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Autore: lady igraine    19/07/2019    1 recensioni
Demian ha quasi sedici anni, è armato della tragicità di un adolescente e dell’esperienza di vita di un uomo fin troppo intraprendente. La sua esistenza è in costante bilico tra un morboso amore per la propria famiglia, afflitta dal dramma della malattia terminale della madre, ed un mondo più oscuro, di amici poco raccomandabili che gli permettono di sfogare i sentimenti più ombrosi e repressi della sua anima. È in questa fase che lo incontra Arianna, infantile, irrequieta e altrettanto problematica ragazza, dotata di un instancabile sorriso che cela più malinconie e segreti che gioie. Sono tre, i mesi decisivi, quelli che, nel bene e nel male, lasceranno un segno indelebile nelle loro vite.
***
La coscienza era una bestia oscura che divorava da dentro, lasciando sempre l’impressione di facciata che tutto andasse bene.
"Le persone, da fuori, sembrano indistruttibili, perfette come bambole di plastica che non si possono rompere. È il dentro che è una fregatura, un agglomerato di marciume infilato a forza tra gli organi, da qualche parte"
La sua coscienza era terribile più di tutto, le toglieva molte cose, una ad una, con la noncuranza con cui un bambino strappa i petali ad una margherita
Genere: Drammatico, Introspettivo, Malinconico | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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À Demian

Capitolo diciassettesimo

Nicolas

Era una serata umida e fredda, quella, anche se era estate inoltrata.

Demian non era mai stato in quella zona della città ad un’ora così tarda. Aveva solo tredici anni, nessuna esperienza alle spalle e la voglia di invischiarsi in qualcosa di diverso, perché non sopportava più maman rinchiusa nella sua camera, non sopportava più i medici, la famiglia troppo distante; perché in quella pesante routine in cui era incastrato ci soffocava, ci annaspava tutti i giorni alla ricerca di una boccata d’ossigeno che si rifiutava di arrivare.

Persino il dolore si era trasformato in noia ormai, e si ritrovava a trascinare il proprio corpo da un posto all’altro, caracollando senza uno scopo. Allora aveva capito che forse non c’era scopo, per una persona come lui, nata per errore da un errore, destinata a restare senza posto.

Questa presa di coscienza lo aveva alleggerito, lo aveva spinto a compiere quell’atto incosciente che non aveva avuto ancora il coraggio di fare. Nicolas gli aveva dato un barlume, un accenno di possibilità, e Demian aveva deciso che non avrebbe esitato a stringerlo tra le mani, quel fuoco fatuo di sgargianti illusioni, anche a costo di ustionarsi, di sciogliersi pelle e ossa solo per avere qualche secondo di senso.

Era sceso dall’ultima corsa extraurbana del pullman ed ignorava come sarebbe rientrato a casa, perciò non gli era rimasta altra opzione che addentrarsi nelle strade della città. Dall’altro lato dello stradone, la stazione dei treni era buia e tetra, come un edificio abbandonato, non fosse stato per il pallore luminescente degli schermi che dichiaravano le tratte ancora in corso e le luci basse di pochi Watt che sembravano tremare d’incertezza.

Nella via opposta, Demian avrebbe ritrovato il caos cittadino, il viale alberato che portava in centro. Sentiva il brusio di famiglie e persone che mangiavano gelati e ridevano e passeggiavano. Invece, la piazzola della stazione presentava solo gruppi di ragazzi raccolti, dall’aria poco raccomandabile, e qualche viandante che trascinava dietro di sé una valigia, persone che uscivano velocemente e si incamminavano verso le luci dei negozi. Tutto quello squallore era quasi paradossale, la stazione era stata completamente rinnovata non molti anni prima, eppure presentava i sintomi della decadenza e dell’abbandono tipici di un edificio lasciato all’incuria del tempo. Le lamiere che avevano delimitato il cantiere e l’avevano reso inaccessibile ai civili, dopo la ristrutturazione erano state rimosse solo per essere abbandonate in una catasta arrugginita dalle piogge e dalle intemperie, proprio in mezzo al cortile. Il legno delle panche era gonfio di umidità e sbeccato ai bordi, marcito, dava sempre la sensazione di viscido e bagnato quando ci si sedeva sopra; il prato era incolto, la fontana centrale aveva smesso di funzionare da tempo immemore e le acque lì conservate, melmose e verdi, avevano dato adito a nuove forme di vita su cui Demian a volte si divertiva a fantasticare. Sotto il porticato a colonne, alcune porte erano state sbarrate con assi di legno in seguito ad atti vandalici e alcuni muri erano stati rivestiti di murales vivaci e volgari, dalle immagini spinte. La macchinetta per convalidare i biglietti era stata sradicata e pendeva mollemente, come un soldato accasciato. Nell’insieme, le macchie di umidità e il muschio agli angoli e tra le lastre della pavimentazione risultavano il problema minore.

Lo squallore che lo circondava però, per quanto lo repellesse, risultava più attraente della sua dolce e calda dimora, imperfetta ma certamente più sicura. Era di quella sicurezza, di quella protezione, che Demian era saturo, era noiosa e la noia lo intontiva, lo anestetizzava. Lui invece, voleva soffrire molto di più, aveva sempre la sensazione di non soffrire abbastanza, di non capire abbastanza. E se non poteva comprendere maman, non poteva aiutarla, non poteva sfiorarla, sarebbero sempre rimasti divisi da quella porta chiusa, un compensato sottile che sembrava indistruttibile più di un muro di cemento armato. Se fosse riuscito a soffrire di più, avrebbe pagato il debito con maman, con suo padre. Era nell’autodistruzione che gli sembrava di vedere una possibilità di pareggiare i conti.

Superato il sottopassaggio, ritrovò il parco di cui Nicolas gli aveva parlato, di fronte alla via di vecchi locali trasandati e di un grande parcheggio. Nico era proprio dove gli aveva detto che lo avrebbe trovato: seduto irriverentemente sullo schienale di una panchina, rideva sguaiatamente con i suoi amici, tanto forte da permettergli subito di individuarlo nonostante i pochi lampioni. Stringeva una sigaretta in mano, o forse una canna, e il suo sorriso, anche se immenso, manteneva sempre quel retrogusto animalesco e attaccabrighe.

C’era l’intero gruppo già da quella sera, quel gruppo che avrebbe imparato a conoscere a fondo con il tempo, che avrebbe amato e disprezzato.

Ognuno di loro aveva la propria dipendenza e la propria storia, ma il legame che li spingeva a restare tutti insieme al di là delle divergenze era Nicolas, che se li giostrava e giocava con loro come fossero bambole nelle sue mani inesperte e capricciose. Nico non era il più grande, però sapeva farsi rispettare, anche di brutto quando era necessario. Un po’ per il suo retaggio familiare, che Demian avrebbe scoperto solo in seguito, un po’ per la sua natura brutale e meschina. Teo aveva sette anni in più di lui, era irragionevole ed aggressivo già allora, ma davanti a Nico faceva sempre un passo indietro e chinava la testa. La verità circa il loro rapporto non gli era chiara, Matteo era uno strascico della generazione X di Kurt Cobain, figlio del grunge e uno dei pochi eroinomani sopravvissuti agli anni novanta. Il primo bucomane con cui Demian avesse avuto a che fare, perché all’alba del duemila era la cocaina ad andare per la maggiore.

