Erano
ormai passati quasi tre mesi da quando Sindy si trovava in
quell’ospedale e la
sua degenza stava giungendo al termine. Era perfettamente in grado di
camminare
e sostentarsi da sola, nonostante l’enorme foro nel suo
torace; sarebbe stata
in grado di cavarsela e, soprattutto, di sopravvivere. Nessuno se lo
sarebbe
mai aspettato: la pallottola l’aveva colpita in pieno petto
fuoriuscendo
dall’altra parte e quando raggiunse l’ospedale,
quella torrida giornata
d’estate, nessuno si aspettava che sopravvivesse
più di qualche ora. Invece
Sindy, contro ogni previsione, ce l’aveva fatta. I medici lo
considerarono un
autentico miracolo e quando si svegliò, quasi non credette
di essere scampata
alla morte per l’ennesima volta.
Pensò che nell’aldilà ci doveva essere
qualcuno
che godeva profondamente nel vederla soffrire, qualche diavolo che
desiderava
divertirsi ancora un po’, perché ciò
che aveva vissuto in venticinque anni di
vita evidentemente non era stato abbastanza.
«Sei
sicura di volerlo fare?». La voce del dottor Holm la
distrasse dai suoi pensieri,
riportandola alla realtà.
Sindy
fece un lieve cenno col capo, unendo le mani al ventre e volgendo
all’indietro
la testa, appoggiandola delicatamente al muro. Il medico aveva scelto
un’altra stanza
per la sua terapia, lontana dalle grida delle neomamme, che avrebbe
favorito adeguatamente
la sua tranquillità.
«Sai
cosa devi fare» la incoraggiò il medico,
accomodato su una sedia di fronte al
letto.
La
giovane respirò profondamente, serrando gli occhi, sentendo
la voce grave e cantilenante
del dottore carezzarle l’udito. Solamente per un breve
istante, desiderò non
riaprirli più.
«Ora
conterò da uno a cinque». Il suo corpo era
rilassato e le sue labbra si schiusero
un poco.
«Ora
hai dieci anni, Sindy». La ragazza mosse leggermente le
braccia, formando
inconsapevolmente un cerchio quasi perfettamente rotondo.
«Ci
sono io con te, prendi la mia mano… non sei sola».
Il dottor Holm si avvicinò
strisciando la sedia sul pavimento, intrecciando delicatamente le loro
dita,
sentendole bollenti sotto il suo tocco.
«Stai
disegnando qualcosa, Sindy» continuò,
«ma qualcuno ti interrompe, non è
così?».
La
ragazza fremette per un istante, muovendo leggermente le labbra.
«Qualcuno
ti sta interrompendo, non è vero Sindy?».
L’uomo esitò: «chi
è?».
«La
mia mamma» sospirò lei in un guaito. «Ti
ha interrotto la tua mamma?» ripeté il
dottor Holm stringendole la mano.
«No»
rispose lei in tono fermo, voltandosi nella sua direzione,
«sto disegnando la
mia mamma».
Un
limpido sorriso si dipinse sulle labbra della giovane.
«E
com’è la tua mamma?» la
incalzò l’ipnotista.
«Lei
non esiste» rispose in fretta Sindy, «ma nei miei
disegni è come me».
«Dev’essere
molto bella allora» commentò il medico, pur
conoscendo l’insofferenza della sua
paziente ai complimenti riguardanti la sua apparenza. «Ma
qualcuno ti
interrompe» continuò, tentando di spostare
l’attenzione sull’oggetto del suo
interesse.
«Sì»
rispose prontamente la ragazza, «lui mi interrompe sempre
quando disegno».
Sindy
strinse la mano del medico, mantenendo gli occhi chiusi. Un singhiozzo
sordo le
fuoriuscì dalla gola. «Io so cosa vuole».
Il
dottor Holm la incalzò, vedendola diventare più
irrequieta: «Che cosa vuole?».
