À Demian
Capitolo diciassettesimo
Nicolas
Era
una serata umida e fredda, quella, anche se era estate
inoltrata.
Demian
non era mai stato in quella zona della città ad
un’ora così
tarda. Aveva solo tredici anni, nessuna esperienza alle spalle e la
voglia di
invischiarsi in qualcosa di diverso, perché non sopportava
più maman rinchiusa
nella sua camera, non sopportava più i medici, la famiglia
troppo distante; perché
in quella pesante routine in cui era incastrato ci soffocava, ci
annaspava
tutti i giorni alla ricerca di una boccata d’ossigeno che si
rifiutava di arrivare.
Persino
il dolore si era trasformato in noia ormai, e si ritrovava
a trascinare il proprio corpo da un posto all’altro,
caracollando senza uno scopo.
Allora aveva capito che forse non c’era scopo, per una
persona come lui, nata
per errore da un errore, destinata a restare senza posto.
Questa
presa di coscienza lo aveva alleggerito, lo aveva spinto a
compiere quell’atto incosciente che non aveva avuto ancora il
coraggio di fare.
Nicolas gli aveva dato un barlume, un accenno di
possibilità, e Demian aveva
deciso che non avrebbe esitato a stringerlo tra le mani, quel fuoco
fatuo di
sgargianti illusioni, anche a costo di ustionarsi, di sciogliersi pelle
e ossa
solo per avere qualche secondo di senso.
Era
sceso dall’ultima corsa extraurbana del pullman ed ignorava
come sarebbe rientrato a casa, perciò non gli era rimasta
altra opzione che
addentrarsi nelle strade della città. Dall’altro
lato dello stradone, la
stazione dei treni era buia e tetra, come un edificio abbandonato, non
fosse
stato per il pallore luminescente degli schermi che dichiaravano le
tratte
ancora in corso e le luci basse di pochi Watt che sembravano tremare
d’incertezza.
Nella
via opposta, Demian avrebbe ritrovato il caos cittadino, il
viale alberato che portava in centro. Sentiva il brusio di famiglie e
persone
che mangiavano gelati e ridevano e passeggiavano. Invece, la piazzola
della
stazione presentava solo gruppi di ragazzi raccolti,
dall’aria poco
raccomandabile, e qualche viandante che trascinava dietro di
sé una valigia, persone
che uscivano velocemente e si incamminavano verso le luci dei negozi.
Tutto quello
squallore era quasi paradossale, la stazione era stata completamente
rinnovata
non molti anni prima, eppure presentava i sintomi della decadenza e
dell’abbandono
tipici di un edificio lasciato all’incuria del tempo. Le
lamiere che avevano
delimitato il cantiere e l’avevano reso inaccessibile ai
civili, dopo la ristrutturazione
erano state rimosse solo per essere abbandonate in una catasta
arrugginita
dalle piogge e dalle intemperie, proprio in mezzo al cortile. Il legno
delle
panche era gonfio di umidità e sbeccato ai bordi, marcito,
dava sempre la
sensazione di viscido e bagnato quando ci si sedeva sopra; il prato era
incolto, la fontana centrale aveva smesso di funzionare da tempo
immemore e le
acque lì conservate, melmose e verdi, avevano dato adito a
nuove forme di vita
su cui Demian a volte si divertiva a fantasticare. Sotto il porticato a
colonne,
alcune porte erano state sbarrate con assi di legno in seguito ad atti
vandalici
e alcuni muri erano stati rivestiti di murales vivaci e volgari, dalle
immagini
spinte. La macchinetta per convalidare i biglietti era stata sradicata
e
pendeva mollemente, come un soldato accasciato. Nell’insieme,
le macchie di
umidità e il muschio agli angoli e tra le lastre della
pavimentazione
risultavano il problema minore.
Lo
squallore che lo circondava però, per quanto lo repellesse,
risultava più attraente della sua dolce e calda dimora,
imperfetta ma certamente
più sicura. Era di quella sicurezza, di quella protezione,
che Demian era
saturo, era noiosa e la noia lo intontiva, lo anestetizzava. Lui
invece, voleva
soffrire molto di più, aveva sempre la sensazione di non
soffrire abbastanza,
di non capire abbastanza. E se non poteva comprendere maman, non poteva
aiutarla, non poteva sfiorarla, sarebbero sempre rimasti divisi da
quella porta
chiusa, un compensato sottile che sembrava indistruttibile
più di un muro di
cemento armato. Se fosse riuscito a soffrire di più, avrebbe
pagato il debito
con maman, con suo padre. Era nell’autodistruzione che gli
sembrava di vedere
una possibilità di pareggiare i conti.
Superato
il sottopassaggio, ritrovò il parco di cui Nicolas gli
aveva parlato, di fronte alla via di vecchi locali trasandati e di un
grande
parcheggio. Nico era proprio dove gli aveva detto che lo avrebbe
trovato: seduto
irriverentemente sullo schienale di una panchina, rideva sguaiatamente
con i
suoi amici, tanto forte da permettergli subito di individuarlo
nonostante i pochi
lampioni. Stringeva una sigaretta in mano, o forse una canna, e il suo
sorriso,
anche se immenso, manteneva sempre quel retrogusto animalesco e
attaccabrighe.
C’era
l’intero gruppo già da quella sera, quel gruppo
che avrebbe
imparato a conoscere a fondo con il tempo, che avrebbe amato e
disprezzato.
Ognuno
di loro aveva la propria dipendenza e la propria storia, ma
il legame che li spingeva a restare tutti insieme al di là
delle divergenze era
Nicolas, che se li giostrava e giocava con loro come fossero bambole
nelle sue
mani inesperte e capricciose. Nico non era il più grande,
però sapeva farsi
rispettare, anche di brutto quando era necessario. Un po’ per
il suo retaggio
familiare, che Demian avrebbe scoperto solo in seguito, un
po’ per la sua
natura brutale e meschina. Teo aveva sette anni in più di
lui, era irragionevole
ed aggressivo già allora, ma davanti a Nico faceva sempre un
passo indietro e
chinava la testa. La verità circa il loro rapporto non gli
era chiara, Matteo
era uno strascico della generazione X di Kurt Cobain, figlio del grunge
e uno dei
pochi eroinomani sopravvissuti agli anni novanta. Il primo bucomane con
cui
Demian avesse avuto a che fare, perché all’alba
del duemila era la cocaina ad
andare per la maggiore.
Aveva
scoperto un giorno da Alex che il più grande si era
indebitato, anni prima, tentando di entrare nel giro come pusher. La
sua dipendenza
spietata aveva rivelato presto che non fosse tagliato per lo spaccio,
il suo
consumo di ero era aumentato, aveva rischiato una morte da overdose e
si era
indebitato al punto che lo spacciatore a cui si era appoggiato aveva
minacciato
di gambizzarlo, non avesse riavuto i suoi soldi.
Era
stato in quel momento che aveva conosciuto Nicolas, quello
spacciatore era suo zio.
Nico
era intervenuto a suo favore, si era fatto carico del debito,
stretto un accordo con lo zio, e infine lo aveva assoldato: Teo sarebbe
stato
uno dei suoi, avrebbe smerciato cocaina per lui e in cambio Nicolas si
sarebbe
assicurato di non lasciarlo mai in astinenza.
