— 2023 —
L’uomo siede a una panchina. Il
passaggio veloce della sua mano tra i capelli è l’unico segno di
nervosismo quando spiega la lettera che ha trovato ad attenderlo.
Sulla busta il proprio nome in una
calligrafia nota: lettere lunghe e sottili ondeggiano sulla destra,
trasportate da una corrente invisibile. Le accarezza piano, se le
imprime sulle dita, prende coraggio e infine si appresta a leggere.
“Lo so, ci sarebbero decine di
modi migliori per farti arrivare questo messaggio e io ho scelto
l’unico ormai passato di moda e che funzionerà molto male se mai
dovesse piovere. Ma va bene, è quello che saremmo dovuti essere
noi: passati di moda, se solo il capriccio del destino non ci avesse
messo lo zampino.
In ogni caso lo preferisco, mi
piace così; c’è qualcosa di intimo nel modo in cui il pennino
inchiostrato incide i pensieri su un foglio, e quando respiro
l’odore di carta mi ricordo del modo che avevi di strofinare il
pollice all’angolo in alto a destra di una pagina.
Scommetto che lo stai facendo anche
adesso, mentre seduto ad una panca, ti chiedi se mai tornerò. Dopo
settant’anni, quattro vite e due morti apparenti, non abbiamo
imparato nulla. Ancora non siamo tornati per restare.
Mi piacerebbe dirti che l’ho fatto
per nostalgia. Tu solo capiresti; la nostra è un tipo di nostalgia
che si trova solo nei negozi di antiquariato quando guardi un
telefono a dischi e ti stupisci di come la gente potesse vivere
senza un cellulare o senza internet.
Vivevamo con altro, perché era
altro quel che contava: era la carne, il sangue, il sudore, il
bisogno di toccare la vita con mano, assaggiarla con la lingua e
sentirla nelle ossa, anche senza schermi da 1080p di risoluzione.
E se ancora ti stai chiedendo
perché – perché sono tornato indietro, perché non ho saputo
aspettarti questa volta per l’ultima volta – ti stai ponendo la
domanda sbagliata, amico mio…”
— 1944 —
Steve non ha più avuto occasione di
entrare in quella stanza.
L’esercito gli ha concesso tre giorni
di congedo per rimettere insieme i cocci di qualcosa che è andato
frantumato tra le montagne innevate delle Alpi.
Li ha usati per tornare a Brooklyn,
per tornare alle origini, come un salmone che risale la corrente e
che una volta arrivato sa di dover morire – è così che si sente da
quando il taxi lo ha lasciato di fronte all’abitazione dei Barnes.
Eppure è riuscito a raccontarsi ogni sorta di scusa pur di non
entrare in una stanza rimasta chiusa dall’arruolamento di Bucky.
La chiave la trova al solito posto,
sotto lo zerbino all’ingresso.
Entra trattenendo il fiato, seguendo
la scia di un ricordo: un se stesso più giovane, più minuto e più
malato che annaspa sulle spalle di un Bucky sempre uguale. Se si
ferma ad ascoltare può ancora sentire, tra le mura della casa, le
proprie proteste e la voce preoccupata di Buck che lo intima al
silenzio. Aspetta che racconti a tua madre questo tuo uso
colorito degli improperi, Rogers, e vedrai se la prossima domenica a
messa non ti infilerà la testa nell’acquasantiera! Invece di
insultarmi, inizia a utilizzare la bocca per respirare, tanto non ti
metto giù finché non siamo in camera!
Ai tempi era Barnes quello
invincibile. Quello immortale.
Steve scuote il capo, cancella i
bisbigli che come polvere si depositano sui mobili e procede verso
la stanza in fondo.
Gli trema la mano quando afferra la
maniglia. Le scuse sono tornate a bussare: non c’è nulla lì per te,
non lo troverai con la testa ingoiata dall’armadio e le mani ad
armeggiare coi bottoni di una camicia, lo hai già perso e ogni
giorno lo perdi un po’ di più.
La maniglia si deforma. Se ora si
voltasse per tornare indietro, nessuno lo saprebbe.
