaginando a
modo suo, un futuro che mai arriverà.
- Volete farmi compagnia, Lassonne? Le va di bere qualcosa con me,
dottore? Per scaldare lo spirito e confondere la mente.
Annuisco ancora rivolto al ritratto e poi capisco che non
può vedermi mentre lo faccio.
Jarjayes mi allunga un bicchiere nella penombra, senza alzarsi dalla
poltrona e, quando giungo a stringerlo, me lo riempie.
- Beva, mio caro Lassonne, abbiamo dei buoni motivi per festeggiare, in
fondo.
Resto basito ed un poco inorridito.
- Sì, dottore, piangiamo la morte di mia figlia e del buon
André, ma al contempo festeggiamo la fine dei Jarjayes, una
fine
che ho tentato di ingannare con un imbroglio, tanti anni fa. I
Jarjayes: una nave che ho incautamente guidato per i mari della
carriera ed ho affondato con la follia. Mi pensate un ipocrita vero? -
chiede guardandomi sbieco. - Mia figlia imputridisce in una bara ed io
mi preoccupo del futuro.
- Penso solamente che abbiate bevuto troppo questa sera, generale -
rispondo diplomaticamente.
Sorride, amaro. Si sporge in avanti di scatto, inclinando
paurosamente il bicchiere.
- Male! Male, caro Lassonne, perché avreste ragione: sono un
ipocrita! Sono un egoista! Sono un essere che ha giocato col destino
della sua stessa figlia solo per orgoglio personale! - poggia
rumorosamente il bicchiere sul tavolinetto ed affonda nello schienale.
- Come vorrei essermi fermato prima.. Come vorrei averle detto che
… - sospira - Non avrei potuto avere figli migliori. Mi
riferisco ad Oscar, ma anche ad André. Egli era nato servo,
ma
il suo cuore mi rispettava come un figlio rispetta e forse ama il
padre. Se solo fosse stato nobile…se solo… Come
sarebbe
stato tutto diverso... Ma fatemi compagnia, dottore. Solo un
po’... - mi tenta riprendendo il bicchiere, inalzandolo
appena in
segno di invito.
Se solo fosse stato nobile? Non lo avrebbe mai conosciuto, non allo
stesso modo. Erano due germogli cresciuti insieme, rinforzati dalle
medesime avversità, dalla medesima solitudine e solo alla
fine,
intrecciatisi l'uno all'altra.
Sollevo il bicchiere alle labbra ed assaggio il pregiato cognac dei
Jarjayes, caldo e avvolgente come un abbraccio. Un conforto che non
meritiamo.
- Perché lei? - domando all'improvviso.
- Come?
- Ricordo tanti anni fa, in questa stessa stanza: avevo una domanda da
porvi e temevo la vostra risposta. Un uomo dalle origini nobili, ma
fumose, che osava chiedere la mano di vostra cugina. Avrei dovuto
rivolgere quel quesito al fratello che ne gestiva le
proprietà e
non sarebbe stato felice di rinunciarvi. Così mi feci
coraggio e
vi pregai di trovare una transazione adeguata che non rovinasse
Alexandra di quanto le spettava, ma che nemmeno invelenisse suo
fratello nei miei confronti.
- Ricordo, dottore...
- Mi raccontaste, francamente, che vostro cugino nulla aveva fatto per
proteggere la sorella da quel mostro che l'aveva sposata e che avreste
sempre pensato voi a lei, che l'avreste protetta ed agito per il suo
bene...
- E vi diedi la mia benedizione, oltre al mio permesso, dottore.
- Voi avete salvato Alexandra da un marito violento e da un fratello
dispotico...
- E? …
- Voi non avete mai alzato le mani su una donna. Vi conosco bene.
- E?
- Perché su di lei sì?
Lo sguardo arrossato ed umido corre al ritratto.
- Non ho scusanti. In parte, applicavo la disciplina che ho ricevuto.