Aveva scoperto un giorno da Alex che il più grande si era indebitato, anni prima, tentando di entrare nel giro come pusher. La sua dipendenza spietata aveva rivelato presto che non fosse tagliato per lo spaccio, il suo consumo di ero era aumentato, aveva rischiato una morte da overdose e si era indebitato al punto che lo spacciatore a cui si era appoggiato aveva minacciato di gambizzarlo, non avesse riavuto i suoi soldi.

Era stato in quel momento che aveva conosciuto Nicolas, quello spacciatore era suo zio.

Nico era intervenuto a suo favore, si era fatto carico del debito, stretto un accordo con lo zio, e infine lo aveva assoldato: Teo sarebbe stato uno dei suoi, avrebbe smerciato cocaina per lui e in cambio Nicolas si sarebbe assicurato di non lasciarlo mai in astinenza.

I dettagli di quel controverso rapporto non li conosceva nessuno, era il debito il vincolo di Teo.

Tutti nel gruppo avevano un debito con Nico, era così che lavorava, che si creava attorno la cerchia di accoliti perfetta, fondata sulla necessità della sua persona. Gli altri componenti di quella banda erano più che altro delinquenti di poco conto, quasi banali: Andrea era un etilico perso, completamente annegato nell’alcol e impasticcato fino al midollo, ci andava pensante con i cocktail di efedrina e valium che lo obnubilavano più delle droghe pesanti, dandogli l’aspetto perennemente sperso e confuso e un’espressione assente, smarrita, a tratti quasi infantile sotto gli strati di capelli unti e la barba incolta. Perlomeno non si faceva di coca e questo lo rendeva abbastanza affidabile, almeno nello spaccio, gli servivano i soldi per affogare nell’alcol quanto desiderava. Era stato un assiduo debitore e in nessun bar della zona veniva più servito, per la sua cattiva fama, ma assurdamente la dipendenza da alcool risultava una condanna peggiore della coca stessa, perché quando Andrea restava sobrio troppo a lungo perdeva compostezza e tranquillità e dava fuori di matto, irragionevole peggio che se fosse in rota. L’Edoné era però territorio di Nicolas, lo sapevano tutti, e tutti conoscevano Nico. Il resto era venuto da sé e far credito per cifre esorbitanti non era più stato un problema, dopo essersi unito a lui.

Alex era un cocainomane con un senso notevole degli affari, il braccio destro di Nicolas, uno che dalla droga era stato tirato sotto in pieno ma riusciva ancora a rialzarsi per fare il suo dovere. Il bell’aspetto curato, i piercing eccessivi e i vestiti ricercati creavano un contrasto insolito tra lui e gli altri membri della banda, la cosa però non lo disturbava particolarmente, Alex era super partes, indifferente a tutto ciò che non avesse un valore economico o utilitario.

Infine, per ultimo c’era Davide, il suo preferito. Un punk in ritardo sui tempi, erede nostalgico degli anni ottanta e del rock più aggressivo, il suo unico scopo sembrava voler emulare John Lydon, un’icona fondamentale del suo larario personale. Era un fattone con al cresta colorata più allucinata che Dami avesse mai visto, ed era paradossale perché, come gli avrebbe raccontato poi, la sua era una famiglia bene, con una villa da capogiro nel quartiere alto della città e genitori che lo avevano iscritto a forza alla più prestigiosa università di economia di Milano nonostante i suoi scarsi risultati, solo per il principio assurdo secondo cui doveva portare avanti il buon nome di famiglia. Dave rifuggiva la realtà imbottendosi di MD e LSD, ma il fumo restava sempre il suo vocabolo preferito e in seguito non aveva esitato a condividerlo con lui. Con la sua allegria a volte un po’ artificiosa e quell’ingenuità che probabilmente era più frutto dei neuroni bruciati che di predisposizione naturale, sembrava l’unico in grado di poter superare i vent’anni quasi del tutto normalmente.

Quella sera, quando Nico l’aveva visto, era balzato in piedi con uno scatto rapito e felino, quasi elegante, e gli si era fatto vicino con un mezzo sorriso che a tratti sapeva di scherno. Non aveva detto nulla, gli aveva gettato un braccio attorno alle spalle e l’aveva attirato a sé con nonchalance, poi si era voltato platealmente verso il suo piccolo gruppo di fedeli.

«Ragazzi, lui è Demian. Dem da oggi sarà dei nostri» aveva esordito, senza consultarlo. E Dami, guardandolo dal basso con gli occhi immensi, aveva compreso tutto ad un tratto la portata di quel suo gesto avventato, aveva capito di aver appena venduto l’anima al diavolo, un piccolo passo verso un baratro profondo e oscuro. Nicolas aveva ricambiato il suo sguardo, una scintilla provocatoria nelle iridi grigie d’acqua sporca, come a sfidarlo a dire il contrario.

«Giusto, Dem?»

Le parole gli mancarono, così Demian si ritrovò ad annuire lentamente, quasi temendo che un gesto brusco avrebbe risvegliato l’animale sopito dentro il corpo di quel ragazzo strafottente. La dannazione Nicolas l’aveva cucita in ogni tratto del suo volto spigoloso, lo stomaco si rattrappiva per il senso d’allarme che riusciva a trasmettergli.

Aveva stretto davvero il patto con il Demonio.

 

Ero troppo giovane, troppo innocente e tentato per poter vedere la clausola nascosta del contratto, quella piccola e quasi invisibile linea sul fondo del foglio, accanto alla mia firma

 

Aveva battuto il pugno con tutti i membri, tranne Matteo che, a distanza, lo fissava in cagnesco, pronto a ringhiare al minimo cenno di invasione del suo territorio da parte di Dami. Davide invece l’aveva preso in particolare simpatia, nonostante gli anni che li separavano, e nel giro di poco aveva scoperto che con lui non provava né imbarazzo né paura. Gli si era seduto accanto e il punk più disastrato di sempre gli aveva offerto la sua prima sigaretta con un sorrisino incoraggiante, così estatico che Demian pensò non fosse una sigaretta, ad averlo reso felice.

In quell’astrazione dal reale, tra un colpo di tosse e un altro, si era sentito più leggero.

Aveva sorriso.

Immotivatamente, perché niente aveva importanza in quel frangente. A malapena ricordava sua madre, circondato da quei ragazzi, né la Francia, che fosse lontana, che forse non ci sarebbe tornato, non avrebbe rivisto la sua famiglia quell’anno.

«Ehi Dem, ma si può sapere quanti anni hai?»

«Quasi tredici» aveva tossito, e il sorriso sciocco di Dave si era incrinato, gli angoli della bocca si erano piegati verso un basso perplesso.

 

Non avevo torto, a pensare che quel detto fosse vero, che il riso davvero abbonda sulla bocca degli stolti. Era la prima volta, che mi sono reso conto che i detti hanno ragione di essere.

