Gente mia, anche questo
mappazzone è finito. L’episodio è concluso in sé, è vero, ma
nulla vieta di farne l’inizio di una long, appena l’ispirazione
si degnerà di assistermi.
Ringrazio
moltissimo tutti quelli che mi hanno seguito e mi hanno fatto sapere
il loro parere.
Terza
parte
Fratello
Reinhardt ritirò la testa fra le spalle sotto una raffica di vento
particolarmente violenta, carica di un nevischio che pungeva come una
manciata di aghi.
Si
strinse al collo la pesante cappa di montone.
Quando
il drappiere gliel'aveva consegnata, sulle prime era rimasto stupito:
né a Starkenberg né in Italia aveva mai avuto bisogno di indumenti
del genere, e sulle prime era stato quasi tentato di rifiutarla,
perché indossata sopra il manto bianco dell'Ordine era brutta da
vedere, ma soprattutto intralciava nei movimenti.
Per
fortuna come al solito era arrivato fratello Ulrich, a soccorrerlo
con la sua maggiore esperienza di quei luoghi, e lui l'aveva
accettata.
Di
nuovo si piegò per evitare una sventagliata di nevischio ghiacciato.
Se
si guardava intorno, non riusciva quasi a riconoscere le campagne che
aveva visto appena giunto in Livonia: non c'era più nulla del rosso,
del porpora, dell'oro che l'avevano accolto al suo arrivo. Ora c'era
solo bianco ovunque, tanto che riusciva difficile credere che in
quelle lande vi fosse mai stato qualcosa di diverso da ghiaccio e
neve.
“Freddo,
eh?” gli disse fratello Ulrich, che cavalcava al suo fianco avvolto
nel mantello di montone come chi è abituato a portarlo da una vita.
“Già,”
brontolò Reinhardt.
“Sei
fortunato, non è neanche uno degli inverni più rigidi.”
“Stai
scherzando?” protestò l’altro, al solito piegandosi per offrire
la minore superficie possibile al vento ghiacciato.
“Un
anno venne un tale freddo che nella foresta trovammo un cervo
maschio, con un palco di corna largo come due uomini a braccia aperte
uno di fianco all’altro, completamente congelato, duro come la
pietra.”
“Un
cervo?” ripeté incredulo fratello Reinhardt.
“Rendemmo
grazie a Sant’Uberto,” fu la risposta. “Scarseggiava la carne,
e con quello mangiammo per più di una settimana.”
Dopo
quell’aneddoto, per un po’ proseguirono in silenzio. La strada
che conduceva al piccolo villaggio con la chiesa diroccata era
coperta di neve e i cavalli avanzavano lenti, alzando le zampe con
precauzione. Il vento faceva schioccare le gualdrappe come bandiere.
Quando
l’agglomerato di capanne apparve in lontananza, più che altro come
una sagoma scura che emergeva dalla foschia, Reinhardt si voltò
verso il confratello e chiese: “Padre Emelrich vuole dire messa
anche con questo tempo?”
“Non
vedo perché non dovrebbe,” rispose l’altro. “La parola di Dio
si porta solo col bel tempo adesso?”
“No,
ma...”
“Cosa
vuoi che sia un po’ di neve? Ti ho detto che abbiamo visto di
peggio da queste parti.”
Reinhardt,
impegnato a proteggersi dall’ennesima sventagliata di nevischio
gelido, non rispose.
Il
villaggio sembrava più che mai abbandonato, e forse in parte lo era
anche. Alcune capanne erano buie, con lingue di neve che dalla porta
dilagavano all'interno. Le altre avevano gli ingressi serrati da
stuoie e tavole.
Le
poche impronte che si vedevano in giro erano mezze coperte dal manto
ghiacciato, segno che a prescindere dalla presenza dei cavalieri
tedeschi, la gente se ne stava ben tappata in casa. Le rovine della
chiesa erano più basse rispetto all'ultima volta che Reinhardt le
aveva viste, un muro mancava del tutto, la porta penzolante era stata
portata via, forse per farne legna da ardere.
A
ridosso dell'unico angolo più o meno intero, sotto una specie di
riparo costruito con assi e rami, baluginava un piccolo fuoco.
Il
cavaliere si volse stupito verso il confratello, che in risposta alzò
le spalle perplesso.
Osservò
con più attenzione e colse mani tremanti, parzialmente fasciate di
stracci, che si tendevano sulle esili fiamme.
Smontò
da cavallo. Fratello Ulrich fece per dirgli qualcosa, ma lui si
limitò a zittirlo con un cenno, e tenendo l'animale per le redini si
avvicinò incuriosito.
Si
chinò per scrutare all'interno del miserabile rifugio.
Rannicchiato
in un viluppo di cenci, c'era il Curo. Gli parve ancora più magro di
come lo ricordava, più pallido. Con gli stracci rattoppati che aveva
addosso tremava verga a verga, tuttavia non mancò di rivolgergli un
lieve sorriso. “Cavallo... forte,” gli ricordò.
Reinhardt
sorrise a sua volta. “Sì, il mio cavallo è molto forte,”
assentì.
Il
ragazzo annuì in un modo che sembrava imitare il suo. Di nuovo gli
rivolse un timido sorriso, poi però si rannicchiò scosso da un
brivido. Il cavaliere notò che la sua pelle, laddove era esposta al
gelo, aveva ormai il colore di quella dei morti.
D’impulso
si tolse dalle spalle il pesante mantello di montone e glielo tese.
A
quel movimento, il ragazzo scattò in piedi, poi arretrò e rimase a
guardarlo incerto, facendo saettare gli occhi da lui all'indumento.