I
dettagli di quel controverso rapporto non li conosceva nessuno, era
il debito il vincolo di Teo.
Tutti
nel gruppo avevano un debito con Nico, era così che
lavorava, che si creava attorno la cerchia di accoliti perfetta,
fondata sulla necessità
della sua persona. Gli altri componenti di quella banda erano
più che altro
delinquenti di poco conto, quasi banali: Andrea era un etilico perso,
completamente annegato nell’alcol e impasticcato fino al
midollo, ci andava pensante
con i cocktail di efedrina e valium che lo obnubilavano più
delle droghe
pesanti, dandogli l’aspetto perennemente sperso e confuso e
un’espressione assente,
smarrita, a tratti quasi infantile sotto gli strati di capelli unti e
la barba
incolta. Perlomeno non si faceva di coca e questo lo rendeva abbastanza
affidabile, almeno nello spaccio, gli servivano i soldi per affogare
nell’alcol
quanto desiderava. Era stato un assiduo debitore e in nessun bar della
zona
veniva più servito, per la sua cattiva fama, ma assurdamente
la dipendenza da
alcool risultava una condanna peggiore della coca stessa,
perché quando Andrea
restava sobrio troppo a lungo perdeva compostezza e
tranquillità e dava fuori di
matto, irragionevole peggio che se fosse in rota.
L’Edoné era però territorio
di Nicolas, lo sapevano tutti, e tutti conoscevano Nico. Il resto era
venuto da
sé e far credito per cifre esorbitanti non era
più stato un problema, dopo
essersi unito a lui.
Alex
era un cocainomane con un senso notevole degli affari, il
braccio destro di Nicolas, uno che dalla droga era stato tirato sotto
in pieno
ma riusciva ancora a rialzarsi per fare il suo dovere. Il
bell’aspetto curato, i
piercing eccessivi e i vestiti ricercati creavano un contrasto insolito
tra lui
e gli altri membri della banda, la cosa però non lo
disturbava particolarmente,
Alex era super partes, indifferente a tutto ciò che non
avesse un valore
economico o utilitario.
Infine,
per ultimo c’era Davide, il suo preferito. Un punk in
ritardo sui tempi, erede nostalgico degli anni ottanta e del rock
più aggressivo,
il suo unico scopo sembrava voler emulare John Lydon,
un’icona fondamentale del
suo larario personale. Era un fattone con al cresta colorata
più allucinata che
Dami avesse mai visto, ed era paradossale perché, come gli
avrebbe raccontato
poi, la sua era una famiglia bene, con una villa da capogiro nel
quartiere alto
della città e genitori che lo avevano iscritto a forza alla
più prestigiosa
università di economia di Milano nonostante i suoi scarsi
risultati, solo per
il principio assurdo secondo cui doveva portare avanti il buon nome di
famiglia. Dave rifuggiva la realtà imbottendosi di MD e LSD,
ma il fumo restava
sempre il suo vocabolo preferito e in seguito non aveva esitato a
condividerlo
con lui. Con la sua allegria a volte un po’ artificiosa e
quell’ingenuità che
probabilmente era più frutto dei neuroni bruciati che di
predisposizione
naturale, sembrava l’unico in grado di poter superare i
vent’anni quasi del
tutto normalmente.
Quella
sera, quando Nico l’aveva visto, era balzato in piedi con
uno scatto rapito e felino, quasi elegante, e gli si era fatto vicino
con un mezzo
sorriso che a tratti sapeva di scherno. Non aveva detto nulla, gli
aveva
gettato un braccio attorno alle spalle e l’aveva attirato a
sé con nonchalance,
poi si era voltato platealmente verso il suo piccolo gruppo di fedeli.
«Ragazzi,
lui è Demian. Dem da oggi sarà dei
nostri» aveva
esordito, senza consultarlo. E Dami, guardandolo dal basso con gli
occhi
immensi, aveva compreso tutto ad un tratto la portata di quel suo gesto
avventato, aveva capito di aver appena venduto l’anima al
diavolo, un piccolo
passo verso un baratro profondo e oscuro. Nicolas aveva ricambiato il
suo sguardo,
una scintilla provocatoria nelle iridi grigie d’acqua sporca,
come a sfidarlo a
dire il contrario.
«Giusto,
Dem?»
Le
parole gli mancarono, così Demian si ritrovò ad
annuire lentamente,
quasi temendo che un gesto brusco avrebbe risvegliato
l’animale sopito dentro
il corpo di quel ragazzo strafottente. La dannazione Nicolas
l’aveva cucita in
ogni tratto del suo volto spigoloso, lo stomaco si rattrappiva per il
senso d’allarme
che riusciva a trasmettergli.
Aveva
stretto davvero il patto con il Demonio.
Ero
troppo giovane, troppo innocente e
tentato per poter vedere la clausola nascosta del contratto, quella
piccola e quasi
invisibile linea sul fondo del foglio, accanto alla mia firma
Aveva
battuto il pugno con tutti i membri, tranne Matteo che, a
distanza, lo fissava in cagnesco, pronto a ringhiare al minimo cenno di
invasione del suo territorio da parte di Dami. Davide invece
l’aveva preso in
particolare simpatia, nonostante gli anni che li separavano, e nel giro
di poco
aveva scoperto che con lui non provava né imbarazzo
né paura. Gli si era seduto
accanto e il punk più disastrato di sempre gli aveva offerto
la sua prima
sigaretta con un sorrisino incoraggiante, così estatico che
Demian pensò non fosse
una sigaretta, ad averlo reso felice.
In
quell’astrazione dal reale, tra un colpo di tosse e un altro,
si era sentito più leggero.
Aveva
sorriso.
Immotivatamente,
perché niente aveva importanza in quel frangente.
A malapena ricordava sua madre, circondato da quei ragazzi,
né la Francia, che
fosse lontana, che forse non ci sarebbe tornato, non avrebbe rivisto la
sua famiglia
quell’anno.
«Ehi
Dem, ma si può sapere quanti anni hai?»
«Quasi
tredici» aveva tossito, e il sorriso sciocco di Dave si era
incrinato, gli angoli della bocca si erano piegati verso un basso
perplesso.
Non
avevo torto, a pensare che quel detto fosse
vero, che il riso davvero abbonda sulla bocca degli stolti. Era la
prima volta,
che mi sono reso conto che i detti hanno ragione di essere.
Davide
era già sospeso in un eterno ed estraniato stato di
beatitudine che sfiorava la deficienza. Il silenzio che era crollato
però, non
aveva colpito solo Dave, l’intera compagnia era rimasta
attonita di fronte alla
sua giovane età. Alex aveva occhieggiato Nicolas, confuso,
alla ricerca di una risposta
sensata su quel viso incattivito e perfidamente divertito, macchiato di
scherno.
«Stai
scherzando spero» dichiarò allargando le braccia
in un gesto
inconscio.
Nicolas
aveva scrollato le spalle, incurante «È in gamba.
Ha carattere.
Ed è schifosamente onesto» chiarì. Poi
lo aveva guardato e Demian si era
sentito pietrificare «Non mi serve altro»
«È
un moccioso» rimarcò Alex, aggrottando le
sopracciglia, la
destra deformata da un piercing troppo pesante.