«Non
voglio» disse Sindy in un sussurro.
La
sua mano tremava nella stretta dell’uomo.
«Ho
paura» mormorò la ragazza, lasciando scivolare una
lacrima solitaria su una
guancia. Poi, come in un cambio repentino di una scena teatrale, la sua
espressione addolorata divenne d’improvviso seria.
Sbatté la testa contro il muro
dietro al letto, stritolando la mano arrossata del medico.
«Io
ho deciso» sogghignò con un sorriso perfido sul
volto.
Il
dottor Holm sapeva bene che le fasi più delicate
dell’ipnosi sono l’induzione
del paziente e la fase post-ipnotica. Conosceva Sindy e sapeva che nel
suo stato
sarebbe stata completamente sincera.
«Cosa
hai deciso?» la incitò a continuare.
«
Lui non mi prenderà mai» affermò la
ragazza.
«Cosa
stai facendo ora?» proseguì incurante il medico,
la mano dolorante dalla forte
stretta.
«Sto
scappando» rispose Sindy, «nel bosco».
«È
buio» continuò, «tornerò
domani a prendere le fotografie e i disegni».
Non
era consapevole, nel suo stato, che le fotografie le avrebbe ritrovate
molto
tempo dopo, insieme agli scheletri degli altri bambini uccisi.
«Puoi
descrivere quell’uomo?» le chiese il medico,
cercando nuovamente di spostare
l’attenzione verso ciò che gli interessava sapere.
«Si
chiama Victor» mormorò la giovane, senza che il
medico glielo chiedesse, «un
nome orribile per un uomo così terrificante,
vero?» sogghignò.
«I
suoi occhi… sono piccoli. E le labbra»
continuò, «così sottili. Il viso
è lungo
come il corpo di un verme» terminò Sindy.
«Ha
qualche caratteristica particolare?».
Il
dottor Holm la sentì sussultare. «Una cicatrice,
proprio sotto il mento».
Poi
scoppiò in una risata dal tono malvagio.
«Vuoi
sapere una cosa?» bisbigliò la giovane con un
ghigno, «gliel’ho fatta io» rise.
«Tu?»
chiese il dottore, con un pizzico di stupore.
«Sì»
continuò lei, «l’ultima volta che mi
toccò sotto le mutandine».
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Si
era appena addormentata quando il medico entrò nella stanza,
svegliandola.
Sindy
spalancò gli occhi come reduce da un incubo, ma non si
mosse. Ogni atomo del
suo corpo sembrava come paralizzato dal rumore che il dottore aveva
inavvertitamente compiuto entrando nella camera.
Avevano
scelto di affidarle una stanza singola, pensando che potesse
eventualmente
infettare gli altri bambini, e avevano ragione: la vita di strada non
risparmia
nessuno.
Serrò
prepotentemente le palpebre, pensando a quell’uomo tanto
gentile che le aveva
porto la mano quella notte, offrendole il suo aiuto e portandola in
ospedale.
Un
brontolio provenne dal suo stomaco. Non metteva nulla sotto i denti da
giorni
ormai, ma non poteva mangiare finché i medici non avessero
ottenuto i risultati
delle analisi.
Decise
quindi di riposare, semmai ci fosse riuscita in quel frastuono
notturno: perlomeno
poteva nuovamente assaporare la morbidezza di un cuscino e di un
materasso su
cui poggiare la schiena.
Sentì
il medico sgattaiolare fuori dalla stanza.
«La
ragazzina è perfettamente in forma, il ché
è strano per qualcuno che ha vissuto
per mesi senza vero cibo e acqua».
L’udito
della bambina percepiva una voce ovattata, forse a causa della distanza
o forse
perché in procinto di assopirsi.
«C’è
solo una cosa che non capisco» continuò il medico.
«Il
suo imene è spezzato» lo sentì dire,
prima di essere finalmente accolta tra le
braccia di Morfeo.
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