“Prendilo,
è per te,” gli disse allora. Ripeté il gesto di porgerglielo,
provocando un suo nuovo, precipitoso arretramento. “Ulrich, puoi
digli che voglio darlo a lui?” chiese allora, senza distogliere lo
sguardo dal ragazzo tremante.
“Sei
matto?” giunse in risposta la voce del confratello. “Vuoi rifare
la pantomima dell'altra volta?”
Senza
girarsi, in tono duro fratello Reinhardt rispose: “No, questa volta
passerò a fil di spada chiunque osi percuotere questo giovane, o
portargli via ciò che è suo. E ora diglielo, per favore.”
L'altro
emise un sospiro come di esasperazione, quindi proferì qualcosa
nella lingua dei pagani. Il ragazzo alzò gli occhi su di lui come se
non si capacitasse di ciò che aveva appena udito. Egli ripeté la
frase.
Il
Curo volse allora lo sguardo al mantello. Non era certo un indumento
pregiato, ma era ampio e morbido, in grado di proteggere dal vento e
dalla neve. L'esterno era di pelle quasi grezza, ma l'interno era un
vello così folto che ci si poteva affondare dentro.
“Prendilo,”
ripeté fratello Reinhardt. Si protese a deporglielo fra le mani.
“Hai
freddo?” chiese fratello Ulrich. Il vento era così forte che il
cavaliere doveva alzare la voce per farsi sentire.
Fratello
Reinhardt strinse le labbra e cercando di mantenere la voce ferma
rispose: “No.”
Ulrich
fece una breve risata e replicò: “Ringrazia il Cielo che stiamo
per arrivare a Segewold, almeno riuscirò a metterti davanti al
camino prima che tu faccia la fine del cervo.” Fece una pausa,
quindi perplesso chiese: “Ma di' un po', cosa ti è venuto in mente
di dare al Curo il tuo mantello?”
“Aveva
freddo. Non aveva di che coprirsi, in quel tugurio miserabile.”
“Lo
sai, vero, che alla prima occasione ripagherà la tua generosità
cercando di tagliarti la gola?”
Reinhardt
scosse la testa. “Non credo che sia come dici tu.” Ingobbì le
spalle, cercando di proteggersi da una raffica particolarmente
violenta, quindi soggiunse: “Tu sei qui da più tempo di me e
conosci i pagani, ma io ho visto gli occhi di quel ragazzo, e gli
occhi non mentono. Vedrai che non farà mai nulla contro di noi.
Anzi, io penso che troverà il modo di sdebitarsi.”
“E
come vuoi che faccia a sdebitarsi quel povero pezzente? È il servo
di qualcuno, vive di avanzi, non è neppure padrone degli stracci che
ha addosso.”
Fratello
Reinhardt non replicò. Nonostante la camicia, il gambeson e la cotta
d'arme, senza il mantello di montone si sentiva gelare. Non più
trattenuto dal pesante indumento, il manto bianco dell'Ordine gli
svolazzava intorno furiosamente, spinto dalle raffiche. La cotta di
maglia era talmente gelata che vi si era formato sopra un sottile
strato di brina. Se per sbaglio la sfiorava con la pelle nuda,
sentiva una fitta di dolore. Pur protette dai guanti, le dita gli si
stavano intorpidendo.
“In
ogni caso, ne aveva più bisogno di me,” disse dopo un po'.
“Voglio
proprio vederti, quando spiegherai a fratello Manfred perché non hai
più il mantello di montone.”
“Gli
dirò che ho fatto un’opera di bene,” rispose Reinhardt piccato.
“Portare la parola di Dio ai pagani significa anche insegnare loro
cosa sono la carità e il sacrificio di sé, o sbaglio?”
Poi
diede di sprone al destriero distaccando il confratello di alcune
lunghezze.
“Digli
che te l’ha strappato un lupo,” consigliò fratello Ulrich alle
sue spalle, alzando la voce per coprire l’ululato del vento.
Fratello
Reinhardt fermò il destriero. “Ho fatto un’opera di bene,”
insisté serio quando l’altro l’ebbe raggiunto. “Non vedo
perché dovrei mentire.”
“Andiamo,
dai,” lo esortò l’altro per tutta risposta. “Se sto morendo di
freddo io, non oso immaginare te.”
Ormai
era pomeriggio inoltrato e tutti i cavalieri che non erano impegnati
in qualche compito erano nella sala comune, dove in un grande camino
ardeva un tronco di quercia. Nell’aria c’era il brusio di
conversazioni a bassa voce.
Un
paio di confratelli erano impegnati in una partita a scacchi; un
altro, nell’angolo accanto al camino, con la schiena appoggiata
alla parete, stava leggendo assorto.
Quando
fratello Ulrich e fratello Reinhardt si presentarono sulla soglia,
calò di colpo un gran silenzio, nel quale si udì distintamente il
rumore di un pezzo degli scacchi che cadeva e rotolava via.
Infine
fratello Waldemar si alzò lentamente in piedi e a passi misurati li
raggiunse. Dedicò a Reinhardt una lunga occhiata dal basso verso
l’alto, quindi aggrottò le sopracciglia e gli chiese: “Che hai
fatto, fratello? Dal colore della tua faccia si direbbe che ti
abbiano ripescato da un lago.”
“Sto
bene,” gli assicurò il più giovane per tutta risposta, ma non
riuscì a impedirsi di balbettare per il freddo.
L’altro
lo fissò critico. “Dov’è il tuo mantello di montone?” gli
chiese poi. “Non sarai uscito senza, spero.”