«Anche,
sì»
Teo,
a braccia conserte in disparte, con quell’odio instillato in
ogni gesto mentre lo studiava come un gatto con il topo, si
staccò bruscamente
dal muretto, senza preavviso. Un paio di falcate e gli si era fatto
sotto, lo
aveva afferrato per la collottola e sollevato senza sforzo.
Lo
ricordava, che gli era mancato il fiato.
Che
aveva avuto paura e si era sostenuto a stento, sulle punte dei
piedi, per non soffocare. All’epoca era piccolo, mingherlino
da far spavento,
quasi imbarazzante per la debolezza che trasmetteva.
«Sei
un cazzo di moccioso e basta. Mi dai fastidio» glielo aveva
ringhiato
in faccia, a un palmo dal suo viso, insieme a schizzi di saliva e ad un
alito
forte, con un retrogusto di birra in bottiglia.
Dave
si aggrappò al braccio muscoloso del più grande,
lo supplicò «Teo
mollalo, è solo un bambino» ma venne allontanato
con un semplice movimento del
braccio, deciso e abbastanza forte da farlo cadere a terra come un
sacco vuoto
e sbalordito.
«Tu
sta’ zitto, fattone del cazzo. Faccio già fatica a
sopportare
te, questo scherzo della natura mi fa troppo
schif…» non aveva finito, con
sgomento aveva guardato quel minuto e pallido fantasma che stringeva
tra le mani
e che aveva avuto l’ardire di sputargli in faccia.
Senza
fiato e senza forze, Demian aveva assottigliato gli occhi
«Fottiti»
Di
fronte a quella sfrontata prova di forza, Alex e Davide scoppiarono
a ridere, persino Nico abbozzò un accenno di
ilarità. L’espressione di Teo si
contorse nello sdegno e nella rabbia più primitiva, Demian
seguì, quasi accadesse
a rallentatore, il braccio del ragazzo che si sollevava in un pugno
pronto a spaccargli
la faccia e chiuse gli occhi, come se non vedere potesse aiutarlo ad
incassare.
Ne
avevo ricevuti di cazzotti nella mia vita,
pensavo che non sarebbe stato niente di trascendentale. Ancora non
conoscevo
Matteo o sarei stato meno spavaldo. Con il senno del poi, se non ci
fosse stato
Nicolas ora non avrei più la mia faccia, probabilmente.
«Adesso
basta»
Il
dolore non era arrivato e la voce di Nicolas non era mai
sembrata tanto perentoria, assoluta. Demian si era arrischiato ad
aprire l’occhio
destro, per sbirciare la situazione, ed aveva ritrovato il pugno di Teo
a pochi
centimetri dal suo viso, bloccato soltanto da Nico, che sorrideva
beffardo al
ragazzo più grande.
«Ora
datti una calmata, o ti faccio ingoiare i denti. Ho detto che
è dei nostri, è la mia ultima parola»
Teo
tremava di collera, la bocca sigillata con tanta forza che
Demian poteva sentire i denti scricchiolare per lo sforzo di quella
risposta
trattenuta, il pomo d’Adamo che vibrava. Rimase in silenzio
qualche secondo,
poi chinò il capo in segno di resa e lo scaricò a
terra con cattiveria.
Demian
impattò con la schiena, riuscì a limitare la
caduta con le
braccia per non battere la testa, ma la fitta che dall’osso
sacro gli
attraversò la schiena bastò a deformargli la
bocca in una smorfia di dolore.
Accanto
a lui, ancora disteso nel prato e vittima di una risata allucinata,
c’era Davide.
«Bravo,
Teo» lo schernì Nico, con un sorriso ironico,
lasciandogli
una pacca mortificante sulla spalla prima di abbandonarlo
lì, patetico e
umiliato.
Alex
gli si era avvicinato, gli aveva porto una mano più che per
solidarietà, per paura di contraddire Nico, ma Demian non
aveva voluto
soffermarsi troppo su quella verità e aveva accettato
l’aiuto.
«Sei
fortunato. Hai rischiato grosso»
L’aveva
tirato su di peso, Dami si era sentito tremendamente
leggero ed inutile, esposto «Ma se accetti un consiglio, non
tirare troppo la
corda con Teo o potrebbe veramente ammazzarti. Nico non sarà
sempre nei
dintorni per pararti il culo. Mi stai simpatico moccioso, ma se quello
s’incazza,
col cazzo che ti aiuto, ho reso l’idea?»
Si
era affrettato di nuovo ad annuire.
Era
turbato, eppure in lui strisciava una latente soddisfazione. In
tutta la sua vita non aveva mai potuto replicare ad un’offesa
senza pagarne le
conseguenze, questa volta però era in piedi, stava bene ed
aveva lavato l’onta
dal suo orgoglio ferito.
Guardava
Nicolas e ci vedeva un mostro, razionalmente sarebbe
fuggito a gambe levate da quei pazzi psicopatici, ma il corpo no, non
rispondeva,
faceva tutt’altro, voleva restare lì con loro,
provare il sollievo di una
sicurezza.
Nicolas
era un mostro, ma il mostro è stato
il primo ed unico che mi abbia mai coperto davvero le spalle.
«Questa
è la tua copia»
Nicolas
gli tirò a tradimento un piccolo oggetto sbrilluccicante e
Demian fece appena in tempo a afferrarlo al volo perché non
gli si stampasse
sulla guancia.
Tra
le mani si era ritrovato una piccola chiave argentata, ancora
lucida come fosse appena stata fatta. Era ritornato da Kerlaz da meno
di una
settimana, quell’anno le vacanze con la famiglia non erano
durate tutta l’estate
e Demian aveva dovuto salutare i cugini prima ancora di potersi davvero
riacclimatare alla sua vita francese, tutto a causa dei controlli di
sua madre.
Non
era abituato a trascorrere l’estate in Italia, non aveva
amici
lì, solo compagni di classe che non aveva mai frequentato
oltre la scuola,
perciò senza Jules si era ritrovato a non sapere cosa fare
di sé. Scodinzolare dietro
a Nicolas era stato istintivo, il ragazzo lo definiva la mascotte del
gruppo e
ormai se lo portava anche a casa. Per questo, quella sera era
spaparanzato su
una poltrona sfondata, in casa di Nicolas, mentre la televisione
trasmetteva
una partita di calcio a cui tutti gli altri prestavano attenzione, ma a
cui lui
non era particolarmente interessato.
Di
calcio non ci aveva mai capito molto, un po’
perché non ci
vedeva nulla di particolarmente intelligente nell’osservare
un gruppo di idioti
in pantaloncini correre dietro ad una palla, un po’
perché era sempre stato
così debole che nessuno gli aveva mai permesso di giocare.
L’avevano sempre tagliato
fuori, lasciato a bordo campo a fingere di arbitrare partite
sconclusionate, se
proprio doveva fare qualcosa. Molte volte si era chiesto se fosse
divertente, i
suoi compagni ridevano sempre negli spogliatoi e si davano grandi
pacche di
congratulazioni sulle spalle.
Troppe
volte mi ero domandato se sarebbero
saltati addosso anche a me urlando d’entusiasmo e gioia come
facevano tra di
loro, se fossi riuscito ad attraversare l’intero campo
correndo per poi fare
gol.