Disciplina e severità, così cresce un soldato,
così cresce un Jarjayes. Poi, giorno dopo giorno ho
cominciato
col vederla più figlia e meno figlio. Confesso: ho
dubitato che non sarebbe stata all'altezza, ho messo in discussione
quella decisione folle e ne ho temuto le conseguenze. Ho
avuto…
paura.
Più per i Jarjayes che per Oscar, penso malignamente
conoscendo le sue convinzioni, però evito di sottolinearlo.
- Allo stesso tempo non potevo sopportare che non fosse un fallimento,
perché era il figlio perfetto che avevo sempre desiderato,
ma
non era un maschio. Ma non potevo nemmeno tornare sui miei passi, non
riuscivo a fermare ciò che avevo cominciato. Inconsciamente,
desideravo che fosse lei a ribellarsi. Solo lei poteva porre fine alla
follia cui avevo dato inizio… Ed infine lo ha
fatto: ha
scelto il cuore. … Infine… - ripete, sentendo il
peso
tombale di quella parola: fine. Distoglie lo sguardo dal ritratto e
rabbocca il proprio bicchiere, sversandone buona parte.
- E la capisco. Davvero. Voi potete non credermi, ma se solo
André fosse stato nobile, avrei benedetto la loro
unione…
- si sbilancia - In ogni caso, non li avrei ostacolati. -
aggiunge aggiustando la mira del precedente pensiero troppo audace - Ma
era anche destinata a grandi cose. Un vero peccato...
- No, generale, il peccato sono quelli come noi. Vanitosi, ambiziosi,
persi nel nostro mondo, sempre in cerca di qualcosa di grande. Noi che
guardiamo lontano, e calpestiamo chi ci sta accanto. È
così, generale: i peccatori restano. Lei, io… i
peggiori,
mentre i migliori vanno.
- Lassonne, di quale colpa vi caricate ora? - domanda guardandomi con
ansia.
“Se solo… se invece…”, penso
lasciando cadere la sua domanda nel vuoto.
Porto la mano alla fronte per l'insopportabile dolore e vacillo un
istante.
La stanchezza si fa sentire.
- Mancano poche ore all'alba, dovreste riposare. - osserva il
generale - Abbiamo tante stanze, occupate quella che
più
vi aggrada, dottore.
Annuisco, conosco i miei limiti e la giornata in arrivo non
sarà leggera, né tanto meno piacevole.
- Se posso, riposerei un poco nella stanza delle rose, era
quella di Alexandra quando visse a palazzo Jarjayes.
- Era sua, è vostra.
- Anche voi dovreste riposare, signore.
- Ora devo solo bere, Lassonne. - mormora riportando il bicchiere alle
labbra e lo sguardo al dipinto. - Bere e pregare pietà.
Lo lascio ai suoi rimorsi, alle sue confessioni, al peso del domani che
arriverà, e mi trascino al primo piano, alle camere.
Varco la soglia della stanza che ho scelto: le rose, a centinaia, sono
ancora lì, stupendamente dipinte sulla tappezzeria da mani
abili
e pazienti. Le aveva scelte Alexandra, una consolazione per non poter
vedere quelle vere del giardino durante gli interminabili mesi
trascorsi immobile in quel letto, pregando la grazia di poter un giorno
camminare ancora. Ed il generale mai volle levarle in seguito, anche
dopo la di lei sommaria guarigione. Troppo belle.
Mi lascio cadere sul letto; gli arti pesanti come mai mi è
capitato.
Spesso mi è accaduto di raccogliere gli ultimi rimpianti dei
morenti, cose semplici, come il non aver passeggiato ormai vecchio in
riva al mare con la moglie stupidamente abbandonata anni prima o non
aver carezzato di più la tua bambina da piccola, a volte ora
troppo pragmatica e fredda e sola. Mi domando quale sarà il
mio
rimpianto dell'ultimo momento.
Il suo invece lo conosco, ha un nome: Oscar. Ed una parte di lui
è morta con lei.
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