“Veramente
no, fratello.”
“E
allora dov’è finito, l’hai perso?”
Reinhardt
chinò appena la testa. “Ecco, io… ho compiuto un’opera di
carità.”
Di
nuovo fratello Waldemar aggrottò le sopracciglia. “Sarebbe a
dire?”
Intervenne
a quel punto fratello Ulrich, che mise una mano sulla spalla di
Reinhardt e disse: “Hai presente San Martino, Waldemar?”
Si
avvicinò anche fratello Friedrich, che stava seguendo lo scambio
incuriosito. “San Martino ha dato il suo mantello a un mendicante,”
considerò. “Tu hai fatto lo stesso?”
Reinhardt
annuì. Ritirò appena la testa fra le spalle aspettandosi una
rampogna, ma l’altro scoppiò in una risata. “Ora nell’Ordine
c’è un santo,” esclamò. “San Martino di Livonia!”
Altri
cavalieri, che nel frattempo si erano avvicinati, scoppiarono a loro
volta in una risata.
Si
fece avanti fratello Gunnar, che fissò tutti con occhi di fuoco e in
tono duro ammonì: “Questa è blasfemia!”
Nessuno
parve impressionarsi particolarmente. Fratello Mathias scosse anzi la
testa e disse: “È solo un modo per scherzare un po'.”
“È
blasfemia!” insisté il primo imperterrito. “Smettetela subito, o
dovrò informare il Komtur.”
“Così
si farà una risata anche lui,” rispose Mathias, che subito dopo si
rivolse a fratello Friedrich dicendo: “Va' a chiamare fratello
Manfred, Fritz. Digli che qui c'è San Martino di Livonia, se vuole
venire a rendergli omaggio.”
“Subito!”
il cavaliere si allontanò ridacchiando.
Sopraffatto
dall'ilarità generale, Reinhardt non sapeva bene se unirsi
all'allegria dei confratelli o protestare sdegnato. Si voltò verso
Ulrich come in cerca di ispirazione, ma il cavaliere fece a sua volta
una risata e rivolto agli altri disse: “E lo sapete quale sarà il
miracolo più grande del nostro San Martino di Livonia? Convincere il
drappiere a dargli un altro mantello!”
“Se
ci riesce sarà veramente un santo miracoloso,” replicò Siegfried.
“Per me, dopo un prodigio del genere arriverà la gente in
pellegrinaggio a Segewold!”
“I
pagani convertiti, magari!” rincarò Luitpold.
Fratello
Reinhardt chinò la testa senza dire nulla. Nonostante il piacevole
tepore del fuoco, decise che degli scherzi dei confratelli ne aveva
avuto abbastanza. “Io ho fatto un’opera di carità,” ripeté in
tono duro. Si diresse poi deciso verso la porta, e sulla soglia
incrociò il Komtur che gli disse: “E dunque abbiamo qui un nuovo
santo? San Martino di Livonia che regala mantelli ai pagani?”
✠
In
piedi sugli spalti, fratello Reinhardt lasciava vagare lo sguardo
sulle colline ancora coperte di neve. Il sole ormai s’era fatto più
caldo e dappertutto si udiva il gocciare e gorgogliare dei mille
rivoli che il disgelo produceva.
Si
allentò il mantello sul petto: la temperatura si era fatta più mite
e non richiedeva più di indossare un vello di montone; il gambeson,
la cotta d’arme e il manto bianco dell’Ordine erano più che
sufficienti.
Ripensò
al ragazzo: non l’aveva più rivisto, quindi non aveva modo di
sapere se fosse riuscito a sopravvivere a quella tormenta o no. Si
chiese se davvero stesse solo aspettando l’occasione buona per
approfittarsi della sua fiducia e colpirlo a tradimento, e ancora una
volta l’ipotesi gli parve inverosimile.
Guardò
di nuovo oltre la merlatura: cielo azzurro, senza una nuvola. Come
aveva imparato a riconoscere l’odore della neve quando era giunto
in Livonia, così ora coglieva nell’aria quello della primavera in
arrivo: un misto di limo, erba giovane e resina dei boschi.
Passò
in volo un trampoliere bianco e grigio. I rami ancora spogli delle
betulle ondeggiarono appena, spinti da un refolo d’aria che sapeva
di fumo e cucina.
Il
cavaliere si voltò verso il cortile. Sulla soglia di un magazzino
c’era una donna con un neonato in braccio, che con la mano libera
rimestava una pentola appesa su un fuoco improvvisato e intanto
diceva qualcosa a due bambini intenti a rincorrersi. Un vecchio
venerabile, con la barba bianca che gli arrivava fino al petto,
sedeva su una panca a lato della porta, le mani poggiate una
sull’altra sul pomo del bastone. Di un’altra donna si coglieva
nel silenzio il pianto sommesso.
Erano
arrivati poco prima dell’alba. Le sentinelle avevano visto delle
fiaccole che erravano sulla pianura come fuochi fatui e avevano dato
l’allarme, pensando che fossero i Samogizi che tentavano un
attacco. Solo dopo avevano capito che in realtà era un gruppo di
contadini in fuga da una fattoria distrutta.
Reinhardt
abbandonò gli spalti e scese nel cortile. In un angolo un po’
discosto, il Komtur stava parlando con un uomo di circa trent’anni,
biondo, con un braccio al collo. Riconobbe sul suo volto segnato
l’espressione tesa di chi è appena sfuggito a qualcosa di
orribile.
Si
avvicinò incuriosito e sentì l’uomo dire: “Sono arrivati al
calare della notte. Ce ne siamo accorti quando la casa era già in
fiamme.”