Ma
alla fine, era inutile chiederselo, non l’ho
mai scoperto
Sotto
eccessivo sforzo, sveniva. Gli albini non avevano una grande
resistenza fisica, nel suo caso una pressione bassa e la leggera anemia
avevano
solo contribuito a renderlo un caso disperato. In cambio di un aspetto
quasi normale,
per dispetto il suo corpo aveva ceduto tutta la propria resistenza, una
sorta
di scambio con l’universo che lo aveva lasciato fregato.
Però Nicolas non era d’accordo,
lo stava spronando ad allenarsi, come un fratello maggiore un
po’ manesco faceva
a botte con lui, per insegnargli a resistere, a parare. Gli faceva
male, ma mai
troppo, il giusto perché imparasse, e Demian di quelle
attenzioni era grato,
stava imparando ad incassare, ad attaccare, ad essere meno fragile.
«Adesso
sei ufficialmente dei nostri» Alex aveva ammiccato verso
la chiave e poi gli aveva scompigliato i capelli, con una sorta di
indulgenza.
«Ma
che cazzo sta facendo Inzaghi?» urlò Dave,
saltando
letteralmente in piedi sul divano «Quel coglione ci
farà perdere la partita!»
«Chi
te l’ha detto che tifo Juve e non Lazio?» lo
apostrofò Alex incrociando
le braccia al petto, con fare strafottente. Andrea aveva sollevato
pigramente gli
occhi dalla sua bottiglia e con voce impastata aveva sentenziato
«Scommetto che
è espulso»
«Come
dire! Sarebbero dei bastardi, è evidente
che…» la sua voce
era sfumata nell’incredulità mentre in televisione
faceva mostra l’immagine
dell’arbitro che estraeva lo spietato cartellino rosso.
«È
espulso» concluse per lui Alex, piegato in due dal ridere.
Davide
era davvero sconvolto e fuori di sé «È
un arbitro ladro,
cazzo, si vede benissimo che l’hanno pagato. Venduto di
merda!»
«Non
dire stronzate, ha trattenuto Venturin! Era fallo!»
«Non
l’ha fatto apposta!»
«Sei
troppo fatto per guardare la partita, vai a farti un trip
invece di dire cazzate!» Alex non smetteva di ridere e Davide
fremeva sempre
più d’indignazione.
«Sono
lucido! Lo sai che sono sempre lucido quando gioca la Juve!»
«Sì,
per vederla perdere!» lo derise ancora l’amico,
accasciandosi
tra i cuscini del divano.
«Abbiamo
vinto lo scudetto quest’anno, siamo i migliori!»
tentò
ancora di protestare il punk. Un colpo di tosse però lo
spinse ad irrigidirsi,
Davide alzò il viso per incontrare gli occhi nocciola e
contrariati di Teo, che
lo fissava come fosse la cosa più repellente del mondo.
Alla
presenza di Matteo, anche Demian sentì i peli del collo
rizzarsi.
D’istinto, s’incassò più a
fondo nella poltrona, cercò di fondersi con la stoffa,
per seguire il blando consiglio che gli era stato dato qualche tempo
prima. Si stava
divertendo a guardare Alex e Dave bisticciare, non era abituato a
condividere
certi momenti fuori dalla sua famiglia e ne era felice, ma Teo lo
inquietava.
Anzi,
lo spaventava. Era l’orgoglio che gli impediva di ammetterlo
e di farsi troppo piccolo. Le persone come Matteo la paura la
fiutavano, se
voleva sopravvivergli doveva essere sempre forte in sua presenza.
«Chi
sarebbe la migliore?» domandò brusco, perentorio.
«La
Juve!» esclamò Dave in un impeto di coraggio che
si sgonfiò
come un palloncino rapidamente quanto rapidamente si era gonfiato
«Dopo il
Milan, ovviamente» mormorò abbassando in
sottomissione la testa.
Teo
sfoderò un ghigno di disprezzo e soddisfazione che lo
irritarono, perché Demian la prepotenza proprio non riusciva
a reggerla.
«Che
io sappia il Milan quest’anno ha fatto schifo.
Com’è che era
finita l’ultima volta? Quattro a uno per la Juve o ricordo
male?»
La
risata di Alex stemperò lentamente nel silenzio, negli occhi
una
muta preghiera lo invitava a stare zitto. Una preghiera che Demian non
era
intenzionato ad ascoltare. Rinvigorito, Dave
s’illuminò «Sì
esatto!» confermò
con troppo entusiasmo, dovuto più alla soddisfazione di
avere un alleato che
non ai risultati della sua squadra del cuore, per una volta
«E ci siamo portati
a casa anche lo scudetto!»
Avere
una spalla lo aveva reso baldanzoso, sorrideva a Teo con
tutti i denti in bella vista.
«Da
quando gli scherzi della natura hanno il diritto di parlare?»
Teo gli scoccò un’occhiata intrisa
d’odio, i denti digrignati nella rabbia
dell’impotenza.
La vena del collo aveva già iniziato a pulsare, eppure era
frenato, questo
diede a Demian una strana sicurezza, la certezza che nemmeno volendo
quell’energumeno
lo avrebbe toccato.
«Hai
ragione, che sbadato. Sono due anni che fate schifo e non
vincete un cazzo, quasi me ne scordavo. Era sei a uno? Come squadra
migliore fa
un po’ pena, ma suppongo che i perdenti tifino i
perdenti»
Alex
trattenne il fiato, Dave perse completamente colore, Andrea
gli dedicò solo un’enigmatica occhiata, una
scintilla di ammirazione nei suoi
occhietti annacquati. Prima che Teo, completamente rosso di collera,
gli
saltasse addosso e gli staccasse la testa, una fragorosa risata
ghiacciò tutti.
Era
Nicolas che rideva, questo era più sconvolgente di tutto.
«Beh,
Teo, qualcuno prima o poi la verità doveva
dirtela!»
Alla
vena sul collo si aggiunse il pulsare inquietante di quella
sulla fronte, ma questo fece sorridere Demian più che
preoccuparlo.
«Questo
bastardo non arriverà a casa sulle sue gambe!»
ringhiò
sfidando Nicolas, che non smise di ridergli in faccia e rispose con una
scrollata delle spalle «Tecnicamente non deve tornare a casa.
Ha una copia
delle chiavi, anche lui può fermarsi qui quando
vuole»
La
sua vita si era cristallizzata in quel momento, il momento in cui
aveva potuto sfidare quel gigante biondo senza avere nemmeno un graffio
come
conseguenza. Perché Teo non era più riuscito a
muoversi, era rimasto
paralizzato dalla collera, era veramente impotente, persino davanti a
lui, un
mocciosetto pallido e debole.
Era
stata la prima volta nella vita in cui
qualcuno mi aveva difeso così, a spada tratta. La prima
volta in cui avevo
potuto dire davvero quello che pensavo, in cui un bullo non mi aveva
potuto
toccare.
Ero
un intoccabile, grazie a Nicolas. Era questo
il potere di Nico, la magia che lo circondava. Nessuno mi aveva mai
fatto
sentire tanto potente, tanto invincibile, sopra tutto e sopra tutti,
sapevo che
sarebbe stato sempre così, finché mi avesse
preferito
Come
un cane bastonato, Teo aveva abbandonato immediatamente la
casa, sbattendosi la porta alle spalle con tanta forza da staccare
pezzi d’intonaco
dal soffitto.