 

Davide era già sospeso in un eterno ed estraniato stato di beatitudine che sfiorava la deficienza. Il silenzio che era crollato però, non aveva colpito solo Dave, l’intera compagnia era rimasta attonita di fronte alla sua giovane età. Alex aveva occhieggiato Nicolas, confuso, alla ricerca di una risposta sensata su quel viso incattivito e perfidamente divertito, macchiato di scherno.

«Stai scherzando spero» dichiarò allargando le braccia in un gesto inconscio.

Nicolas aveva scrollato le spalle, incurante «È in gamba. Ha carattere. Ed è schifosamente onesto» chiarì. Poi lo aveva guardato e Demian si era sentito pietrificare «Non mi serve altro»

«È un moccioso» rimarcò Alex, aggrottando le sopracciglia, la destra deformata da un piercing troppo pesante.

«Anche, sì»

Teo, a braccia conserte in disparte, con quell’odio instillato in ogni gesto mentre lo studiava come un gatto con il topo, si staccò bruscamente dal muretto, senza preavviso. Un paio di falcate e gli si era fatto sotto, lo aveva afferrato per la collottola e sollevato senza sforzo.

Lo ricordava, che gli era mancato il fiato.

Che aveva avuto paura e si era sostenuto a stento, sulle punte dei piedi, per non soffocare. All’epoca era piccolo, mingherlino da far spavento, quasi imbarazzante per la debolezza che trasmetteva.

«Sei un cazzo di moccioso e basta. Mi dai fastidio» glielo aveva ringhiato in faccia, a un palmo dal suo viso, insieme a schizzi di saliva e ad un alito forte, con un retrogusto di birra in bottiglia.

Dave si aggrappò al braccio muscoloso del più grande, lo supplicò «Teo mollalo, è solo un bambino» ma venne allontanato con un semplice movimento del braccio, deciso e abbastanza forte da farlo cadere a terra come un sacco vuoto e sbalordito.

«Tu sta’ zitto, fattone del cazzo. Faccio già fatica a sopportare te, questo scherzo della natura mi fa troppo schif…» non aveva finito, con sgomento aveva guardato quel minuto e pallido fantasma che stringeva tra le mani e che aveva avuto l’ardire di sputargli in faccia.

Senza fiato e senza forze, Demian aveva assottigliato gli occhi «Fottiti»

Di fronte a quella sfrontata prova di forza, Alex e Davide scoppiarono a ridere, persino Nico abbozzò un accenno di ilarità. L’espressione di Teo si contorse nello sdegno e nella rabbia più primitiva, Demian seguì, quasi accadesse a rallentatore, il braccio del ragazzo che si sollevava in un pugno pronto a spaccargli la faccia e chiuse gli occhi, come se non vedere potesse aiutarlo ad incassare.

 

Ne avevo ricevuti di cazzotti nella mia vita, pensavo che non sarebbe stato niente di trascendentale. Ancora non conoscevo Matteo o sarei stato meno spavaldo. Con il senno del poi, se non ci fosse stato Nicolas ora non avrei più la mia faccia, probabilmente.

 

«Adesso basta»

Il dolore non era arrivato e la voce di Nicolas non era mai sembrata tanto perentoria, assoluta. Demian si era arrischiato ad aprire l’occhio destro, per sbirciare la situazione, ed aveva ritrovato il pugno di Teo a pochi centimetri dal suo viso, bloccato soltanto da Nico, che sorrideva beffardo al ragazzo più grande.

«Ora datti una calmata, o ti faccio ingoiare i denti. Ho detto che è dei nostri, è la mia ultima parola»

Teo tremava di collera, la bocca sigillata con tanta forza che Demian poteva sentire i denti scricchiolare per lo sforzo di quella risposta trattenuta, il pomo d’Adamo che vibrava. Rimase in silenzio qualche secondo, poi chinò il capo in segno di resa e lo scaricò a terra con cattiveria.

Demian impattò con la schiena, riuscì a limitare la caduta con le braccia per non battere la testa, ma la fitta che dall’osso sacro gli attraversò la schiena bastò a deformargli la bocca in una smorfia di dolore.

Accanto a lui, ancora disteso nel prato e vittima di una risata allucinata, c’era Davide.

«Bravo, Teo» lo schernì Nico, con un sorriso ironico, lasciandogli una pacca mortificante sulla spalla prima di abbandonarlo lì, patetico e umiliato.

Alex gli si era avvicinato, gli aveva porto una mano più che per solidarietà, per paura di contraddire Nico, ma Demian non aveva voluto soffermarsi troppo su quella verità e aveva accettato l’aiuto.

«Sei fortunato. Hai rischiato grosso»

L’aveva tirato su di peso, Dami si era sentito tremendamente leggero ed inutile, esposto «Ma se accetti un consiglio, non tirare troppo la corda con Teo o potrebbe veramente ammazzarti. Nico non sarà sempre nei dintorni per pararti il culo. Mi stai simpatico moccioso, ma se quello s’incazza, col cazzo che ti aiuto, ho reso l’idea?»

Si era affrettato di nuovo ad annuire.

Era turbato, eppure in lui strisciava una latente soddisfazione. In tutta la sua vita non aveva mai potuto replicare ad un’offesa senza pagarne le conseguenze, questa volta però era in piedi, stava bene ed aveva lavato l’onta dal suo orgoglio ferito.

Guardava Nicolas e ci vedeva un mostro, razionalmente sarebbe fuggito a gambe levate da quei pazzi psicopatici, ma il corpo no, non rispondeva, faceva tutt’altro, voleva restare lì con loro, provare il sollievo di una sicurezza.

 

Nicolas era un mostro, ma il mostro è stato il primo ed unico che mi abbia mai coperto davvero le spalle.

 

 

 

«Questa è la tua copia»

Nicolas gli tirò a tradimento un piccolo oggetto sbrilluccicante e Demian fece appena in tempo a afferrarlo al volo perché non gli si stampasse sulla guancia.

Tra le mani si era ritrovato una piccola chiave argentata, ancora lucida come fosse appena stata fatta. Era ritornato da Kerlaz da meno di una settimana, quell’anno le vacanze con la famiglia non erano durate tutta l’estate e Demian aveva dovuto salutare i cugini prima ancora di potersi davvero riacclimatare alla sua vita francese, tutto a causa dei controlli di sua madre.

Non era abituato a trascorrere l’estate in Italia, non aveva amici lì, solo compagni di classe che non aveva mai frequentato oltre la scuola, perciò senza Jules si era ritrovato a non sapere cosa fare di sé. Scodinzolare dietro a Nicolas era stato istintivo, il ragazzo lo definiva la mascotte del gruppo e ormai se lo portava anche a casa. Per questo, quella sera era spaparanzato su una poltrona sfondata, in casa di Nicolas, mentre la televisione trasmetteva una partita di calcio a cui tutti gli altri prestavano attenzione, ma a cui lui non era particolarmente interessato.