Fratello
Manfred annuì grave.
“Hanno
portato via gli animali, rubato il grano,” proseguì l’uomo, “e
poi...” dovette interrompersi.
Il
Komtur gli fece cenno che aveva udito abbastanza. Gli posò una mano
sulla spalla, ma l’uomo balbettò: “Helga...” La voce era
incrinata dal pianto. “I bambini...”
“Faremo
dire una messa per loro,” gli assicurò il cavaliere.
“Sono
riuscito a salvare solo mio padre, mia sorella e mia cognata coi
figli. Gli altri sono tutti morti.”
“Quant’è
vero Dio, li vendicheremo,” promise il Komtur.
In
quel momento si udirono le sentinelle dare una voce. Reinhardt corse
verso gli spalti. “Cosa c’è?” chiese.
Dall’alto,
un soldato gli rispose: “Sta arrivando un uomo a cavallo.”
“Un
cavaliere?”
La
sentinella diede un altro sguardo all’esterno, quindi rispose:
“Monta a pelo, sta galoppando come se avesse il diavolo alle
calcagna.”
A
quelle parole, Reinhardt si voltò verso il Komtur, che in risposta
ordinò: “Aprite la porta.”
Quello
che entrò, in groppa a un cavallo schiumante e letteralmente
impazzito di paura, era a malapena un ragazzo. Vestiva abiti da
contadino ed era pallido come un morto. Aveva una mano serrata su un
ciuffo di criniera, mentre l’altra stringeva quel che restava di
redini da tiro scorciate con mezzi di fortuna.
“Per
amor di Dio, aiutatemi!” esalò non appena vide Reinhardt farglisi
incontro. Fece per scendere da cavallo, ma le gambe non lo ressero e
si accasciò al suolo tremante. “Per l’amor di Dio,” ripeté.
Grosse lacrime cominciarono a scendergli lungo le guance.
“Cosa
c’è, sei ferito?” gli chiese il cavaliere, chinandosi accanto a
lui.
Il
ragazzo lo fissò con occhi che il terrore rendeva enormi. “Hanno
ucciso tutti,” balbettò. “Tutti. Tutti morti.” Il pianto
divenne un singhiozzare convulso.
Rienhardt
lo prese per le spalle. “Chi
ha ucciso tutti?” gli chiese, anche se immaginava già quello che
il ragazzo gli avrebbe risposto.
Nella
sala comune il clima era cupo. Nonostante le ampie finestre fossero
attraversate dal sole del primo pomeriggio, l’aria sembrava aver
conservato il gelo dell’inverno.
Fratello
Reinhardt sedette su una delle panche che correvano lungo la parete.
Per una volta era solo, perché fratello Ulrich era impegnato nella
riunione del Capitolo assieme ai cavalieri con maggiore anzianità di
servizio e al Capitolo del castello di Treyden.
Fratello
Siegfried, che sedeva presso il lungo tavolo di quercia che
attraversava la sala, fece girare uno sguardo torvo e ringhiò:
“Prima la fattoria di Odo, poi Peltes. Adesso Heilige Magdalene,
Osterrade e Wulfsfelde. Le stanno distruggendo tutte.” Fece una
pausa, quindi aggiunse: “Dobbiamo forse aspettare che quei pagani
senza Dio radano al suolo anche l’ultima? Che uccidano tutti i
coloni tedeschi?”
Fratello
Luitpold rincarò la dose: “È necessario agire subito, i pagani
devono capire con chi hanno a che fare.”
“Pensi
che non lo sappiano?” lo rimbeccò fratello Mathias. “Proprio
perché sanno chi siamo e come combattiamo, se ne sono stati
tranquilli per tutto l’inverno e adesso che c’è il disgelo
vogliono spingerci ad agire.”
“E
quindi cosa dovremmo fare, secondo te?” lo provocò l’altro,
“Stare a guardare mentre quelli fanno ciò che vogliono? I
cavalieri teutonici, garanti di pace e ordine, lasceranno che quattro
pagani puzzolenti mettano a ferro e fuoco la Livonia?”
“Se
combattessimo adesso faremmo esattamente il loro gioco.”
“Ma
se non combattiamo, la nostra gente morirà, o nel migliore dei casi
perderà tutto quello che possiede.” Fratello Luitpold fece un
gesto iroso verso le finestre che davano sul cortile, come per
invitare il confratello ad affacciarvisi. “Li hai visti anche tu i
poveretti che si sono rifugiati qui: gente che si è vista uccidere i
figli o i genitori sotto gli occhi, che si è vista andare a fuoco la
casa che aveva costruito in anni di sacrifici. Cosa diremo a costoro,
che ci dispiace tanto ma c’è il disgelo?”
Fratello
Reinhardt seguiva quegli scambi in silenzio. Sentiva di trovarsi in
Livonia da troppo poco tempo per esprimere un parere sulla questione:
non aveva mai visto un disgelo da quelle parti, non conosceva ancora
l’ubicazione di tutte le fattorie. Una cosa però gli era chiara:
se i Samogizi erano tutti come quelli che aveva incontrato il suo
primo giorno a Segewold, non intervenire avrebbe significato
condannare a morte ogni colono dei dintorni.
Gli
tornò in mente quello che aveva visto presso la fattoria di Peltes e
dovette chiudere gli occhi mentre un brivido di orrore gli percorreva
le membra.
Di
nuovo prese la parola fratello Siegfried: “Se non interveniamo, la
rivolta si estenderà come il fuoco sulle stoppie.”
“Intervenire
adesso significa finire impantanati nel fango,” intervenne fratello
Friedrich.