Nessuno tranne lui. E Steve non ha mai
accettato le scelte semplici. «Glielo devi…»
Apre la porta; ad accoglierlo è un
passato immutato. Lenzuola pulite sono tirate sul letto, una
libreria riempie mezza parete e l’altra metà è occupata da un
armadio con anta a specchio. Nel riflesso scorge un volto che gli
hanno detto essere il proprio, anche se quando si guarda gli sembra
ancora di indossare la faccia di un altro, qualcuno che presto verrà
a presentargli il conto. Sempre che non sia già successo e a pagare
per lui, come sempre, sia stato Buck.
Si stropiccia gli occhi arrossati,
cerchiati dall’insonnia e abbassa uno sguardo vergognato su una
divisa che non sente di meritare.
Entra a passo malfermo. Illudendosi
che sia a causa dell’odore di chiuso, si dirige alla finestra, ma
quando guarda in basso, sulla scrivania ritrova un vecchio taccuino
che pensava di aver perso e disegni di una vita fa in cui riconosce
la propria mano.
Non sa da dove nasca la frenesia con
cui lo sfoglia. Stropiccia le pagine, quasi le strappa, passando da
un disegno all’altro alla ricerca di qualcosa che non riesce a
trovare. Ritrova invece appunti di Bucky, scuse scritte per
averglielo rubato, promesse di dirgli più spesso quanto sia dotato e
segreti così imbarazzanti che sono stati cancellati sotto pesanti
righe inchiostrate di nero.
In quei disegni, però, Bucky non
compare mai.
Steve lascia cadere a terra il
taccuino, assalito dalla paura irrazionale di non essere più in
grado di ricordare il suo volto.
Non sarebbe dovuto entrare. Il vuoto
di quella stanza ha solo reso più reale la sua mancanza, più di
quanto non abbia fatto una bara chiusa senza corpo durante il
funerale.
L’odore di chiuso diventa
insopportabile; deve aver consumato tutto l’ossigeno presente perché
la gola gli si chiude, le pareti si restringono e il pavimento si
apre sotto di lui.
Il dolore ha il retrogusto di un
attacco d’asma e il sé di un tempo ansima a fiato rotto in quel
contenitore di muscoli d’acciaio che è ora il suo corpo.
Cade in ginocchio, le mani tra i
capelli e la fronte premuta alle gambe. Le lacrime che non ha pianto
prima – durante il sermone di Padre Collins, durante la veglia
funebre con gli Howling Commandos o al bar insieme a Peggy, tra fumi
d’alcol che si sono diradati non appena ha riappoggiato il bicchiere
– gli appannano ora la vista, gli rigano le guance e gli bruciano
l’anima.
Un fruscio d’abiti e un sibilo
metallico rimbalza dalla porta alla parete su cui è spalancata, ma
Steve batte un pugno in terra e non si accorge del rumore.
Dal fruscio di abiti prendono vita
passi di stivali, due gambe agili che si piegano e, infine, una scia
di metallo sollevata sulla testa di Steve.
È allora che le cellule del
supersoldato si riattivano. Con violenza riordinano pensieri e
azioni con nuova priorità: difenditi, getta a terra il dolore,
respingi il nemico.
Steve alza un braccio di scatto per
parare il colpo. Si aspetta di stringere il manico di un pugnale,
invece, la mano si serra con forza intorno a un polso. Lo sente
gemere, ma invece di percepire il calore di una pelle umana,
sente il puzzle levigato di placche nero ossidiana. Leggere
vibrazioni gli accarezzano il palmo, familiari fusa di metallo che
riconosce per istinto. Vibranio.
L’uomo inginocchiato accanto a lui lo
guarda senza stupore. Non ha nemmeno provato a difendersi; gli
sorride con la compassione delle allucinazioni in un deserto e il
volto di un morto.
Steve trema e lo fa anche la sua voce.
«Bu-Bucky?»
L’uomo non è Bucky. Ma i
capelli lunghi, raccolti in una coda, scoprono contorni familiari
sporchi di tempo e sensi di colpa.
