Quasi cent’anni
prima
Ha appena smesso di
piovere e l'aria è pregna di un'umidità densa e
persistente. A fine
ottobre, il sole non riesce più a scavalcare le creste delle
montagne e l'intero lato nord della valle è immerso in
un'ombra
perenne. Fa freddo, nel cuore del bosco, un freddo che penetra nelle
ossa e toglie la sensibilità alle dita delle mani e dei
piedi, ma
Agnese non vi bada.
Accoccolata su un masso
ricoperto di muschio smeraldino, la bambina non presta alcuna
attenzione alla macchia scura e bagnata che le si sta formando sul
retro dell'abito di lana, così come non si preoccupa di
liberare gli
scarponcini dallo strato di fango e di foglie morte che vi si
è
depositato sopra.
È interamente
concentrata sulla sottile chiave nera che tiene nel palmo della mano:
la gira e la rigira, osservandone la superficie perfettamente
uniforme, senza riflessi, senza scintillii, senza ombre, purissima
nella sua totale assenza di colore.
Non era stato facile
mostrarsi delusa quando, due settimane prima, Margherita le aveva
dato appuntamento in gran segreto alla fine della giornata scolastica
e le aveva mostrato il dono che aveva ricevuto dalla Zingara. Quando
aveva visto la piccola chiave arancione comparire dalla tasca del
grembiulino dell'amica, Agnese aveva sgranato gli occhi per la
sorpresa, ma aveva tenuto la bocca ben chiusa, simulando un silenzio
mortificato. La bambina mora era arrossita, mentre gliela mostrava
quasi di soppiatto. «Non so se faccio bene a
dirtelo», aveva
confessato tenendo lo sguardo basso, «però mi
sembra giusto così.»
In silenzio, Agnese aveva
lasciato che Margherita le raccontasse come la Zingara l'avesse
invitata a casa sua, l'avesse (forse) presentata a suo marito e le
avesse infine affidato quella chiave fatta di resina secca, facendole
promettere di custodirla con cura fino al suo ritorno.
«Perché,
sai, presto avrà una bambina e dovrà andare via
per un po'.»
«Non è giusto che a te
abbia dato quella chiave e me, invece, non abbia dato niente»
le
aveva fatto notare Agnese con un tono controllato, quasi da persona
adulta.
Margherita I'aveva
guardata con aria dispiaciuta. «Lo so» aveva
sospirato con una
vocina sottile sottile. «Non so perché abbia
deciso di fare così.»
Agnese aveva finto di
rifletterci per qualche istante, poi aveva scrollato le spalle.
«Va
be', non fa niente. È solo una chiave: non me ne faccio
niente, di
una chiave che non posso nemmeno usare.»
La ragazzina mora l'aveva
fissata per qualche secondo ancora, poi si era infilata in tasca la
chiave ambrata e aveva abbozzato un sorriso impacciato.
«Magari uno
di questi giorni chiamerà anche te e ti regalerà
qualcos'altro»
aveva suggerito, con l'aria di una che ci credeva davvero.
Agnese aveva reclinato
graziosamente il capo. «Magari sì» aveva
concordato con voce
leggera. L'aveva detto sorridendo, ma dietro la piega amichevole
delle sue labbra si nascondeva un'espressione di scherno. Margherita
pensava forse di poterla prendere in giro? Lo sapeva benissimo, che
la Zingara non l'avrebbe mai chiamata. Era esattamente come aveva
sempre sospettato: lei e Margherita si incontravano di nascosto, alle
sue spalle, escludendola da quella che le sembrava sempre
più
un'amicizia a due nella quale non c'era posto per lei.
Ma, proprio come aveva
appena detto alla bambina bruna, non faceva niente. Che si
incontrassero pure per bere il tè, la Zingara e Margherita,
che si
facessero promesse e si scambiassero regalini: lei aveva un'altra
amica, ben più speciale della Signora Mursciù, e
non aveva niente
da invidiare a nessuno.
E, caso strano, la sua
amica aveva giustappunto regalato anche a lei una chiave, qualche
giorno prima, ed era ancora più bella di quella che la
Zingara aveva
dato a Margherita.
Per ringraziarla di quel
dono, da allora Agnese va a trovarla ancora più spesso di
prima: è
per questo che oggi, appena la pioggia è cessata,
è corsa nel bosco
senza dire niente a nessuno e ha raggiunto il Böcc
dal Seerp.
Lei la stava aspettando:
non ha dovuto attirarla verso la superficie con piccoli doni
vegetali. Quando è comparsa dalla boscaglia, era
già lì che la
fissava con i suoi grandi occhi neri senza iride né pupilla.
Quegli
occhi non l'hanno lasciata neanche un istante, e anche adesso ce li
ha ancora addosso, mentre quella le spiega per l'ennesima volta
perché deve tenere nascosta la chiave, senza mai mostrarla a
nessuno, nemmeno a Margherita o alla Zingara.