Di calcio non ci aveva mai capito molto, un po’ perché non ci vedeva nulla di particolarmente intelligente nell’osservare un gruppo di idioti in pantaloncini correre dietro ad una palla, un po’ perché era sempre stato così debole che nessuno gli aveva mai permesso di giocare. L’avevano sempre tagliato fuori, lasciato a bordo campo a fingere di arbitrare partite sconclusionate, se proprio doveva fare qualcosa. Molte volte si era chiesto se fosse divertente, i suoi compagni ridevano sempre negli spogliatoi e si davano grandi pacche di congratulazioni sulle spalle.

 

Troppe volte mi ero domandato se sarebbero saltati addosso anche a me urlando d’entusiasmo e gioia come facevano tra di loro, se fossi riuscito ad attraversare l’intero campo correndo per poi fare gol.

Ma alla fine, era inutile chiederselo, non l’ho mai scoperto

 

Sotto eccessivo sforzo, sveniva. Gli albini non avevano una grande resistenza fisica, nel suo caso una pressione bassa e la leggera anemia avevano solo contribuito a renderlo un caso disperato. In cambio di un aspetto quasi normale, per dispetto il suo corpo aveva ceduto tutta la propria resistenza, una sorta di scambio con l’universo che lo aveva lasciato fregato. Però Nicolas non era d’accordo, lo stava spronando ad allenarsi, come un fratello maggiore un po’ manesco faceva a botte con lui, per insegnargli a resistere, a parare. Gli faceva male, ma mai troppo, il giusto perché imparasse, e Demian di quelle attenzioni era grato, stava imparando ad incassare, ad attaccare, ad essere meno fragile.

«Adesso sei ufficialmente dei nostri» Alex aveva ammiccato verso la chiave e poi gli aveva scompigliato i capelli, con una sorta di indulgenza.

«Ma che cazzo sta facendo Inzaghi?» urlò Dave, saltando letteralmente in piedi sul divano «Quel coglione ci farà perdere la partita!»

«Chi te l’ha detto che tifo Juve e non Lazio?» lo apostrofò Alex incrociando le braccia al petto, con fare strafottente. Andrea aveva sollevato pigramente gli occhi dalla sua bottiglia e con voce impastata aveva sentenziato «Scommetto che è espulso»

«Come dire! Sarebbero dei bastardi, è evidente che…» la sua voce era sfumata nell’incredulità mentre in televisione faceva mostra l’immagine dell’arbitro che estraeva lo spietato cartellino rosso.

«È espulso» concluse per lui Alex, piegato in due dal ridere.

Davide era davvero sconvolto e fuori di sé «È un arbitro ladro, cazzo, si vede benissimo che l’hanno pagato. Venduto di merda!»

«Non dire stronzate, ha trattenuto Venturin! Era fallo!»

«Non l’ha fatto apposta!»

«Sei troppo fatto per guardare la partita, vai a farti un trip invece di dire cazzate!» Alex non smetteva di ridere e Davide fremeva sempre più d’indignazione.

«Sono lucido! Lo sai che sono sempre lucido quando gioca la Juve!»

«Sì, per vederla perdere!» lo derise ancora l’amico, accasciandosi tra i cuscini del divano.

«Abbiamo vinto lo scudetto quest’anno, siamo i migliori!» tentò ancora di protestare il punk. Un colpo di tosse però lo spinse ad irrigidirsi, Davide alzò il viso per incontrare gli occhi nocciola e contrariati di Teo, che lo fissava come fosse la cosa più repellente del mondo.

Alla presenza di Matteo, anche Demian sentì i peli del collo rizzarsi. D’istinto, s’incassò più a fondo nella poltrona, cercò di fondersi con la stoffa, per seguire il blando consiglio che gli era stato dato qualche tempo prima. Si stava divertendo a guardare Alex e Dave bisticciare, non era abituato a condividere certi momenti fuori dalla sua famiglia e ne era felice, ma Teo lo inquietava.

Anzi, lo spaventava. Era l’orgoglio che gli impediva di ammetterlo e di farsi troppo piccolo. Le persone come Matteo la paura la fiutavano, se voleva sopravvivergli doveva essere sempre forte in sua presenza.

«Chi sarebbe la migliore?» domandò brusco, perentorio.

«La Juve!» esclamò Dave in un impeto di coraggio che si sgonfiò come un palloncino rapidamente quanto rapidamente si era gonfiato «Dopo il Milan, ovviamente» mormorò abbassando in sottomissione la testa.

Teo sfoderò un ghigno di disprezzo e soddisfazione che lo irritarono, perché Demian la prepotenza proprio non riusciva a reggerla.

«Che io sappia il Milan quest’anno ha fatto schifo. Com’è che era finita l’ultima volta? Quattro a uno per la Juve o ricordo male?»

La risata di Alex stemperò lentamente nel silenzio, negli occhi una muta preghiera lo invitava a stare zitto. Una preghiera che Demian non era intenzionato ad ascoltare. Rinvigorito, Dave s’illuminò «Sì esatto!» confermò con troppo entusiasmo, dovuto più alla soddisfazione di avere un alleato che non ai risultati della sua squadra del cuore, per una volta «E ci siamo portati a casa anche lo scudetto!»

Avere una spalla lo aveva reso baldanzoso, sorrideva a Teo con tutti i denti in bella vista.

«Da quando gli scherzi della natura hanno il diritto di parlare?» Teo gli scoccò un’occhiata intrisa d’odio, i denti digrignati nella rabbia dell’impotenza. La vena del collo aveva già iniziato a pulsare, eppure era frenato, questo diede a Demian una strana sicurezza, la certezza che nemmeno volendo quell’energumeno lo avrebbe toccato.

«Hai ragione, che sbadato. Sono due anni che fate schifo e non vincete un cazzo, quasi me ne scordavo. Era sei a uno? Come squadra migliore fa un po’ pena, ma suppongo che i perdenti tifino i perdenti»

Alex trattenne il fiato, Dave perse completamente colore, Andrea gli dedicò solo un’enigmatica occhiata, una scintilla di ammirazione nei suoi occhietti annacquati. Prima che Teo, completamente rosso di collera, gli saltasse addosso e gli staccasse la testa, una fragorosa risata ghiacciò tutti.

Era Nicolas che rideva, questo era più sconvolgente di tutto.

«Beh, Teo, qualcuno prima o poi la verità doveva dirtela!»

Alla vena sul collo si aggiunse il pulsare inquietante di quella sulla fronte, ma questo fece sorridere Demian più che preoccuparlo.

«Questo bastardo non arriverà a casa sulle sue gambe!» ringhiò sfidando Nicolas, che non smise di ridergli in faccia e rispose con una scrollata delle spalle «Tecnicamente non deve tornare a casa. Ha una copia delle chiavi, anche lui può fermarsi qui quando vuole»

La sua vita si era cristallizzata in quel momento, il momento in cui aveva potuto sfidare quel gigante biondo senza avere nemmeno un graffio come conseguenza. Perché Teo non era più riuscito a muoversi, era rimasto paralizzato dalla collera, era veramente impotente, persino davanti a lui, un mocciosetto pallido e debole.