«Tu
vuoi morire giovane!» sfiatò Alex, ancora
scioccato, sembrava
che il sangue nemmeno scorresse più nel suo corpo accasciato
grottescamente sul
divano. Dave invece, si riprese subito, gli saltò addosso,
gli imprigionò la
testa con il braccio e sfregò duramente le nocche contro la
cute.
«Sei
un mito, cazzo! È da una vita che volevo dirglielo a quello
stronzo, che la sua squadra è una merda!»
La
testa gli bruciava tanto che gli occhi erano diventati lucidi,
eppure anche Demian si ritrovò a ridere, sorpreso della
propria ilarità, spontanea,
felice. Come la fine di una maledizione.
Era
libero per la prima volta.
29
Agosto 1998: la Juve era stata massacrata dal Lazio, Dave aveva
inveito contro la televisione tanto che Alex e Dem l’avevano
dovuto placcare fisicamente
perché non la gettasse fuori dalla finestra; si erano
ubriacati fino a notte
fonda e Andrea era stato veramente sul punto di cadere in coma etilico
costringendoli
a chiamare un’ambulanza.
Teo
non si era più fatto vedere e Nico gli aveva permesso di
dormire
sul divano per non farsi vedere da sua madre a rientrare a casa
impregnato di
fumo e alcol.
Una
delle sere più belle della sua vita.
L’inizio
di una nuova maledizione che ancora
non riuscivo a vedere
***
Demian
una vita simile non l’aveva mai nemmeno immaginata, eppure
gli sembrava ciò che di meglio potesse desiderare. Meglio di
qualunque
aspirazione.
Nella
sua breve vita, la solitudine e il senso d’inadeguatezza
avevano sempre dominato e integrarsi gli era risultato impossibile.
Quando
giungeva l’estate, con maman e Sarah tornavano sempre dai
nonni e lì vi
trascorrevano i tre mesi di sole, poi con le vacanze di Natale accadeva
lo
stesso. Demian sapeva che i suoi compagni di classe trascorrevano molto
tempo insieme,
andavano al CRE nella stagione calda e si ritrovavano nei pomeriggi a
giocare
all’oratorio, ma i suoi spostamenti gli avevano impedito di
tessere quei legami
banali. Così, ogni anno ritrovava coalizioni di ragazzi
sempre più forti e
ostracizzanti: era stato destinato a rimanere lo strano,
l’albino, quel ragazzo
inquietante e dall’aspetto malato che nessuno conosceva
davvero e nessuno
voleva davvero conoscere. Ma ora le cose erano cambiante, Nicolas lo
aveva
accolto senza chiedergli nulla, gli insegnava a difendersi, non era
più il
debole, l’incapace, gli aveva aperto casa sua.
In
uno stanzino della rimessa aveva gettato un materasso per lui,
gli aveva dato lenzuola pulite anche se consunte e gli aveva detto che
quel
posto era suo, avrebbe potuto rifugiarcisi quando avesse voluto. In
quell’appartamento
abusivo, la libertà era assoluta: lui e Davide avevano
comprato delle
bombolette spray e decorato i muri dei corridoi con dei murales,
scritte vivaci,
disegni astratti, bolle colorate in gradazione. L’effetto
psichedelico aveva
esaltato Nicolas che gli aveva scompigliato affettuosamente i capelli e
aveva
sorriso sinceramente, un gesto così raro sul suo volto duro
e cinico, da averlo
riempito di calore.
Non
aveva capito subito che quello era ciò che voleva, ma dopo
le
molte serate trascorse sul tavolo di plastica da esterno in mezzo alla
rimessa,
a scarabocchiare, avvolto in un maglione immenso di lana per combattere
il
freddo dell’inverno, con solo la stufetta a compensare la
mancanza di riscaldamento,
si era riscoperto felice. Davide era tipo da vinili e giradischi,
riempiva il
silenzio con vecchi brani punk rock, suonava la chitarra stravaccato a
terra, e
Demian a volte si sedeva, gliela toglieva di mano e gli insegnava
qualche riff
ereditato dalla durezza paterna.
Si
era unito a loro con l’impaccio dell’essere il
più piccolo e
sprovveduto, uno stupido ragazzino che i tredici anni li aveva appena
fatti.
Teo lo viveva con un’insofferenza esasperata, lo avrebbe
volentieri menato ogni
volta che lo incrociava, ma con irrequietezza aveva imparato ad
accettare la
sua presenza nel tempo, perché non c’era scelta,
lo voleva Nicolas: gli si era
affezionato senza riserve come un fratellino, o almeno era di questo
che si era
convinto all’inizio, quando non capiva. Nicolas era troppo
difficile da
comprendere, per un ingenuo come lui, era facile farsi trascinare dal
suo entusiasmo
crudele, dal sorriso arrogante anche mentre spaccava la faccia a
qualcuno.
Nico
era veramente una persona affascinante che avrebbe convinto
chiunque a fare qualunque cosa, grazie all’innato carisma
distorto che lo
caratterizzava attirava le persone e aveva attirato lui. Bazzicare
quella casa,
quel quartiere più frequentemente di quanto non si potesse
permettere era stato
naturale, passare i pomeriggi fino a sera tarda nel parco vicino alla
stazione,
seduto su una panchina ad ascoltare i discorsi “da
grandi” che i suoi compagni
facevano nell’attesa di un cliente abituale, era altrettanto
ovvio.
All’inizio
fumava sigarette e non faceva nulla, né nessuno si aspettava
qualcosa. Era stato dopo aver conosciuto Elena, che le cose erano
cambiate. Un disastro
poteva solo chiamarne un altro, così Ellie,
dall’aspetto angelico di una salvatrice,
lo aveva avvicinato, lo aveva illuso e gli aveva spezzato il cuore.
Ritrovarsi così
giovane invischiato in un rapporto che non sapeva gestire era stato
troppo per
lui, maman aveva avuto una ricaduta, il tumore era più grave
che mai, Elena aveva
scelto Simone, Sarah era troppo piccola per poter essere un supporto,
Julian
era il suo eroe, non voleva deluderlo.
Avrebbe
solo voluto scappare, Davide era bravo ad evadere dalla
realtà. Si era fatto la sua prima canna, poi era passato
agli acidi, ai trip allucinanti
che lo scollavano dalla vita vera. Il primo era stato terribile e gli
aveva lasciato
addosso un senso di disagio tanto soverchiante che si era convinto non
avrebbe
più provato dell’LSD, ma non era vero, ovviamente.
Perché poi era andato da Elena,
a pregarla, supplicarla di rimettere le cose a posto, e aveva scoperto
che era
tornata con Simone, esattamente il giorno successivo alla prima volta
che aveva
fatto l’amore con lui.
Allora
aveva capito che la realtà non poteva sopportarla, che era
una medicina troppo amara per qualcuno come lui, un debole, un incapace.
Troppo
sicuro di sé per vedere la realtà, era rimasto
impantanato
anche fin troppo in quell’ambiente. Senza riflettere, quasi
per automatismo,
aveva iniziato a fare dei lavoretti per Nicolas dopo la scuola. Solo
erba all’inizio,
poi acidi.