Non parla con parole
umane, perché la sua lingua è biforcuta e la sua
bocca piena di
zanne affilate, ma i suoi pensieri sono suoni e onde di colore che
dalla sua mente arrivano direttamente a quella della bambina. Dietro
alle sue palpebre, essi si condensano in immagini, idee e sensazioni.
Agnese vede bestie fantastiche, draghi come quelli combattuti da quel
San Giorgio che da il nome al suo paese, cavalli più bianchi
della
neve, galli con la coda da serpente, leoni con la testa
d’aquila e
creature, piccole o immense, che nemmeno sa descrivere. Vede donne
vestite di ferro e di piume che reggono tra le mani picche affilate e
uomini immensi con corna ritorte e zoccoli di capra.
Sono solo lampi fugaci
che la bimba riesce a malapena ad afferrare, poi arriva
un’immagine
più chiara, più netta, che quella
le scaraventa in testa
come per imprimerla per bene nella sua memoria. La bambina vede una
porticina da niente, legno marcio incastrato sotto a un arco di
roccia come se fosse la porta di un crotto* poco
frequentato,
e davanti a essa scorge schiere di guerrieri splendenti dai visi di
ferro e di vetro. Non sa cosa siano, non sa cosa vogliano, ma avverte
che desidererebbero oltrepassare quella porta striminzita.
Dall’altra
parte, in un mondo più caldo e famigliare di quello che ha
visitato
sino a pochi istanti prima, Agnese vede delle fanciulle dalla pelle
bruna e dagli abiti sgargianti. Non fanno nulla, ma se ne stanno
immobili, con le schiene dritte come fusi, con gli occhi fissi sulla
porta e le mani tese verso di essa. Risplendono di una luce interna,
potente come se al posto del cuore avessero una palla di fuoco
pallido. La bimba pensa che hanno un qualcosa di famigliare, ma
così,
su due piedi, non riesce a definire meglio quella vaga sensazione.
Lei
la scuote con il pensiero e Agnese sente crescere in sé
qualcosa di
strano. È paura, ma anche rancore, invidia, rabbia e un
impeto di
ribellione che non aveva mai provato, prima di allora. È
un’ombra
amara che le riempie l’anima, lava bruciante; è
anche
soddisfazione e trionfo e non c’è nulla di
contraddittorio in
tutti quei sentimenti contrastanti. Agnese si spaventa e lo stomaco
le si contrae in preda alla nausea: perché sta provando
quelle cose?
Si chiede. Poi, all’improvviso, capisce che non sono emozione
sue,
comprende che lei le sta di nuovo mostrando
qualcosa. Sono
uomini, quelli che improvvisamente vede con gli occhi della mente,
uomini mortali (perché le altre creature che ha visto non
erano
affatto mortali, oh, no) come quelli che conosce anche lei. Solo che
non sono esattamente uguali a quelli che incrocia tutti i giorni per
le stradine di San Giorgio: c'è qualcosa di diverso in loro,
una
tendenza all'infinito che avverte, ma non sa spiegare, il desiderio
di innalzarsi al di sopra al mondo e al di sopra al tempo che lo
regola, l'esigenza di sfidare la natura e di vincerla.
«Chi sono?» chiede
Agnese, sentendosi turbata da quegli strani uomini. Non capisce
perché la creatura che vive nel lago le stia mostrando
quelle cose e
il fatto di non capire le causa un dolorino preoccupato all'altezza
dello stomaco.
Quella,
però, sembra non essere in grado di fornire delle
spiegazioni più
approfondite. Davanti alla domanda della ragazzina, si limita a
mostrarle di nuovo le stesse immagini che le ha mostrato pochi attimi
prima, come se si aspettasse che queste fossero sufficienti a fare
comprendere ad Agnese il messaggio che sta cercando di trasmetterle.
Solo che lei non riesce proprio ad afferrarlo, quel messaggio: con un
fremito di frustrazione, pensa che forse quella
non è abituata a trattare con i bambini. Del resto, da
quelle parti
non ne devono passare proprio tanti, e Agnese pensa che, prima che
lei capitasse lì per caso, doveva essere passato molto,
molto tempo
dall'ultima volta che qualcuno si era fermato a chiacchierare con la
creatura del lago.
E
allora cerca di spiegarsi meglio. «Mi dispiace,
ma proprio
non capisco che cosa mi vuoi dire» confessa, con il tono di
voce più
educato che le riesce di tirar fuori. «Non è che
potresti provare a
dire qualche parolina? Oppure potresti scrivere: se vuoi, la prossima
volta ti porto il mio pennino e un quaderno che non uso più.
Non ho
l'inchiostro, ma magari possiamo usare il fango?»
La sua mente è invasa da
una risposta negativa e, forse, anche da una punta di divertimento.
Agnese fissa la creatura che ha davanti agli occhi e si chiede se
è
davvero impossibile, per lei, parlare. Non per la prima volta, guarda
le zanne che le fuoriescono dalla mandibola e si chiede a cosa le
servano dei denti così affilati, se mangia solo ortiche e
borragine.
D'accordo, forse quella non è una bocca fatta per parlare la
lingua
degli uomini, ma che dire delle sue mani? Sono belle ed eleganti,
anche se del colore della pelle dei serpenti, e sono anche ornate da
bracciali di legno e liane. Forse potrebbe veramente scrivere.