 

Era stata la prima volta nella vita in cui qualcuno mi aveva difeso così, a spada tratta. La prima volta in cui avevo potuto dire davvero quello che pensavo, in cui un bullo non mi aveva potuto toccare.

Ero un intoccabile, grazie a Nicolas. Era questo il potere di Nico, la magia che lo circondava. Nessuno mi aveva mai fatto sentire tanto potente, tanto invincibile, sopra tutto e sopra tutti, sapevo che sarebbe stato sempre così, finché mi avesse preferito

 

Come un cane bastonato, Teo aveva abbandonato immediatamente la casa, sbattendosi la porta alle spalle con tanta forza da staccare pezzi d’intonaco dal soffitto.

«Tu vuoi morire giovane!» sfiatò Alex, ancora scioccato, sembrava che il sangue nemmeno scorresse più nel suo corpo accasciato grottescamente sul divano. Dave invece, si riprese subito, gli saltò addosso, gli imprigionò la testa con il braccio e sfregò duramente le nocche contro la cute.

«Sei un mito, cazzo! È da una vita che volevo dirglielo a quello stronzo, che la sua squadra è una merda!»

La testa gli bruciava tanto che gli occhi erano diventati lucidi, eppure anche Demian si ritrovò a ridere, sorpreso della propria ilarità, spontanea, felice. Come la fine di una maledizione.

Era libero per la prima volta.

29 Agosto 1998: la Juve era stata massacrata dal Lazio, Dave aveva inveito contro la televisione tanto che Alex e Dem l’avevano dovuto placcare fisicamente perché non la gettasse fuori dalla finestra; si erano ubriacati fino a notte fonda e Andrea era stato veramente sul punto di cadere in coma etilico costringendoli a chiamare un’ambulanza.

Teo non si era più fatto vedere e Nico gli aveva permesso di dormire sul divano per non farsi vedere da sua madre a rientrare a casa impregnato di fumo e alcol.

Una delle sere più belle della sua vita.

 

L’inizio di una nuova maledizione che ancora non riuscivo a vedere

 

 

***

Demian una vita simile non l’aveva mai nemmeno immaginata, eppure gli sembrava ciò che di meglio potesse desiderare. Meglio di qualunque aspirazione.

Nella sua breve vita, la solitudine e il senso d’inadeguatezza avevano sempre dominato e integrarsi gli era risultato impossibile. Quando giungeva l’estate, con maman e Sarah tornavano sempre dai nonni e lì vi trascorrevano i tre mesi di sole, poi con le vacanze di Natale accadeva lo stesso. Demian sapeva che i suoi compagni di classe trascorrevano molto tempo insieme, andavano al CRE nella stagione calda e si ritrovavano nei pomeriggi a giocare all’oratorio, ma i suoi spostamenti gli avevano impedito di tessere quei legami banali. Così, ogni anno ritrovava coalizioni di ragazzi sempre più forti e ostracizzanti: era stato destinato a rimanere lo strano, l’albino, quel ragazzo inquietante e dall’aspetto malato che nessuno conosceva davvero e nessuno voleva davvero conoscere. Ma ora le cose erano cambiante, Nicolas lo aveva accolto senza chiedergli nulla, gli insegnava a difendersi, non era più il debole, l’incapace, gli aveva aperto casa sua.

In uno stanzino della rimessa aveva gettato un materasso per lui, gli aveva dato lenzuola pulite anche se consunte e gli aveva detto che quel posto era suo, avrebbe potuto rifugiarcisi quando avesse voluto. In quell’appartamento abusivo, la libertà era assoluta: lui e Davide avevano comprato delle bombolette spray e decorato i muri dei corridoi con dei murales, scritte vivaci, disegni astratti, bolle colorate in gradazione. L’effetto psichedelico aveva esaltato Nicolas che gli aveva scompigliato affettuosamente i capelli e aveva sorriso sinceramente, un gesto così raro sul suo volto duro e cinico, da averlo riempito di calore.

Non aveva capito subito che quello era ciò che voleva, ma dopo le molte serate trascorse sul tavolo di plastica da esterno in mezzo alla rimessa, a scarabocchiare, avvolto in un maglione immenso di lana per combattere il freddo dell’inverno, con solo la stufetta a compensare la mancanza di riscaldamento, si era riscoperto felice. Davide era tipo da vinili e giradischi, riempiva il silenzio con vecchi brani punk rock, suonava la chitarra stravaccato a terra, e Demian a volte si sedeva, gliela toglieva di mano e gli insegnava qualche riff ereditato dalla durezza paterna.

Si era unito a loro con l’impaccio dell’essere il più piccolo e sprovveduto, uno stupido ragazzino che i tredici anni li aveva appena fatti. Teo lo viveva con un’insofferenza esasperata, lo avrebbe volentieri menato ogni volta che lo incrociava, ma con irrequietezza aveva imparato ad accettare la sua presenza nel tempo, perché non c’era scelta, lo voleva Nicolas: gli si era affezionato senza riserve come un fratellino, o almeno era di questo che si era convinto all’inizio, quando non capiva. Nicolas era troppo difficile da comprendere, per un ingenuo come lui, era facile farsi trascinare dal suo entusiasmo crudele, dal sorriso arrogante anche mentre spaccava la faccia a qualcuno.

Nico era veramente una persona affascinante che avrebbe convinto chiunque a fare qualunque cosa, grazie all’innato carisma distorto che lo caratterizzava attirava le persone e aveva attirato lui. Bazzicare quella casa, quel quartiere più frequentemente di quanto non si potesse permettere era stato naturale, passare i pomeriggi fino a sera tarda nel parco vicino alla stazione, seduto su una panchina ad ascoltare i discorsi “da grandi” che i suoi compagni facevano nell’attesa di un cliente abituale, era altrettanto ovvio.

All’inizio fumava sigarette e non faceva nulla, né nessuno si aspettava qualcosa. Era stato dopo aver conosciuto Elena, che le cose erano cambiate. Un disastro poteva solo chiamarne un altro, così Ellie, dall’aspetto angelico di una salvatrice, lo aveva avvicinato, lo aveva illuso e gli aveva spezzato il cuore. Ritrovarsi così giovane invischiato in un rapporto che non sapeva gestire era stato troppo per lui, maman aveva avuto una ricaduta, il tumore era più grave che mai, Elena aveva scelto Simone, Sarah era troppo piccola per poter essere un supporto, Julian era il suo eroe, non voleva deluderlo.

Avrebbe solo voluto scappare, Davide era bravo ad evadere dalla realtà. Si era fatto la sua prima canna, poi era passato agli acidi, ai trip allucinanti che lo scollavano dalla vita vera. Il primo era stato terribile e gli aveva lasciato addosso un senso di disagio tanto soverchiante che si era convinto non avrebbe più provato dell’LSD, ma non era vero, ovviamente. Perché poi era andato da Elena, a pregarla, supplicarla di rimettere le cose a posto, e aveva scoperto che era tornata con Simone, esattamente il giorno successivo alla prima volta che aveva fatto l’amore con lui.

Allora aveva capito che la realtà non poteva sopportarla, che era una medicina troppo amara per qualcuno come lui, un debole, un incapace.