Il
primo passo di una routine che quasi non coglieva. Guadagnava bene,
aveva sempre droghe di qualità sotto mano ed aveva la
libertà di fare quello
che desiderava senza dover dipendere da maman e darle alcuna
spiegazione. Faceva
parte di un gruppo, e non uno qualsiasi: era Il Gruppo, quello che
tutti
rispettavano, che guardavano con timore, che poteva fare qualunque cosa
senza opposizione.
Questo
era stare sotto l’ala di Nicolas, sotto la protezione di
suo zio. Nico era al di sopra di tutti, finché aveva la sua
famiglia. Stare accanto
a lui permetteva di sperimentare uno stato di superiorità,
di libertà, che gli
era sempre stato sconosciuto, non era l’albino di merda, non
era un sociopatico
da sfottere, era quello che stava con Nico. Era qualcuno in un mare di
nessuno.
Era
l’albino della banda di Nicolas.
Per
uno come me, tenuto all’angolo da tutta
la vita, questa condizione valeva più di qualunque cosa, per
questo ero
ingenuo, per questo ero un idiota. Non sapevo ancora che ogni
possibilità, ogni
felicità ha un prezzo, una conseguenza.
Con
il senno del poi era facile vedere l’errore, ma
all’epoca voleva
davvero, essere uno del gruppo, era disposto a qualunque compromesso,
pur di
non restare indietro.
«Dami,
dove sei stato?»
Odiavo
questa domanda
Era
la prima cosa che si sentiva chiedere ogni volta che varcava
la soglia di casa. Lui non rispondeva e allora Jenevieve iniziava ad
urlargli
contro.
All’epoca
maman era ancora abbastanza presente da rendersi conto
che le cose non stessero andando bene, ed i litigi pesanti si
sprecavano ed
erano all’ordine del giorno. Questo lo spingeva a restare
fuori casa il più
possibile e a rientrare quando sperava che Jen dormisse.
Socchiudeva
piano la porta, l’attraversava quasi in punta di
piedi, togliendosi le scarpe prima di entrare. Puntava dritto alla
camera di
Sarah, perché vederla dormire lo rilassava e in quel periodo
la viveva sempre meno.
Sua sorella era piccola, dolce, non sapeva riconoscere
l’odore che si portava
addosso, attaccato ai vestiti come un miasma; lei non lo capiva, cosa
stesse
facendo, lo amava incondizionatamente e basta.
A
volte, Demian si bloccava, in corridoio, e lo stomaco si torceva
al punto che gli veniva da vomitare, e non per ciò che aveva
ingerito.
Sentiva
maman piangere, chiusa in camera sua, e si appoggiava alla
sua porta, rannicchiato con le mani tra i capelli e una muta
disperazione,
finché Jen non si addormentava. Aveva perso il conto delle
volte in cui aveva
desiderato sfondarla, quella porta, e abbracciarla e piangere sulla sua
spalla
e pregarla di stare meglio. Maman era egoista però, soffriva
da sola, di
nascosto, non chiedeva conforto e non ne donava, semplicemente lo
escludeva,
come se la questione non lo riguardasse minimamente.
Allora
come oggi, non mi ha mai dato uno
straccio di speranza
Perciò
non lo aveva mai fatto, restava sfibrato contro quel muro
di legno ai suoi occhi impenetrabile.
«Demian,
non puoi ignorarmi così, sono tua madre!» la voce
disperata di maman era stata soffocata dalla porta di camera sua che si
chiudeva.
Sarah lo aveva fissato, piccola e fragile come non mai, rattrappita
nell’angolo
del suo lettino, con il fedele coniglio stretto tra le braccia.
Tratteneva
le lacrime, piangeva tanto.
Demian
aveva dato un giro di chiave proprio un attimo prima che
maman tentasse di abbassare la maniglia, così Jenevieve
aveva iniziato a
tempestare la superficie di legno con i pugni, urlandogli contro.
«Apri
immediatamente! Ti sto parlando Demian, non puoi comportarti
così!» e poi con voce più acuta,
furente «Apri questa maledetta porta!»
Sarah
aveva iniziato a singhiozzare silenziosamente, si faceva
scudo con Amber, spelacchiato per quanto ci si era aggrappata negli
anni. A guardarla,
qualcosa in lui si era rotto. L’aveva raggiunta in due
falcate e si era
inginocchiato davanti a lei, ma era incerto e non sapeva come sfiorarla.
Nel
libro che maman mi leggeva quando ero
piccolo, ad un tratto il protagonista diceva “Il paese delle
lacrime è così
misterioso”. Non avevo mai capito davvero cosa volesse dire,
non fino a quel
momento. Di fronte a Sarah, all’improvviso aveva assunto un
senso, Sarah ha sempre
dato senso a ogni cosa
Sembrava
impossibile toccarla senza farle del male, un cristallo
incrinato pronto a frantumarsi.
O
forse in frantumi ci sarei andato io, se Sarah
mi avesse rifiutato
Jenevieve
non smetteva di urlare ed inveire.
Anche
lei aveva iniziato a piangere, lo sapeva. Lo capiva, perché
la
voce di maman era dura come la pietra nel dolore, spietata e fredda,
una sofferenza
negata, ma nascondeva una lieve inflessione di cedimento,
l’aveva sentita piangere
troppe volte nella sua vita per non aver imparato a riconoscerla.
Era
lui a farla piangere, non era mai stato diverso da suo padre.
«Sarah…»
Aveva
sempre paura di perderla, un terrore così radicato che
pensava spesso di esserci nato, con quel sentimento, anche quando Sarah
ancora non
era nata, un legame di anime che si trascinavano l’una con
l’altra. Per questo,
se sua sorella lo avesse allontanato, si sarebbe sentito smarrito come
un uomo
in mezzo al deserto, privo di punti di riferimento.
Sarah
era il nord, la bussola, aveva bisogno di essere perdonato
per ciò che stava facendo.
Perché
se non lo avesse fatto lei, cosa mi
sarebbe mai rimasto? Come mi sarei ritrovato?
Sarah
era me quanto io stesso, è sempre stata
la sua esistenza a dare un senso alla mia
Sarah
aveva scostato il coniglio, gli aveva mostrato le guance screpolate
di lacrime secche e occhi lucidi, un’immagine tanto pietosa
da risultargli insostenibile.
«Perché
maman è sempre arrabbiata con te?» la vocina era
labile e
tremula.
Salì
sul letto, l’abbracciò stretta, tanto forte da
temere di
farle male.
Se
solo avessimo potuto essere un tutt’uno. Se
solo il tuo cuore funzionasse. Mi sarei annullato per te, se potessi mi
annullerei
«Non
devi preoccuparti di nulla, Sarah. Va tutto bene»
«Dami,
apri la porta, ti prego» il tono di Jenevieve si era
abbassato ad una supplica disperata.
«Perché
non le apri?»
Sarah
aveva gli stessi occhi di maman, grandi e dorati di un
calore sconosciuto, era il suo sole sconsolato e triste, tremante.
O
forse era stato lui a tremare, non ricordava.
«Adesso
esco io» aveva sussurrato, le aveva accarezzato i capelli
«Ma
prima tu devi farmi una promessa»
Sua
sorella aveva annuito subito «Se lo faccio non litigate
più?»