È
chiaro che capisce l'italiano, quindi Agnese pensa che ci siano anche
buone possibilità che lo sappia riprodurre per iscritto.
Forse
dovrebbe dirle che non deve preoccuparsi di fare errori di
ortografia, perché ne fa tanti anche lei e quindi non si
formalizzerebbe di certo su un'acca mancata o su una doppia di
troppo.
Prima che possa farle
quella proposta, però, lei
le riversa in testa un'altra serie di immagini e di sensazioni:
chiave, segreto, nascondere, protezione. Agnese serra istintivamente
il piccolo pugno grassoccio attorno alla chiave. «Sì,
la
tengo nascosta» sospira. «Ho capito, non
c'è bisogno che tu me lo
ripeta un'altra volta.»
Nascondere,
nascondere.
Ripete la creatura.
Silenzio, segreto. E
poi: non come Margherita. Perché
lei
lo sa, che
Margherita ha tradito la promessa che aveva fatto alla Zingara e ha
mostrato la chiave ad Agnese. La bambina bionda non deve fare lo
stesso errore: quello è un segreto che si deve portare nella
tomba.
A meno che... Agnese
non sa nemmeno come fa a decifrarlo, quel pensiero, ma avverte che la
creatura le ha appena detto che esiste una condizione in grado di
spezzare il suo voto di segretezza.
«A
meno che... cosa?»
chiede,
perché sente che c'è qualcosa che è
rimasto in sospeso, capisce
che quella ha omesso
una parte fondamentale dell'informazione che ha cercato di
trasmetterle.
Poi. Futuro. Vedrai.
Non
vuole dire niente. Agnese non vuole indizi vaghi, ma istruzioni
sicure. «No» protesta. «Me lo devi dire
adesso, che cosa devo
fare, perché altrimenti rischio di sbagliare qualcosa e poi
tu ti
arrabbi.»
La
creatura del lago non le dà però la soddisfazione
di una risposta e
con un guizzo elegante si ripiega su se stessa, mostrando alla
bambina la schiena nuda e poi sprofondando nelle acque scure del Böcc
dal Seerp con
un guizzo della
sua lunga coda da serpe.
Vedrai,
è la parola che riecheggia nella mente di Agnese mentre
sulla
superficie della pozza d'acqua rimangono solo dei cerchi concentrici
che si fanno sempre meno pronunciati. Vedrai.
Lei
è sparita, lasciando dietro di sé solo un'umida
giornata autunnale.
Un po' infastidita dal modo in cui si è conclusa la
conversazione,
la bambina sbuffa rumorosamente e il fiato le si condensa davanti al
naso in una nuvoletta effimera. Inizia a fare freddo, il che
significa che è proprio ora di tornare a casa, prima che la
mamma si
indisponga per la sua assenza non giustificata.
Prima
di alzarsi in piedi, la ragazzina si rigira un altro po' la chiave
nella mano destra, mentre la sinistra corre a tastare la forma appena
accennata del medaglione donatole dallo strano amico della Zingara.
Lo porta sempre con sé, nascosto sotto il vestito e il
grembiulino.
Seduta davanti al Böcc dal Seerp, la
bambina si chiede se non sia forse il caso di disfarsene: ora che
quella le ha detto che
la chiave non la deve mostrare nemmeno alla Signora Mursciù,
Agnese
si chiede se la Zingara e l'uomo dalla pelle scura siano davvero suoi
amici come ha sempre pensato. E se, invece di proteggerla, la
spiasse? Però poi
pensa che da quando lo porta non le è successo nulla di male
– non
ha mai preso un brutto voto a scuola e la mamma non le ha tirato
nemmeno uno scapaccione – quindi almeno un po' deve
funzionare.
Rassettandosi
la sottana e facendo del proprio meglio per liberarla dalle foglie
secche, dal fango e dagli aloni verdognoli lasciati dal muschio, la
bambina prende una solenne decisione: terrà con
sé il medaglione,
ma terrà anche fede alla promessa che ha fatto alla creatura
del
lago. Nessuno saprà mai della chiave e dell'essere che
gliene ha
fatto dono. Mai. Quello sarà un segreto che la
accompagnerà per
tutto il resto della sua vita.
*
I “crotti” sono degli
anfratti naturali che si formano
all'interno di frane antichissime. Tra un masso e l'altro scorre
costantemente una corrente d'aria fredda (circa otto gradi)
proveniente dal centro della frana: in alcune zone della Lombardia
(la nostra storia si svolge in provincia di Sondrio) si sono ricavate
delle specie di cantine che sfruttano questa sorta di frigorifero
naturale per far stagionare vino, formaggi e salumi. Spesso
è
presente anche una sala o un tavolino esterno dove è
possibile
pasteggiare.
***
Capitolo breve, che,
in teoria, avrebbe dovuto essere la seconda metà di quello
precedente (postato secoli or sono). Però sarebbe venuto
troppo
lungo, quindi l'ho diviso.
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