Troppo sicuro di sé per vedere la realtà, era rimasto impantanato anche fin troppo in quell’ambiente. Senza riflettere, quasi per automatismo, aveva iniziato a fare dei lavoretti per Nicolas dopo la scuola. Solo erba all’inizio, poi acidi.

Il primo passo di una routine che quasi non coglieva. Guadagnava bene, aveva sempre droghe di qualità sotto mano ed aveva la libertà di fare quello che desiderava senza dover dipendere da maman e darle alcuna spiegazione. Faceva parte di un gruppo, e non uno qualsiasi: era Il Gruppo, quello che tutti rispettavano, che guardavano con timore, che poteva fare qualunque cosa senza opposizione.

Questo era stare sotto l’ala di Nicolas, sotto la protezione di suo zio. Nico era al di sopra di tutti, finché aveva la sua famiglia. Stare accanto a lui permetteva di sperimentare uno stato di superiorità, di libertà, che gli era sempre stato sconosciuto, non era l’albino di merda, non era un sociopatico da sfottere, era quello che stava con Nico. Era qualcuno in un mare di nessuno.

Era l’albino della banda di Nicolas.

 

Per uno come me, tenuto all’angolo da tutta la vita, questa condizione valeva più di qualunque cosa, per questo ero ingenuo, per questo ero un idiota. Non sapevo ancora che ogni possibilità, ogni felicità ha un prezzo, una conseguenza.

 

Con il senno del poi era facile vedere l’errore, ma all’epoca voleva davvero, essere uno del gruppo, era disposto a qualunque compromesso, pur di non restare indietro.

 

 

 

 

 

«Dami, dove sei stato?»

 

Odiavo questa domanda

 

Era la prima cosa che si sentiva chiedere ogni volta che varcava la soglia di casa. Lui non rispondeva e allora Jenevieve iniziava ad urlargli contro.

All’epoca maman era ancora abbastanza presente da rendersi conto che le cose non stessero andando bene, ed i litigi pesanti si sprecavano ed erano all’ordine del giorno. Questo lo spingeva a restare fuori casa il più possibile e a rientrare quando sperava che Jen dormisse.

Socchiudeva piano la porta, l’attraversava quasi in punta di piedi, togliendosi le scarpe prima di entrare. Puntava dritto alla camera di Sarah, perché vederla dormire lo rilassava e in quel periodo la viveva sempre meno. Sua sorella era piccola, dolce, non sapeva riconoscere l’odore che si portava addosso, attaccato ai vestiti come un miasma; lei non lo capiva, cosa stesse facendo, lo amava incondizionatamente e basta.

A volte, Demian si bloccava, in corridoio, e lo stomaco si torceva al punto che gli veniva da vomitare, e non per ciò che aveva ingerito.

Sentiva maman piangere, chiusa in camera sua, e si appoggiava alla sua porta, rannicchiato con le mani tra i capelli e una muta disperazione, finché Jen non si addormentava. Aveva perso il conto delle volte in cui aveva desiderato sfondarla, quella porta, e abbracciarla e piangere sulla sua spalla e pregarla di stare meglio. Maman era egoista però, soffriva da sola, di nascosto, non chiedeva conforto e non ne donava, semplicemente lo escludeva, come se la questione non lo riguardasse minimamente.

 

Allora come oggi, non mi ha mai dato uno straccio di speranza

 

Perciò non lo aveva mai fatto, restava sfibrato contro quel muro di legno ai suoi occhi impenetrabile.

 

 

 

 

«Demian, non puoi ignorarmi così, sono tua madre!» la voce disperata di maman era stata soffocata dalla porta di camera sua che si chiudeva. Sarah lo aveva fissato, piccola e fragile come non mai, rattrappita nell’angolo del suo lettino, con il fedele coniglio stretto tra le braccia.

Tratteneva le lacrime, piangeva tanto.

Demian aveva dato un giro di chiave proprio un attimo prima che maman tentasse di abbassare la maniglia, così Jenevieve aveva iniziato a tempestare la superficie di legno con i pugni, urlandogli contro.

«Apri immediatamente! Ti sto parlando Demian, non puoi comportarti così!» e poi con voce più acuta, furente «Apri questa maledetta porta!»

Sarah aveva iniziato a singhiozzare silenziosamente, si faceva scudo con Amber, spelacchiato per quanto ci si era aggrappata negli anni. A guardarla, qualcosa in lui si era rotto. L’aveva raggiunta in due falcate e si era inginocchiato davanti a lei, ma era incerto e non sapeva come sfiorarla.

 

Nel libro che maman mi leggeva quando ero piccolo, ad un tratto il protagonista diceva “Il paese delle lacrime è così misterioso”. Non avevo mai capito davvero cosa volesse dire, non fino a quel momento. Di fronte a Sarah, all’improvviso aveva assunto un senso, Sarah ha sempre dato senso a ogni cosa

 

Sembrava impossibile toccarla senza farle del male, un cristallo incrinato pronto a frantumarsi.

 

O forse in frantumi ci sarei andato io, se Sarah mi avesse rifiutato

 

Jenevieve non smetteva di urlare ed inveire.

Anche lei aveva iniziato a piangere, lo sapeva. Lo capiva, perché la voce di maman era dura come la pietra nel dolore, spietata e fredda, una sofferenza negata, ma nascondeva una lieve inflessione di cedimento, l’aveva sentita piangere troppe volte nella sua vita per non aver imparato a riconoscerla.

Era lui a farla piangere, non era mai stato diverso da suo padre.

«Sarah…»

Aveva sempre paura di perderla, un terrore così radicato che pensava spesso di esserci nato, con quel sentimento, anche quando Sarah ancora non era nata, un legame di anime che si trascinavano l’una con l’altra. Per questo, se sua sorella lo avesse allontanato, si sarebbe sentito smarrito come un uomo in mezzo al deserto, privo di punti di riferimento.

Sarah era il nord, la bussola, aveva bisogno di essere perdonato per ciò che stava facendo.

 

Perché se non lo avesse fatto lei, cosa mi sarebbe mai rimasto? Come mi sarei ritrovato?

Sarah era me quanto io stesso, è sempre stata la sua esistenza a dare un senso alla mia

 

Sarah aveva scostato il coniglio, gli aveva mostrato le guance screpolate di lacrime secche e occhi lucidi, un’immagine tanto pietosa da risultargli insostenibile.

«Perché maman è sempre arrabbiata con te?» la vocina era labile e tremula.

Salì sul letto, l’abbracciò stretta, tanto forte da temere di farle male.

 

Se solo avessimo potuto essere un tutt’uno. Se solo il tuo cuore funzionasse. Mi sarei annullato per te, se potessi mi annullerei

 

«Non devi preoccuparti di nulla, Sarah. Va tutto bene»

«Dami, apri la porta, ti prego» il tono di Jenevieve si era abbassato ad una supplica disperata.

«Perché non le apri?»

Sarah aveva gli stessi occhi di maman, grandi e dorati di un calore sconosciuto, era il suo sole sconsolato e triste, tremante.

O forse era stato lui a tremare, non ricordava.