“Ci
sono i soldati a piedi e i sergenti, e non è tutta palude. C'è
anche terreno solido.”
“Col
disgelo? Appena esci dalle strade battute è solo pantano.”
“E
loro come fanno? Anche loro hanno i cavalli, no?”
“Combattono
anche a piedi. E poi qui ci sono nati, e dove noi non vediamo altro
che fango, essi sanno trovare con facilità abbastanza terreno solido
per muoversi.”
“Io
dico che dobbiamo dare loro una lezione esemplare,” intervenne
fratello Luitpold. “Devono rimpiangere il momento in cui hanno
deciso di levare le armi contro l'Ordine.”
Fratello
Mathias stava per replicare quando la porta del capitolo si aprì e
sulla soglia comparve fratello Manfred.
Nella
sala calò immediatamente il silenzio, tutti volsero nella sua
direzione sguardi carichi di aspettativa.
✠
Reinhardt
lanciò un'occhiata alla fattoria: muri bianchi, tetto di paglia
rifatto da poco, recinti di legno, meli e susini carichi di gemme.
Una generale impressione di pulizia e ordine, di lavoro operoso che
dà i suoi frutti. In giro però non si vedeva nessuno, persino gli
animali da cortile dovevano essere stati chiusi da qualche parte.
Si
voltò verso Ulrich, che cavalcava al suo fianco, e gli chiese: “Tu
pensi che funzionerà?”
“Nella
zona sono rimaste solo due fattorie,” disse il confratello per
tutta risposta, “quindi attaccheranno o questa o l'altra. Qui ci
siamo noi, nell'altra quelli di Treyden.”
“E
se non attaccassero?”
“Avremmo
comunque ottenuto lo scopo di proteggere i contadini.”
Renhardt
non rispose. Gli era chiaro che un assalto in campo aperto non poteva
essere portato avanti in quella stagione, il terreno molle non
avrebbe retto il peso dei cavalli da guerra, pertanto era necessario
adeguarsi alle modalità di combattimento dei Samogizi: imboscate,
piccoli scontri, rapide ritirate. Più danni possibile nel minor
tempo possibile, con la differenza che laddove le fattorie non
potevano essere né abbandonate né spostate, i pagani avevano tutta
la foresta e tutte le paludi a loro disposizione, ed erano in grado
di far sorgere o scomparire rifugi sicuri nel breve arco di una
notte.
“Quindi
resteremo qui di guardia?” chiese.
Fratello
Ulrich annuì serio. “È il nostro dovere.”
“Per
quanto tempo?”
“Per
tutto il tempo che sarà necessario.”
Il
sole stava scomparendo dietro le alture quando cominciarono a suonare
i tamburi di guerra. Sulle colline che circondavano i campi, già
nere nella luce che andava scemando, comparivano e scomparivano dei
bagliori, e roche grida si soprapponevano a un rullare cupo e
monotono, che sembrava far tremare la terra stessa.
Reinhardt
fece girare lo sguardo tutt'intorno. Con il manto bianco sulle
spalle, nel crepuscolo i confratelli sembravano fantasmi; la fattoria
era una silente sagoma scura contro il cielo color indaco.
“Attaccheranno?”
chiese.
Fratello
Ulrich fissò a sua volta le alture, quindi rispose: “Non è detto,
può anche darsi che vadano avanti così tutta la notte per
snervarci. Poi magari attaccheranno all'alba, o non attaccheranno
affatto e domani sera ricominceranno con i tamburi e le urla.”
Scosse la testa con un sospiro. “Questa gente è imprevedibile.”
Di
nuovo Reinhardt fece girare lo sguardo sulla mole sinistra delle
colline. “Non potremmo andare a cercarli?” propose.
“Col
buio, in mezzo agli alberi? Impossibile. L'importante è mantenere la
calma, i pagani non si avvicineranno se noi siamo qui.” Fece una
pausa, quindi in tono vagamente rassicurante soggiunse: “E lo sanno
che siamo qui, i manti bianchi li vedono anche al buio.”
L'altro
si limitò ad annuire, ma più passava il tempo, più si faceva
strada in lui la consapevolezza che le cose non fossero affatto come
le descriveva fratello Ulrich. Proprio dietro la casa c'erano le
pendici di una collina, ed era da lì che provenivano i clamori più
forti. I suoni erano sfrontati, incalzanti, carichi di una ferocia
primordiale. Come già aveva notato in occasione della battaglia
campale di pochi mesi prima, sembrava la voce della terra stessa,
degli alberi, dei torrenti che rombando si riversavano a valle.
Passarono
le ore, e mentre la notte avanzava e si faceva più cupa e fredda, il
suono dei tamburi, sempre più intenso e profondo, continuava a far
vibrare l’aria e il suolo.
A
un tratto, a Reinhardt parve di vedere nuovi e più vividi bagliori
brillare nel fianco nero della collina.
“Ulrich...”
cominciò, ma non fece in tempo a finire la frase. L'oscurità fu
squarciata da un improvviso fulgore aranciato e quella che sembrava
un'enorme palla di fuoco scese rimbalzando lungo le pendici della
collina.
“Balle
di paglia incendiate!” udì gridare alle sue spalle.
Il
globo fiammeggiante nel frattempo aveva raggiunto la casa. Si abbatté
sul tetto e vi appiccò il fuoco, che prese ad ardere con violenza.
Assieme a quello della paglia bruciata, nell'aria c'era odore di
resina e catrame.
Si
udirono qua e là dei richiami, il nitrito di qualche cavallo.
Reinhardt vide passare un confratello già in sella. “Che cosa
succede?” esclamò.