L’uomo non è Bucky. È una
versione falsata, traslata in avanti negli anni e indossa abiti
futuristici che Steve ha visto solo nei fumetti. Eppure dietro alla
barba scorge tracce di una bellezza scanzonata, e sulla fossetta
irriverente, sopra l’angolo della bocca, ritrova incastrato l’antico
desiderio di baciarlo, come un messaggio in bottiglia affidato al
mare che le onde gli hanno infine restituito. Lo guarda negli occhi
e sono fondali di ghiaccio su cui mille crepe si aprono facendo
sgorgare zampilli di una tristezza che rispecchia la propria e,
perfino, la sormonta.
L’uomo che non è Bucky solleva la mano
libera (è vera quella) e gliela apre alla guancia. «Ehy, Steve.»
Le cellule del supersoldato
impazziscono; continuano a scombinare pensieri alla ricerca di un
ordine che abbia un senso e non lo trovano.
«Credevo.» Steve non prosegue per non
rompere l’illusione.
«Lo so.»
«Come?»
«Stark.»
Non può capirne l’ironia della sorte e
se conoscesse il futuro come lo conosce l’altro, riuscirebbe a
trovare un senso alla fuga del suo sguardo. Punta gli occhi alla
cintura, dove una capsula bianca e rossa è stata assicurata.
«Howard ha –»
L’uomo che non è Bucky sorride amaro.
«No, suo figlio.»
Le cellule del supersoldato stanno
iniziando a ritrovare ordine nel caos, ma la priorità non si è
spostata da quando il cervello ha comandato alla mano di afferrargli
il polso. Steve continua a stringerlo, come avrebbe dovuto fare con
Bucky quando è caduto dal treno e quando tutto quello che serviva
erano due centimetri in più.
Lo stomaco gli si rimescola. Abbassa
lo sguardo troppo in fretta; nella scia di immagini che crolla verso
il basso si insinua il fischio di un treno, le Alpi innevate, un
buco nel vagone e la propria mano tesa ad afferrare aghi d’aria
ghiacciata.
È costretto a strizzare gli occhi per
ritornare in quella stanza. «Ora crediamo nei viaggio nel tempo?»
«Un nanerottolo rachitico, asmatico e
con la scoliosi diventa un divo d’America allo sbaraglio dei nazisti
e fai il pignolo sui viaggi nel tempo?»
Non riesce a ridere, non quando tutto
di quella battuta ha la voce, l’ironia e la risata di Bucky.
Risale piano a fissarlo, seguendo una
ciocca di capelli sfuggita all’elastico che si poggia alla fronte.
La cattura tra le dita, anche se a ogni contatto teme di vederlo
scoppiare come una bolla di sapone.
Invece l’uomo che non è Bucky sospira
come se non avesse aspettato altro, spinge con la fronte contro le
sue dita e non scompare. «Avevo un piano quando sono arrivato qui.»
«Li conosco i tuoi piani.» Steve non
riesce a sembrare ironico come vorrebbe, non con le lacrime che gli
si sono cristallizzate sugli occhi.
«Questo non era così male. Nessuna
missione suicida, nessun cattivo da abbattere, soltanto noi.»
«Sembrava un ottimo piano. Poi cos’è
cambiato?»
«Nulla. Sono tornato indietro e non è
cambiato nulla. È tutto esattamente come ricordavo, eccetto che per
me.»
«Buck…»
L’uomo lo interrompe. «Non fa niente.
Avrei dovuto immaginarlo.» scrolla le spalle, fingendo di crederci.
Poi con un cenno indica il taccuino caduto e lo raccoglie da terra.
«Non volevo rubarlo. Sono andato a riprenderlo lo stesso pomeriggio
in cui Milton Oberman te l’ha portato via, ricordi? Ma quando l’ho
sfogliato e ho visto i tuoi disegni, ho riconosciuto la stalla del
vecchio Sullivan, quella in cui ci siamo infilati da bambini per
scappare dal temporale e quei dannati cavalli ci hanno spaventati a
morte.»
«Se non erro l’idea è stata tua e i
cavalli erano più spaventati di noi.»
«Vero, ma per un po’ mi hanno fatto
passare la voglia di imparare a cavalcare.» L’uomo sfoglia il
taccuino più lentamente di quanto non avesse fatto Steve «C’erano
disegni di posti in cui siamo stati, giornate vissute insieme solo
tu ed io e volevo tenerlo, farne la mia macchina del tempo personale
e riviverle ogni volta che avrei voluto. Quando ho trovato il
coraggio di chiederti di regalarmelo, erano passati giorni e ormai
era troppo tardi. Pensavo che se l’avessi scoperto mi avresti
odiato.»