Si
era morso l’interno della guancia, aveva tentennato
«Non ci
sentirai più litigare» aveva mormorato alla fine,
lo sguardo basso «Ma devi
giurarmelo Sarah. È importante che tu lo faccia
sempre»
La
bambina aveva annuito seria, allora Demian si era alzato, aveva
frugato nel secondo cassetto della sua scrivania dove teneva il Walkman
e i CD,
musica che sua sorella adorava: Roxette, Marillion, Scorpions.
Era
tornato da lei, le aveva fatto indossare le cuffie
«Ogni
volta che mi senti rientrare a casa, devi chiuderti in
camera e ascoltare uno di questi. Al massimo volume»
Il
corpicino aveva sussultato, si era rannicchiato dietro al
peluche, uno scudo morbido e inutile che non era in grado di
proteggerla dal dolore.
«Ma
così…» sussurrò in un
principio di pianto.
«Me
l’hai promesso, Sarah. Te lo regalo, puoi prendere tutti i CD
che vuoi. Lo so che ti piacciono, me li rubi sempre» le aveva
scompigliato i
capelli, un sorriso costipato «Te li regalo tutti. Farai
questa cosa per me?»
Sarah
aveva confermato con un lento, insicuro gesto del capo,
stretta ad Amber come ne andasse della sua vita. Le aveva asciugato la
guancia
con un gesto ruvido del pollice, lì dove una lacrima le era
sfuggita, poi l’aveva
baciata sulla fronte prima di allontanarsi. Sulla porta, ad un passo
dal girare
la chiave, si era voltato a guardare ancora Sarah, con un groppo in
gola.
«Fa’
come ti ho detto»
Non
volevo che sentisse le cattiverie che ci
saremmo detti. Non volevo che sapesse che potevo dire certe cose, nella
disperazione. Non era per lei, era per me, perché non
sopportavo ci fossero
delle prove che dimostrassero che ero una bestia
Solo
quando aveva sentito le note di You don’t
understand me aveva
avuto il coraggio di aprire.
Era
diventata quella la consuetudine, per molto tempo.
Sarah
ascoltava tantissima musica, ogni volta che sentiva la porta
di casa aprirsi e maman rientrava. Demian la ritrovava completamente
estraniata, con la musica al massimo nelle orecchie, anche quando il
silenzio
in casa era assoluto, perché non voleva più
sentire. China su un foglio,
disegnava, tanto, ogni giorno, quell’astrazione dalla
realtà preoccupava
Demian, che tuttavia la spingeva a separarsi da loro piuttosto che
restare
incastrata in una situazione familiare allo sbando. La salutava sempre
con un
bacio sulla fronte, ritornava che già dormiva, si sedeva
accanto a lei.
Le
cantava la sua ninna nanna preferita, quella che maman non
cantava più.
Spesso,
Sarah fingeva soltanto di dormire, teneva gli occhi
chiusi, troppo chiusi per non essere scoperta, smascherata dalla sua
ingenuità.
Gli cercava la mano con la sua, come fosse casuale, ci si aggrappava
con tutta
la sua debole forza, e Demian si sentiva un cane.
Già
allora, sapeva di starla abbandonando, e più questa
consapevolezza
lo opprimeva più fuggiva e la fuga lo portava da Nicolas e
lo legava a lui. Sfogava
il suo nervoso in costanti litigi, in bravate sempre più
stravaganti,
eccessive, e i lividi che collezionava non riusciva più
nemmeno a contarli. Né gli
importava, non erano mai abbastanza.
Al
contempo riusciva a sentirsi incredibilmente fortunato
all’improvviso,
perché almeno nella progressiva disgregazione del suo nido
materno, del porto
sicuro, aveva trovato altro dalla propria famiglia, certezze
più tangibili, più
forti. Qualunque cosa fosse accaduta, non sarebbe rimasto solo, avrebbe
avuto qualcuno
a coprirgli le spalle, aveva un gruppo ora.
Così,
quell’anno era trascorso in una strana sospensione, un
equilibrio
precario ai suoi occhi infrangibile, in bilico tra le droghe di uso
quotidiano
e una realtà tanto assurda, paradossale, da risultare troppo
irreale per essere
credibile.
L’equilibrio
però si era infranto, a tradimento, proprio quando si
era convinto che tutto sarebbe rimasto immobile come si sentiva lui.
Era stato
un giorno come un altro, ma era diventato quel
giorno, quello in cui,
rientrando a casa, aveva trovato la zia con una valigia.
Quello
in cui, entrato in camera, aveva trovato Sarah rannicchiata
nel letto, che piangeva.
Avevo
pensato che fosse tutto sbagliato, che nessun
bambino avrebbe mai dovuto piangere così, da solo
***
La
mente indugiava spesso, a quei momenti, quando si ritrovava a
fissare il vuoto, a tirare le somme. Nelle orecchie sentiva ancora la
voce
spezzata di sua madre sul cuscino, il duro e freddo legno contro la
schiena.
Un’angoscia
inspiegata e opprimente gli accartocciò lo stomaco.
L’unica
certezza che aveva era di non voler ricordare, eppure non
riusciva nemmeno a dimenticare, si crogiolava e macerava
nell’amarezza di un
passato sbagliato, caricava di significato attimi che erano trascorsi
senza
particolare enfasi, mentre li aveva vissuti. Era quello il problema del
guardarsi
indietro invece di andare avanti, tutte le ombre passate si
ingigantivano,
diventavano più imponenti e soffocanti, allungavano i loro
artigli sul presente
e lo influenzavano: così ora soffriva di più per
ciò che era stato di quanto
non ne avesse sofferto all’epoca. Era ancorato ai ricordi con
un’ostinazione
che lui stesso non sapeva spiegarsi.
«Ehi
Dem, chi era la ragazza di stamattina?»
Davide,
con la bocca impastata e i suoi suoni strascicati, lo
riportò alla realtà. Era sdraiato su una panchina
e con lo sguardo vacuo vagava
tra i rami scheletrici degli alberi e il cielo nero. Demian, seduto a
terra con
la schiena appoggiata alle assi di legno, rilasciò insieme
al fumo una nuvola
di condensa.
«Non
so di che parli» replicò svogliato.
Aveva
incredibilmente, ossessivamente fame. Fame chimica, si
sarebbe mangiato senza dubbio il primo gatto sventurato che fosse
passato di lì
per errore, se avesse potuto.
«Perché
cazzo ci dimentichiamo sempre di portare più
cibo?» sbottò
alterato, lanciando un sasso che fu repentinamente inghiottito dal
buio, oltre
il confine di luce segnato dal lampione.
Aveva fumato per rilassarsi e farsi meno seghe mentali,
eppure non aveva
funzionato: il suo Io filosofico, che riemergeva
sempre tra una canna e
l’altra per parlare di soluzioni futuristiche e utopistiche
ai problemi del mondo,
quella sera aveva deciso di non mostrarsi e addosso gli era rimasto
solo malumore.
Dopo
aver passato quel pomeriggio con Arianna, dopo averla
baciata, per un momento si era illuso di voler essere diverso,
migliore, di
meritare un contesto migliore. Era stato uno sciocco pensiero morto sul
nascere, aveva ricevuto un messaggio da Davide e raggiungerlo era stato
scontato.