“Un'imboscata!”
rispose qualcuno.
Altre
palle di fuoco arrivarono, rimbalzando lungo le pendici della
collina. Un covone di fieno si incendiò e prese ad ardere come una
torcia.
Nella
luce sanguigna, Reinhardt vide fratello Ulrich montare in groppa al
destriero. “Indietro!” lo sentì urlare, “state indietro!”
Passò
fratello Friedrich a cavallo. L'animale fu colpito in pieno da una
balla incendiata, la gualdrappa prese fuoco ed esso si impennò pazzo
di terrore, nitrendo e schiumando, per poi lanciarsi in un galoppo
sfrenato. Più correva, più ovviamente il fuoco prendeva vigore, e a
nulla valevano i tentativi del cavaliere di ricondurlo
all'obbedienza.
Sotto
lo sguardo inorridito di Reinhardt il confratello, impotente ad
aiutare l'animale, si lasciò cadere di sella. Il destriero fuggì
nitrendo fino a che non venne inghiottito dal buio.
La
voce di Ulrich lo riscosse: “Indietro!”
Abbandonarono
la fattoria, che ormai ardeva a fiamma chiara illuminando quasi a
giorno i dintorni, e per sottrarsi ai proiettili incendiati
arretrarono verso una spianata ancora coperta delle ultime nevi.
Appena
fuori dalla zona battuta, Reinhardt sentì il cavallo affondare nella
mota fino ai nodelli. “Ulrich!” esclamò preoccupato. Ragionò in
un lampo che quella grande spianata fra le colline era come un catino
naturale, che accoglieva tutta l'acqua di disgelo proveniente dalle
alture.
“Non
ti fermare!” gli raccomandò l'altro. Una balla incendiata passò
fra loro spargendo nugoli di scintille, quindi scomparve alle loro
spalle ed esaurì la propria corsa sfrigolando in una pozza fangosa.
“Ulrich,
ci stanno spingendo nel pantano!”
“O
questo o bruciare vivi, scegli tu!”
Le
urla di guerra si fecero incalzanti mentre le scie di fuoco delle
frecce incendiarie tagliavano l'oscurità. Un cavallo emise un
nitrito di dolore, qualcuno imprecò. I cavalieri arretrarono
ulteriormente, piantandosi man mano in un acquitrino che sembrava non
avere fondo. Impastate di fango, le gualdrappe si avviluppavano
intorno alle zampe dei cavalli, si impigliavano nei rami morti
impedendo loro ulteriormente i movimenti.
Una
salva di frecce passò sibilando. Si udì un grido di dolore, e
subito dopo il rumore di un corpo che cadeva. Un cavallo nitrì, si
udì il risucchio acquoso delle zampe che frenetiche cercavano di
liberasi dal pantano.
Così
come erano cominciati, i clamori cessarono bruscamente e nel buio non
si udirono altro che il tintinnio lieve delle cotte di maglia e lo
stronfiare di qualche destriero nervoso.
La
sensazione non era quella di solitudine, tuttavia. Vi era anzi
l'angosciosa consapevolezza che tutt'intorno vi fossero presenze
silenti ma attente, malevole, che non staccavano loro gli occhi di
dosso.
“Chi
è caduto?” chiese una voce nel buio.
“Zitto!”
intervenne brusca una seconda voce.
Un
cavallo emise un basso nitrito, si udì il pesticciare degli zoccoli
nella mota. Nell'oscurità appena rischiarata da qualche stella, si
udì la domanda: “Dove sono?”
Come
in risposta a essa, un dardo sibilò. Si udì un urlo di dolore.
“Fratello
Siegfried!” esclamò Ulrich. “Sei ferito?”
Ma
la risposta non fece in tempo a giungere, perché una nuova salva di
frecce li investì. Si udirono urla di dolore, un cavallo rovinò a
terra con un lungo gemito. Gli altri arretrarono, affondando
ulteriormente nel fango.
Reinhardt
vide una sagoma bianca arrancare, percepì il tinnire di una cotta di
maglia. “Qui, aggrappati al mio cavallo,” disse, senza nemmeno
sapere chi fosse il cavaliere che era rimasto appiedato.
“Grazie,”
ansò fratello Waldemar.
“Dov'è
Siegfried?”
“Non
lo so, non si vede niente.” Poi, dopo una pausa: “Non so come
facciano a vedere, quei pagani senza Dio.”
“Vedono
i mantelli bianchi,” replicò Reinhardt. Spronò il cavallo, che
prese ad avanzare faticosamente, con le zampe piantate nel pantano.
Al suo fianco, aggrappato all'arcione, Waldemar faceva del suo meglio
per non inciampare. “Quei maledetti non si avvicinano,” ringhiò,
“se ne stanno al sicuro e intanto ci massacrano di frecce.”
Arrivarono
altri proietti. D'un tratto, una fitta atroce strappò a Reinhardt un
gemito di dolore e lo obbligò ad accasciarsi sulla sella.
“Che
succede?” chiese preoccupato fratello Waldemar, ma il più giovane
non riusciva nemmeno a raccogliere il fiato sufficiente per
rispondergli. Si aggrappò alla criniera del cavallo mentre i clamori
della battaglia si trasformavano lentamente in un rombo indistinto,
come suoni percepiti attraverso l'acqua. Aveva la sensazione che nel
fianco gli fosse entrata una sbarra incandescente, che ad ogni
movimento gli straziava maggiormente le carni.
“Reinhardt!”
Il
cavaliere si riscosse a fatica, accorgendosi di avere una mano
serrata sull'arcione con tale forza che tutto il braccio gli si era
intorpidito.