«Odiarti, sul serio?» Steve spalanca
gli occhi e sul volto iniziano a farsi largo le prime avvisaglie di
schiarita, l’arricciarsi di un sorriso dolciastro e l’accenno di una
risata poco convinta.
«Cosa ti aspettavi, avevo solo tredici
anni.»
Il sorriso si intristisce. «Buck…»
chiamarlo per nome fa più male di quanto non immagini «Come fai ad
essere qui?»
L’uomo, Bucky, risistema il taccuino
nel punto in cui l’ha trovato; anche se in terra, lo appoggia con
delicata reverenza.
Prende fiato e sembra apprestarsi a
correre una maratona lunga quanto gli anni che separano il suo
presente da questo passato. Con la mano di nuovo libera, cerca
quella di Steve al proprio polso.
Steve lo lascia fare, si lascia
muovere a suo piacimento, un po’ più docile di come non fosse quando
pesava un terzo di quel che pesa ora. Quando Bucky gli fa poggiare
l’avambraccio sulla spalla, ritorna padrone dei propri muscoli, gli
apre una mano tra le scapole e lo tira a sé in un abbraccio a metà.
«Non sono morto. Avrei voluto, Dio
solo sa quanto ho pregato perché accadesse. Ma sono ancora vivo,
Stevie, da qualche parte in un incubo di neve e ghiaccio tra le
spire dei nazisti.»
Per un attimo Steve ha la sensazione
che gli abbiano aperto il petto per estrargli il cuore ancora
pulsante.
«Sono tornato indietro perché volevo
dirtelo. Perché volevo essere salvato. Perché non volevo che te ne
andassi e perché l’idea di rimanere di nuovo da solo, senza te al
mio fianco, mi terrorizza.»
«Buck, Buck, rallenta. Non riesco a
seguirti se non mi racconti tutto dal principio. Come sarebbe a dire
che me ne sono andato? Andato dove?»
Bucky scuote il capo. «Non importa.»
La mano di Steve si muove lungo la
schiena di Bucky, preme gli anelli della colonna vertebrale come se
cercasse di comporre una melodia per lui o di trovare la chiave
giusta per interpretare il suo sguardo. Non lo sta accusando, è
questo forse a fargli franare la terra sotto ai piedi – vorrebbe che
gli urlasse addosso, che lo accusasse di averlo abbandonato, che gli
dicesse di non valere nulla come amico e come fratello, perché è
così che si sente. Una nullità. Si è ricoperto di belle parole e
quando è stato il momento di agire e salvare la persona che più
contava al mondo, il suo corpo è tornato all’inutilità originale,
l’ha tradito e lui ha tradito Buck.
Ed è proprio Bucky a tirarlo fuori dal
vortice dei propri pensieri, con uno scappellotto che lo colpisce
dietro la nuca, senza fargli nulla. «Togliti dalla faccia
quell’espressione da cane bastonato. Se scopro che ti stai ancora
torturando per quello che mi è successo, sarà la volta buona che ti
prenderò a schiaffi, Steve Rogers.»
«Avrei dovuto –»
«Avresti dovuto baciarmi.» Bucky lo
interrompe. È un temporale in piena estate e Steve ne viene
investito in pieno, infradiciandosi di nuove prepotenti sensazioni.
Non è imbarazzato, è impreparato, è stordito dallo sguardo gentile e
tranquillo che Bucky mantiene su di lui, dandogli il tempo di
capire, digerire, accettare. Quello che l’amico non sa, però,
è che solo il buon Dio può contare quante volte abbia provato e
fallito – ed è un numero a tre cifre.
Bucky avanza sulle ginocchia, in
un’agilità che ha sempre avuto ma che con gli anni si è fatta più
raffinata. I movimenti sono precisi, veloci e in poco tempo prende
posto a cavalcioni sulle cosce di Steve. «E io avrei dovuto
invitarti a ballare, avrei dovuto dirti che ho sempre amato guardare
il tuo profilo concentrato su un nuovo disegno, i tuoi occhi fissi
all’orizzonte alla ricerca di un particolare che soltanto tu avresti
colto. Avrei dovuto dirti che non ero degno di essere tuo fratello,
perché hai un cuore grande e riesci sempre a trovare spazio per
tutti, mentre io avrei voluto essere l’unico, averti solo per me,
sempre e solo per me.»