«Adesso esco io» aveva sussurrato, le aveva accarezzato i capelli «Ma prima tu devi farmi una promessa»

Sua sorella aveva annuito subito «Se lo faccio non litigate più?»

Si era morso l’interno della guancia, aveva tentennato «Non ci sentirai più litigare» aveva mormorato alla fine, lo sguardo basso «Ma devi giurarmelo Sarah. È importante che tu lo faccia sempre»

La bambina aveva annuito seria, allora Demian si era alzato, aveva frugato nel secondo cassetto della sua scrivania dove teneva il Walkman e i CD, musica che sua sorella adorava: Roxette, Marillion, Scorpions.

Era tornato da lei, le aveva fatto indossare le cuffie

«Ogni volta che mi senti rientrare a casa, devi chiuderti in camera e ascoltare uno di questi. Al massimo volume»

Il corpicino aveva sussultato, si era rannicchiato dietro al peluche, uno scudo morbido e inutile che non era in grado di proteggerla dal dolore.

«Ma così…» sussurrò in un principio di pianto.

«Me l’hai promesso, Sarah. Te lo regalo, puoi prendere tutti i CD che vuoi. Lo so che ti piacciono, me li rubi sempre» le aveva scompigliato i capelli, un sorriso costipato «Te li regalo tutti. Farai questa cosa per me?»

Sarah aveva confermato con un lento, insicuro gesto del capo, stretta ad Amber come ne andasse della sua vita. Le aveva asciugato la guancia con un gesto ruvido del pollice, lì dove una lacrima le era sfuggita, poi l’aveva baciata sulla fronte prima di allontanarsi. Sulla porta, ad un passo dal girare la chiave, si era voltato a guardare ancora Sarah, con un groppo in gola.

«Fa’ come ti ho detto»

 

Non volevo che sentisse le cattiverie che ci saremmo detti. Non volevo che sapesse che potevo dire certe cose, nella disperazione. Non era per lei, era per me, perché non sopportavo ci fossero delle prove che dimostrassero che ero una bestia

 

Solo quando aveva sentito le note di You don’t understand me aveva avuto il coraggio di aprire.

 

 

 

Era diventata quella la consuetudine, per molto tempo.

Sarah ascoltava tantissima musica, ogni volta che sentiva la porta di casa aprirsi e maman rientrava. Demian la ritrovava completamente estraniata, con la musica al massimo nelle orecchie, anche quando il silenzio in casa era assoluto, perché non voleva più sentire. China su un foglio, disegnava, tanto, ogni giorno, quell’astrazione dalla realtà preoccupava Demian, che tuttavia la spingeva a separarsi da loro piuttosto che restare incastrata in una situazione familiare allo sbando. La salutava sempre con un bacio sulla fronte, ritornava che già dormiva, si sedeva accanto a lei.

Le cantava la sua ninna nanna preferita, quella che maman non cantava più.

Spesso, Sarah fingeva soltanto di dormire, teneva gli occhi chiusi, troppo chiusi per non essere scoperta, smascherata dalla sua ingenuità. Gli cercava la mano con la sua, come fosse casuale, ci si aggrappava con tutta la sua debole forza, e Demian si sentiva un cane.

Già allora, sapeva di starla abbandonando, e più questa consapevolezza lo opprimeva più fuggiva e la fuga lo portava da Nicolas e lo legava a lui. Sfogava il suo nervoso in costanti litigi, in bravate sempre più stravaganti, eccessive, e i lividi che collezionava non riusciva più nemmeno a contarli. Né gli importava, non erano mai abbastanza.

Al contempo riusciva a sentirsi incredibilmente fortunato all’improvviso, perché almeno nella progressiva disgregazione del suo nido materno, del porto sicuro, aveva trovato altro dalla propria famiglia, certezze più tangibili, più forti. Qualunque cosa fosse accaduta, non sarebbe rimasto solo, avrebbe avuto qualcuno a coprirgli le spalle, aveva un gruppo ora.

Così, quell’anno era trascorso in una strana sospensione, un equilibrio precario ai suoi occhi infrangibile, in bilico tra le droghe di uso quotidiano e una realtà tanto assurda, paradossale, da risultare troppo irreale per essere credibile.

L’equilibrio però si era infranto, a tradimento, proprio quando si era convinto che tutto sarebbe rimasto immobile come si sentiva lui. Era stato un giorno come un altro, ma era diventato quel giorno, quello in cui, rientrando a casa, aveva trovato la zia con una valigia.

Quello in cui, entrato in camera, aveva trovato Sarah rannicchiata nel letto, che piangeva.

 

Avevo pensato che fosse tutto sbagliato, che nessun bambino avrebbe mai dovuto piangere così, da solo

 

 

***

 

La mente indugiava spesso, a quei momenti, quando si ritrovava a fissare il vuoto, a tirare le somme. Nelle orecchie sentiva ancora la voce spezzata di sua madre sul cuscino, il duro e freddo legno contro la schiena. 

Un’angoscia inspiegata e opprimente gli accartocciò lo stomaco.

L’unica certezza che aveva era di non voler ricordare, eppure non riusciva nemmeno a dimenticare, si crogiolava e macerava nell’amarezza di un passato sbagliato, caricava di significato attimi che erano trascorsi senza particolare enfasi, mentre li aveva vissuti. Era quello il problema del guardarsi indietro invece di andare avanti, tutte le ombre passate si ingigantivano, diventavano più imponenti e soffocanti, allungavano i loro artigli sul presente e lo influenzavano: così ora soffriva di più per ciò che era stato di quanto non ne avesse sofferto all’epoca. Era ancorato ai ricordi con un’ostinazione che lui stesso non sapeva spiegarsi.

«Ehi Dem, chi era la ragazza di stamattina?»

Davide, con la bocca impastata e i suoi suoni strascicati, lo riportò alla realtà. Era sdraiato su una panchina e con lo sguardo vacuo vagava tra i rami scheletrici degli alberi e il cielo nero. Demian, seduto a terra con la schiena appoggiata alle assi di legno, rilasciò insieme al fumo una nuvola di condensa.

«Non so di che parli» replicò svogliato.

Aveva incredibilmente, ossessivamente fame. Fame chimica, si sarebbe mangiato senza dubbio il primo gatto sventurato che fosse passato di lì per errore, se avesse potuto.

«Perché cazzo ci dimentichiamo sempre di portare più cibo?» sbottò alterato, lanciando un sasso che fu repentinamente inghiottito dal buio, oltre il confine di luce segnato dal lampione.  Aveva fumato per rilassarsi e farsi meno seghe mentali, eppure non aveva funzionato: il suo Io filosofico, che riemergeva sempre tra una canna e l’altra per parlare di soluzioni futuristiche e utopistiche ai problemi del mondo, quella sera aveva deciso di non mostrarsi e addosso gli era rimasto solo malumore.

Dopo aver passato quel pomeriggio con Arianna, dopo averla baciata, per un momento si era illuso di voler essere diverso, migliore, di meritare un contesto migliore. Era stato uno sciocco pensiero morto sul nascere, aveva ricevuto un messaggio da Davide e raggiungerlo era stato scontato.