“Reinhardt,
rispondi!”
Sentì
che il cavallo si stava muovendo. Ancora una volta cercò di
raccogliere il fiato per dire qualcosa, ma il dolore gli impediva
qualsiasi movimento. Nell'aria c'era odore di limo, sangue e sudore
di cavallo. Voci e nitriti risuonavano ovunque, ma gli arrivavano
stranamente ovattati...
Reinhardt
sbatté gli occhi. Cercò di deglutire, ma aveva la gola talmente
secca che gli sembrava di aver inghiottito un pugno di sabbia.
Tutt'intorno
c'era un vago chiarore, più vivido a oriente. La superficie della
palude, costellata di erbe e alberi morti, era coperta da uno strato
di nebbia che pur nella scarsa luce sembrava emanare una debole
fosforescenza. Si udivano solo gli innumerevoli rumori delle creature
selvatiche: frinire, gracidare, il lontano lamento di un gufo.
“Che
cosa...” mormorò con voce appena percettibile.
“Non
parlare, hai una freccia nel fianco.”
“Io...”
“Zitto.
È già un miracolo che tu non sia caduto dal cavallo.” Ci fu una
pausa, poi fratello Waldemar proseguì: “Se tu fossi caduto, adesso
saresti morto.”
“Non
che questo rischio sia scongiurato,” intervenne qualcun altro in
tono cupo.
A
Reinhardt parve di riconoscere la voce. “Ulrich?” mormorò.
“Dà
retta a Waldemar, non parlare,” fu la risposta, ma Reinhardt
insisté: “Dove siamo?”
“Nel
mezzo di questo schifoso pantano,” brontolò Ulrich. “Abbiamo
perso parecchia gente, ammazzati dai pagani o affogati, e molti altri
sono feriti o hanno perso i cavalli. Quelli là stanno aspettando che
crolliamo dalla fatica per venire a finirci.”
Reinhardt
si guardò intorno: a perdita d’occhio, solo una pianura costellata
di piante marcescenti. Al suolo vi era un fango tenace, gelido, che
sembrava avvinghiarsi alle zampe dei cavalli come se avesse voluto
risucchiare le bestie fino al centro della terra. Per quanto lo
sguardo poteva spaziare, non si vedeva nulla che suggerisse una
presenza umana: né case, né strade, né campi coltivati.
“Dove
siamo?” ripeté a fatica.
“All’inferno,”
brontolò fratello Siegfried. È tutta la notte che quegli schifosi
ci spingono verso l'interno della palude.” Fece una pausa che
utilizzò per far scorrere lo sguardo sulla desolazione che li
circondava, quindi soggiunse: “Mi chiedo cosa aspettino a finirci.”
“A
tentare
di finirci,” lo corresse fratello Ulrich.
Come
in risposta a quella muta domanda, in lontananza cominciarono a
rullare i tamburi di guerra.
I
cavalieri si scambiarono muti sguardi. Nessuno di loro ormai era
illeso, alcuni procedevano a piedi, arrancando in un'acqua fangosa
che nel migliore dei casi arrivava fin sopra il ginocchio. Presto si
sarebbero trovati per l'ennesima volta a far da bersaglio a frecce
scagliate da lontano, senza neppure la possibilità di difendersi.
“E
sapete cosa succede a chi viene preso vivo,” disse fratello
Waldemar in tono ammonitore.
La
frase fu seguita da un consapevole silenzio.
Cominciarono
i canti di guerra, anche se nella nebbia non si vedeva ancora
nessuno.
Reinhardt
strinse gli occhi, cercando di mantenere una lucidità che sempre più
si ostinava a sfuggirgli. Il dolore al fianco era un pulsare sordo,
aveva freddo e si sentiva la gola in fiamme. Vide una figura esile
uscire dalla nebbia e muoversi sicura nella loro direzione. Un raggio
del sole nascente la illuminò, facendo brillare una zazzera
scomposta di capelli biondi, ed egli ebbe di colpo l’impressione di
trovarsi sotto la cupola di San Marco, con i mosaici d’oro che
brillavano così tanto da fargli male agli occhi.
Si
passò una mano sulla fronte, vacillò e sentì qualcuno afferrarlo.
Fratello Ulrich disse: “È il ragazzo del mantello. Guarda, ce l'ha
ancora addosso.”
“Non
fategli del male,” riuscì a balbettare Reinhardt, con una voce
così fioca che quasi si perse nel rullo incalzante dei tamburi.
Il
ragazzo si fermò di fronte a lui. Gli rivolse un lungo sguardo
carico di consapevolezza, quindi allungò una mano e prese le redini
del suo destriero. “Cavallo… vieni,” disse in tono gentile.
“Vieni. Io ti aiuto.”
L’esausto
animale, spaventato, schiumante, incrostato di fango da capo a piedi,
sotto la sua sollecitazione mosse un cauto passo.
“Vieni,”
ripeté il ragazzo.
Aggrappato
all’arcione, Reinhardt sussultava di dolore ogni volta che il
ragazzo convinceva il suo cavallo a fare un passo. Dopo i primi
attimi aveva dovuto smettere di guardarlo, perché i raggi del sole
sui suoi capelli trasfiguravano nell’oro dei mosaici di San Marco e
la cosa lo disorientava così tanto da dargli una specie di
vertigine.
Abbassò
lo sguardo sul proprio fianco, nel quale era ancora conficcata la
freccia. Strinse gli occhi mentre l’immagine perdeva nitidezza e
udì la voce del ragazzo che premurosamente gli assicurava: “Presto
siamo arrivati.”