Bucky condensa anni di un amore
taciuto. Ci sarebbe altro, ma Steve si tende a baciarlo, si prende
per la prima volta la sua bocca, il suo respiro e una storia che ha
il doppio – e forse di più – dei suoi anni e rende quel bacio più
amaro.
Respinge sul fondo dello stomaco il
senso di tradimento – è Bucky, ma non il suo Bucky. Non
dovrebbe eppure, nel modo in cui la propria bocca combacia alla
perfezione con quella di Bucky, ritrova la pace.
Non si stacca subito e nessuno dei due
si muove nel bacio. È un’unione statica, la collisione di due mondi.
Alla fine è Bucky a tirarsi indietro.
Steve lo rincorre, timbra un altro bacio impacciato alla sua bocca e
alla fine si arrende.
«Tra le tante voci che mi hanno messo
nella testa, la tua è sempre stata la più forte. Perfino adesso, la
tua dannata voce petulante non fa che dirmi di fare la cosa giusta,
di lasciarti andare e di tornare a dove appartengo.»
Steve non è sicuro di essere pronto a
perderlo di nuovo, torna ad afferrargli i polsi per legarlo a sé
così che non gli scivoli più via dalle mani. Non sarà in grado di
sopportarlo. Non vuole sopportarlo.
Bucky – che forse un po’ suo lo è –
gli legge nel pensiero, come al solito, e gli poggia la mano al
petto, sopra una divisa che è tornata a calzargli giusta. «Ti
aspetterà. Lo ha sempre fatto.»
Steve serra con più forza la presa ai
polsi. «E tu… tu starai bene?»
«Farò anche io quello che ho sempre
fatto.»
«Mi aspetterai?»
«Sempre, Stevie. Sempre.»
— 2023 —
“La domanda giusta, amico mio, è
sarai disposto a perdonarmi per non essere riuscito a chiederti di
rimanere?
Mi piacerebbe dirti che l’ho fatto
per nostalgia, ma arrivati a questo punto sono stanco di mentire:
l’ho fatto per egoismo, per codardia, per amore.”
L’uomo ripiega la lettera. L'ultima frase gli riecheggia in testa con la voce di qualcun
altro. Non si aspetta di sentire quella stessa voce parlargli da
pochi metri di distanza.
«Credevo non saresti tornato. O
perlomeno non così.»
Solleva gli occhi, scattando in piedi.
La lettera scivola dalle mani. «Bucky?»
E Bucky è lì, è dove immaginava lo
avrebbe trovato, con le mani nelle tasche di jeans neri, il capo
reclinato e il sorriso soffice.
Annulla la distanza, lo tocca ed è
giovane, identico a come l’aveva lasciato.
Anche Bucky lo scruta curioso, segue
la linea della mascella perfettamente sbarbata e un volto che non è
invecchiato di un anno. «Vuoi dirmi che siamo due idioti?»
Steve ride scrollando le spalle – le
sente stranamente più leggere. «Io sono giustificato: ho portato
tutta la stupidità con me, ricordi? Tu che scusa hai?»
Bucky abbassa gli occhi a una lettera
caduta in terra.
Li risolleva, piantandoli in quelli di
Steve. «L’hai appena letta la mia scusa.»
Steve sorride. La conosce da sempre la
sua scusa, è stata quella a spingerlo a tornare ed è quella a
spalancargli le braccia, con cui intrappola le spalle di Bucky. Non
sa se è lui a baciare Bucky per primo o è il contrario, sa solo che
finalmente si trovano entrambi esattamente dove dovrebbero essere.
"[..] l'ho fatto per egoismo, per nostalgia, per amore. Ti amo maledetto e che io sia maledetto se non t'ho sempre amato."
«Buck.»
«Sì?»
«Non mi hai raccontato cos’avete fatto
tu e lo Steve del passato.»
«Geloso, Capitano?»
«Non immagini quanto, ma per fortuna
abbiamo tutto il resto della vita per rimediare.» |