Avevano
incontrato qualche cliente abituale, aveva scoperto che gli
altri del gruppo sarebbero stati trattenuti fino
all’indomani, questo aveva
detto Dave, ma con tutti gli acidi che si faceva Dem non sapeva se
fidarsi, il
cervello se lo era bruciato prima ancora di conoscerlo.
Sfortunatamente
si trovava nella stanza di detenzione di fronte
alla sua, e lo spettacolino di quella mattina non gli era sfuggito.
«Peccato,
era proprio una grandissima fig…» Demian lo
colpì allo
stomaco con un pugno, ad una velocità sorprendente,
impedendogli di finire il
suo gran poco lusinghiero commento.
«Non
parlare di lei in questo modo» sibilò, mentre
Davide soffocava
tra colpi di tosse «Sei un coglione, potevi
uccidermi!»
«Vedi
di non dire niente su di lei e non accadrà
più» ribadì.
Lo
stomaco borbottava, chiuse gli occhi, il viso bello di Arianna
riaffiorava, un modello plastico che si delineava da una macchia
oscura. Sorrise
di sé stesso, del proprio infantilismo. Credere ad un tratto
di volere altro,
di meritare altro, era davvero da sciocchi.
Sai
cosa sei e cosa meriti.
Sai
come sei arrivato qui, sai dove sei
destinato ad andare.
È
tutto semplice, è tutto qui. Non c’è
altro
nella vita, vivi di negazioni, puoi delinearti solo attraverso i
“no”, sei
composto di incertezze, di forse. La vita esiste, è un
anelito potente, e
immensa e soverchiante. È come il mare, scarno, allucinato,
avvolgente.
Ma
tu non puoi farne parte.
Puoi
solo amarla e guardarla, da lontano.
Sei
l’uomo sulla spiaggia.
Ne
sei escluso, sei sempre stato a bordo
campo a desiderare con un tormento esasperato l’esistenza, e
quello sarà sempre
il tuo posto.
Devi
accettare di essere uno spettatore
impotente.
«Cazzo.
C’ho fame Dave, andiamo a comprare un panino. Sto
morendo»
Per
quella sera avevano finito, l’ultimo cliente era andato via
da
poco e non sarebbe più passato nessuno a cercarli,
oltretutto aveva freddo.
«Allora
la conosci…» bofonchiò imperterrito
Davide «E comunque di
un panino non me ne faccio niente, parola mia che svuoto le scorte del
primo bar
che trovo!»
Rotolò
giù dalla panca con una goffaggine al limite del
sopportabile, cadde a terra carponi e si risollevò sulle
gambe magre, instabili.
Con nonchalance si ripulì le ginocchia dalla polvere e si
stiracchiò. Demian osservò
tutto il procedimento con la solita perplessità che lo
muoveva verso Davide.
«Me
la presenti?» tentò di nuovo il punk dalla cresta
afflosciata.
Ma
cazzo, è una fissazione!
«È
la mia ragazza» mentì «Guardala e ti
cavo gli occhi»
Davide
s’irrigidì, strabuzzò gli occhi
arrossati dal fumo «Hai una
ragazza?» esclamò con tale meraviglia che Demian
se ne sentì irritato.
«Qualcosa
in contrario? Devo rendere conto anche di questo?»
A
tredici anni era stato cieco, sciocco, ingenuo.
Ora
riusciva a vedere la trappola, la prigionia di
quell’eccessiva
libertà. Ora sapeva cosa Nico avesse desiderato da lui fin
dall’inizio, aveva
imparato che il disinteresse non esisteva. Nicolas voleva solo un
braccio
destro, un affidabile, fedele braccio destro, cresciuto e istruito
nella sua
ombra.
Voleva
qualcuno di cui potersi fidare ciecamente.
E
da stupido ragazzino, io mi sono servito su
un piatto d’argento
«È
per questo che sei sparito nell’ultimo periodo? Dovresti
dirlo
a Nico, sai?»
Certo,
non vedo l’ora di condividere tutti i
dettagli dei cazzi miei
«Vita
privata ti dice niente?» borbottò avviandosi lungo
la
stradina acciottolata con quel disastro ambulante che quasi lo seguiva
trotterellando, euforico per le sostanze assunte.
«Fa’
come ti pare, ma si incazzerà se saprà che non
fai il tuo
dovere per una ragazza. Non hai venduto granché questo mese,
no? Rischi di non riuscire
a pagarlo»
In
silenzio si passò una mano sul viso, sfregò
bruscamente la
pelle e intrecciò le dita ai capelli, in un moto di
disperazione.
Sarà
un idiota, ma ha ragione. Mi toccherà fare
qualche serata in discoteca per smerciare la roba il prima possibile, o
con il
cazzo che copro questo mese.
Il
problema delle serate in discoteca era che finivano sempre
male. Gli bastava ripensare alla sera precedente per tirare le somme
del
fallimento. Era stato così ubriaco che quando Dave aveva
fatto partire la
macchina di uno dei tizi con cui Alex stava litigando, Demian non se ne
era
reso conto. Certo, non fino a quando Nico non si era scontrato contro
un
muretto sfondando il muso dell’auto e facendogli tirare una
testata fortissima
al cruscotto. La rissa che ne era seguita con gli amici del
proprietario era
stata la conseguenza più prevedibile, ma erano ubriachi
quanto loro e la
situazione era drasticamente degenerata in un vero bagno di sangue, con
una
bottiglia rotta di contorno e qualche osso non più integro.
No,
non posso sopportare due serate consecutive
così, sono troppo anche per me
«Andiamo
a casa di Nico, sono stanco morto» tagliò corto.
Ai
soldi ci penserò domani
Si
erano fermati a fare scorte di viveri prima di avviarsi nel
buco che Nicolas osava definire appartamento: un’abitazione
abusiva ai piedi di
una palazzina di periferia, senza portinaio, l’ascensore
rotto e una piccola
scalinata interrata che conduceva all’ingresso di casa sua,
separato da quello
ufficiale. Cinque piani di appartamenti di cemento che ricordavano una
scatola
informe e degradata. Saltando i gradini a due a due Demian
aprì la porticina che
rispose con un cigolio sommesso.
Non
riusciva a smettere di pensare a Nico, al passato, alla sua
momentanea situazione, al debito.
La
verità è che sono già fottuto. Devo
compiere sedici anni e sono già fottuto, Nicolas ha
incastrato anche me, sono
più fregato di questa manica di drogati.
E
la sua fregatura era banalmente l’affetto, Nico lo aveva
incastrato con l’affetto. Anche con la consapevolezza di
essere stato usato,
Demian non poteva esimersi dal volergli bene, la sua parte
più irrazionale
continuava a vedere in Nicolas la fuga, la mano protesa in un aiuto,
uno scudo
dal mondo. Era ciò che era perché Nicolas gli
aveva coperto le spalle.
E
quindi eccola, la verità, mediocre e ovvia.
Gli sono più fedele di chiunque altro, proprio come aveva
previsto. Farei qualunque
cosa per lui, più di chiunque altro. Se mi chiedesse di
sbarazzarmi di un corpo,
lo farei. Per lui lo farei.
La
sua era pura gratitudine, autentica, perché in fondo
Nicolas, l’incarnazione
del diavolo, era stato l’unico a dargli un posto a cui poter
fare ritorno.
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