La
frase suonò come un presagio. Presto sarebbe morto? Guardò intorno
a sé: annebbiati, vaghi come fantasmi, c'erano i suoi confratelli.
Si chiese se fossero già ombre, se quello che stava conducendo il
suo cavallo per le redini fosse il Curo cui aveva donato il mantello
o magari qualche Santo, uscito dal paradiso per accompagnarlo nel suo
ultimo viaggio.
“Sia
lodato Dio!” disse a un tratto qualcuno al suo fianco. Reinhardt si
riscosse appena dal torpore in cui era scivolato e si accorse che era
ricomparso il rumore degli zoccoli sul terreno solido.
Quel
suono, così familiare, rassicurante, gli trasmise una sensazione di
calore che quasi riuscì ad alleviare il gelo profondo che lo
attanagliava.
“È
bello,” mormorò.
Qualcuno,
forse fratello Ulrich, gli chiese: “Che cosa è bello, Reinhardt?”
“Questo
posto... ” Poi il buio
l'avvolse.
✠
L'ultima
neve si era sciolta da poco, le betulle cominciavano a mettere le
foglie. Dopo la luce cupa dell'inverno, che aveva stemperato ogni
colore in un soffuso alternarsi di grigio e bianco, il sole
primaverile conferiva al castello di Segewold un nitore adamantino.
La
fortezza si ergeva superba; investite dai raggi dorati, le bandiere
dell'Ordine splendevano come metallo polito.
Fratello
Reinhardt tirò le redini e per un po' rimase a contemplarla assorto,
mentre un refolo di vento gli agitava appena le falde del mantello e
scompigliava la criniera corvina del suo destriero.
Fratello
Ulrich lo raggiunse. “Perché ti sei fermato?” gli chiese. Si
guardò intorno con l'aria di cercare eventuali ostacoli.
Il
primo alzò le spalle. Inspirò a occhi socchiusi, ancora una volta
riconoscendo e catalogando tutti gli odori di cui l'aria della
Livonia era carica: resina, boschi, un lontano sentore di fumo di
legna, l'aroma dolce del miele. Ferro e cuoio ingrassato.
Di
nuovo fissò il castello, e i mosaici d'oro di Venezia gli parvero
pacchiana ostentazione, paragonati al marziale rigore di quel
poderoso edificio.
“Guardavo,”
rispose semplicemente, quindi mise il cavallo al passo e si diresse
verso il ponte di legno che conduceva alla porta.
Lo
superò beandosi del rumore sordo e ritmico degli zoccoli sul rovere,
attraversò il barbacane ed entrò nel cortile.
Un
ragazzo gli corse incontro con tale impeto che il suo nervoso
destriero mise lo orecchie indietro e arretrò di un paio di passi,
rischiando di finire contro quello di fratello Ulrich.
“Sta'
attento,” gli raccomandò questi, facendo spostare di lato il
proprio cavallo.
Reinhardt
smontò di sella. “Non così in fretta, Martin,” disse in tono di
affettuoso rimprovero, “quante volte te lo devo ripetere?”
Il
ragazzo assunse un'espressione contrita. “Scusa, signore,” disse,
ma un attimo dopo la sua attenzione era nuovamente rivolta al
destriero.
Reinhardt
scosse appena la testa. Gli consegnò le redini e gli disse: “Dagli
da mangiare e striglialo bene.”
L'altro
sorrise come se il cavaliere gli avesse appena proposto di fare la
cosa più bella del mondo. “Sì, signore!” esclamò felice, poi
si allontanò rapido, conducendo con sé il cavallo.
Al
fianco del confratello, Ulrich lanciò un'occhiata al ragazzo, che
camminava a passo svelto parlando sommessamente al destriero, e
disse: “Un po' più in carne, con i capelli corti e vestito come un
cristiano quasi non si riconosce.”
Reinhardt
pensò alla prima volta che l'aveva visto: un ragnetto sparuto, con
gli occhi enormi e le giunture troppo grosse per le sue membra
sottili. “Adesso sta bene,” rispose.
Ulrich
di nuovo lo fissò fugace, poi chiese: “Ha rinunciato ai suoi
idoli?”
Fratello
Reinhardt alzò le spalle. “Non credo. Forse lo farà col tempo. Si
è lasciato battezzare, questo sì, ma più che altro per fare un
piacere a me.” Sorrise scuotendo appena la testa. “In quanto al
resto, credo continui a venerare il mio cavallo.”
“Se
non altro, ha buon occhio.”
I
due cavalieri si incamminarono fianco a fianco, i mantelli bianchi
che ondeggiavano appena, le cotte di maglia che tinnivano lievi.
Nel
cortile di Segewold ferveva l'attività: un fabbro stava battendo un
pezzo di metallo incandescente sull'incudine, e a ogni colpo nugoli
di scintille schizzavano via e finivano a rimbalzare sul selciato. Il
sellaio stava cucendo dei finimenti, una lunga fila di mezzi fratelli
stava portando sacchi ricolmi nel granaio. Dappertutto ordine,
pulizia, disciplina.
Intravidero
il ragazzo che strigliava con impegno il morello: cantava una canzone
nella sua lingua e di tanto in tanto si interrompeva per dire
qualcosa all'animale. Quando si accorse di loro alzò il braccio in
un gesto di saluto, poi tornò con entusiasmo al lavoro.
“Sai,”
disse fratello Ulrich con un sorriso, “io credo che in fondo San
Martino di Livonia un miracolo l'abbia compiuto davvero: far capire a
un pagano il valore di ciò che stiamo portando in questa terra.”
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