Avevano incontrato qualche cliente abituale, aveva scoperto che gli altri del gruppo sarebbero stati trattenuti fino all’indomani, questo aveva detto Dave, ma con tutti gli acidi che si faceva Dem non sapeva se fidarsi, il cervello se lo era bruciato prima ancora di conoscerlo.

Sfortunatamente si trovava nella stanza di detenzione di fronte alla sua, e lo spettacolino di quella mattina non gli era sfuggito.

«Peccato, era proprio una grandissima fig…» Demian lo colpì allo stomaco con un pugno, ad una velocità sorprendente, impedendogli di finire il suo gran poco lusinghiero commento.

«Non parlare di lei in questo modo» sibilò, mentre Davide soffocava tra colpi di tosse «Sei un coglione, potevi uccidermi!»

«Vedi di non dire niente su di lei e non accadrà più» ribadì.

Lo stomaco borbottava, chiuse gli occhi, il viso bello di Arianna riaffiorava, un modello plastico che si delineava da una macchia oscura. Sorrise di sé stesso, del proprio infantilismo. Credere ad un tratto di volere altro, di meritare altro, era davvero da sciocchi.

 

Sai cosa sei e cosa meriti.

Sai come sei arrivato qui, sai dove sei destinato ad andare.

È tutto semplice, è tutto qui. Non c’è altro nella vita, vivi di negazioni, puoi delinearti solo attraverso i “no”, sei composto di incertezze, di forse. La vita esiste, è un anelito potente, e immensa e soverchiante. È come il mare, scarno, allucinato, avvolgente.

Ma tu non puoi farne parte.

Puoi solo amarla e guardarla, da lontano.

Sei l’uomo sulla spiaggia.

Ne sei escluso, sei sempre stato a bordo campo a desiderare con un tormento esasperato l’esistenza, e quello sarà sempre il tuo posto.

Devi accettare di essere uno spettatore impotente.

 

«Cazzo. C’ho fame Dave, andiamo a comprare un panino. Sto morendo»

Per quella sera avevano finito, l’ultimo cliente era andato via da poco e non sarebbe più passato nessuno a cercarli, oltretutto aveva freddo.

«Allora la conosci…» bofonchiò imperterrito Davide «E comunque di un panino non me ne faccio niente, parola mia che svuoto le scorte del primo bar che trovo!»

Rotolò giù dalla panca con una goffaggine al limite del sopportabile, cadde a terra carponi e si risollevò sulle gambe magre, instabili. Con nonchalance si ripulì le ginocchia dalla polvere e si stiracchiò. Demian osservò tutto il procedimento con la solita perplessità che lo muoveva verso Davide.

«Me la presenti?» tentò di nuovo il punk dalla cresta afflosciata.

 

Ma cazzo, è una fissazione!

 

«È la mia ragazza» mentì «Guardala e ti cavo gli occhi»

Davide s’irrigidì, strabuzzò gli occhi arrossati dal fumo «Hai una ragazza?» esclamò con tale meraviglia che Demian se ne sentì irritato.

«Qualcosa in contrario? Devo rendere conto anche di questo?»

A tredici anni era stato cieco, sciocco, ingenuo.

Ora riusciva a vedere la trappola, la prigionia di quell’eccessiva libertà. Ora sapeva cosa Nico avesse desiderato da lui fin dall’inizio, aveva imparato che il disinteresse non esisteva. Nicolas voleva solo un braccio destro, un affidabile, fedele braccio destro, cresciuto e istruito nella sua ombra.

Voleva qualcuno di cui potersi fidare ciecamente.

 

E da stupido ragazzino, io mi sono servito su un piatto d’argento

 

«È per questo che sei sparito nell’ultimo periodo? Dovresti dirlo a Nico, sai?»

 

Certo, non vedo l’ora di condividere tutti i dettagli dei cazzi miei

 

«Vita privata ti dice niente?» borbottò avviandosi lungo la stradina acciottolata con quel disastro ambulante che quasi lo seguiva trotterellando, euforico per le sostanze assunte.

«Fa’ come ti pare, ma si incazzerà se saprà che non fai il tuo dovere per una ragazza. Non hai venduto granché questo mese, no? Rischi di non riuscire a pagarlo»

In silenzio si passò una mano sul viso, sfregò bruscamente la pelle e intrecciò le dita ai capelli, in un moto di disperazione.

 

Sarà un idiota, ma ha ragione. Mi toccherà fare qualche serata in discoteca per smerciare la roba il prima possibile, o con il cazzo che copro questo mese.

 

Il problema delle serate in discoteca era che finivano sempre male. Gli bastava ripensare alla sera precedente per tirare le somme del fallimento. Era stato così ubriaco che quando Dave aveva fatto partire la macchina di uno dei tizi con cui Alex stava litigando, Demian non se ne era reso conto. Certo, non fino a quando Nico non si era scontrato contro un muretto sfondando il muso dell’auto e facendogli tirare una testata fortissima al cruscotto. La rissa che ne era seguita con gli amici del proprietario era stata la conseguenza più prevedibile, ma erano ubriachi quanto loro e la situazione era drasticamente degenerata in un vero bagno di sangue, con una bottiglia rotta di contorno e qualche osso non più integro.

 

No, non posso sopportare due serate consecutive così, sono troppo anche per me

 

«Andiamo a casa di Nico, sono stanco morto» tagliò corto.

 

Ai soldi ci penserò domani

Si erano fermati a fare scorte di viveri prima di avviarsi nel buco che Nicolas osava definire appartamento: un’abitazione abusiva ai piedi di una palazzina di periferia, senza portinaio, l’ascensore rotto e una piccola scalinata interrata che conduceva all’ingresso di casa sua, separato da quello ufficiale. Cinque piani di appartamenti di cemento che ricordavano una scatola informe e degradata. Saltando i gradini a due a due Demian aprì la porticina che rispose con un cigolio sommesso.

Non riusciva a smettere di pensare a Nico, al passato, alla sua momentanea situazione, al debito.

 

La verità è che sono già fottuto. Devo compiere sedici anni e sono già fottuto, Nicolas ha incastrato anche me, sono più fregato di questa manica di drogati.

 

E la sua fregatura era banalmente l’affetto, Nico lo aveva incastrato con l’affetto. Anche con la consapevolezza di essere stato usato, Demian non poteva esimersi dal volergli bene, la sua parte più irrazionale continuava a vedere in Nicolas la fuga, la mano protesa in un aiuto, uno scudo dal mondo. Era ciò che era perché Nicolas gli aveva coperto le spalle.

 

E quindi eccola, la verità, mediocre e ovvia. Gli sono più fedele di chiunque altro, proprio come aveva previsto. Farei qualunque cosa per lui, più di chiunque altro. Se mi chiedesse di sbarazzarmi di un corpo, lo farei. Per lui lo farei.

 

La sua era pura gratitudine, autentica, perché in fondo Nicolas, l’incarnazione del diavolo, era stato l’unico a dargli un posto a cui poter fare ritorno.

                                                                                                             

  
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