Disclaimer:
I personaggi di Lady
Oscar non mi appartengono e sono proprietà esclusiva di
Ryoko Ikeda.
VIII
– 9 Aprile 1775
L’indomani
mattina mi attardai nei miei appartamenti oltre il dovuto, con il
chiaro
intento di eludere Hortence. Credo che anche lei non si aspettasse di
vedermi, sapeva
bene di avermi colpita e affondata. Sapevo che le sue parole non erano
state
mosse da malizia o cattiveria ma solo da profondo e sincero affetto per
me.
Eppure, anche se il suo intento era lungi dal ferirmi, le sue parole si
erano
dimostrate più taglienti di un rasoio, capaci di colpire nel
segno meglio di
una spada affilata che, con precisione chirurgica, va dritta al punto.
Aveva
letto il mio cuore come fosse per lei un libro aperto. La
verità raccontata con
tono assertivo che non lascia spazio a dubbi, incontrovertibile, mi
aveva fatto
desistere dal tentativo di obiettare alcunché.
Nuda.
Mi ero sentita nuda e vulnerabile, battuta. Così avevo
preferito assistere alla
sua partenza dal porto sicuro della mia camera, seminascosta delle
pesanti
tende che avevo avuto cura di non tirare nonostante il sole, seppure
timido,
fosse già sorto. Non potevo affrontare il suo sguardo
indagatore che avrebbe
cercato nel mio la muta risposta che si aspettava e che io non ero in
grado di
darle. Sapevo cosa avrebbe voluto per me, ed era in attesa di un segno
di
rassicurazione, una parola, un gesto, un cenno, uno sguardo che le
facesse
capire che le sue parole non erano state vane, che avrei trovato il
modo di
prendermi la felicità che meritavo. Mi spiace Hortence, non
ho potuto darti
questo conforto, proprio non ho potuto.
Avevo
osservato Gerome terminare di sistemare i tuoi bagagli sulla carrozza
che ti
attendeva nello spiazzo antistante il palazzo e ti avevo vista uscire,
accompagnata da Nanny che camminava al tuo fianco e da Andrè
che vi seguiva due
passi dietro. Nanny ti aveva preso le mani nelle sue mentre, con gli
occhi che
ho immaginato lucidi, ti bisbigliava chissà quali
raccomandazioni. Poi l’avevo
vista salutarti e frettolosamente rientrare in casa a passo svelto,
come se si
fosse ricordata di aver lasciato una pietanza incustodita sul fuoco.
Andrè
ti si era avvicinato per aiutarti a salire in carrozza e tu gli avevi
porto la
mano per facilitargli il compito, poi di scatto ti eri fermata e ti eri
girata
a guardarlo. Anche lui aveva fissato il suo sguardo nel tuo e senza
proferire
parola avevi allargato le braccia invitandolo in un abbraccio che mal
si
confaceva al tuo ruolo e al tuo rango, ma che parlava di una
complicità nata
una notte di cinque anni prima.
Lui
si era chinato appena il giusto perché il tuo viso arrivasse
sopra la sua
spalla. E’ a questo punto che mi ero accorta di aver
inavvertitamente scostato
un poco di più la tenda che mi offriva riparo, rischiando di
rivelare la mia
presenza. Eppure non avevo desistito e avevo indugiato sulle tue labbra
che
avevo colto distintamente muoversi e sussurrargli qualcosa
all’orecchio. La mia
mano si era aggrappa al tessuto della tenda a cercare un appiglio
perché avevo
sentito d’improvviso le gambe cedere. Paura. E’
paura quella che mi aveva
pervaso, che aveva paralizzato il mio corpo divenuto incapace di
rispondere
alla mia volontà. Cosa gli avevi detto Hortence? Non potevi
avergli rivelato il
mio cuore, non te lo avrei mai perdonato.
Come
in un muto richiamo, ho visto il tuo viso poggiato sulla sua spalla
volgersi
verso la mia finestra e trovarmi. E mi sono sentita di nuovo nuda e
vulnerabile
di fronte a te. Da quella distanza non avrei saputo dire se tu fossi in
grado
di leggere la paura che mi attanagliava, ma dev’essere stato
così perché,
quando il tuo sguardo aveva incontrato
il mio, era stato un sorriso rassicurante quello che mi
avevi rivolto e
un’impercettibile cenno del capo come a dirmi di stare
tranquilla, prima di sciogliere
l’abbraccio e salire in carrozza senza indugiare oltre.
Eri
già oltre il cancello della tenuta, eppure Andrè
era rimasto lì, immobile e mi
era sembrato di vedergli le mani chiudersi in pugni lungo i fianchi.
Cosa gli
avevi detto Hortence? Quando infine si era girato per tornare alle sue
mansioni
avrei voluto indugiare sul suo viso per riuscire a leggervi un
qualunque
indizio, ma sarebbe stato troppo pericoloso e avevo desistito,
abbandonando la
finestra per il letto sul quale mi ero lasciata sprofondare mollemente,
le
braccia allargate e le ginocchia a penzoloni. Mi sentivo esausta, nel
corpo e
nello spirito, la notte appena trascorsa non mi aveva regalato che
un’ora di
sonno disturbato. E non aveva portato consiglio.
Un
tuono in lontananza e lo svolazzare delle tende mosse da un refolo di
vento
freddo preannunciava un cambio repentino della giornata altrimenti
primaverile.
Non trascorse che qualche minuto e il temporale esplose in uno scroscio
d’acqua
improvviso che mi costrinse a chiudere la finestra in fretta e furia.
Da dietro
il vetro il panorama che quella stessa mattina restituiva un insieme
variegato
di colori brillanti ora era incorniciato da un cielo plumbeo e pareva
quello di
una giornata qualsiasi in pieno autunno. Lo interpretai come una
metafora
calzante della mutevolezza della vita, tutto può cambiare in
pochi istanti,
oramai ne sapevo più che qualcosa.
Decisi
di mancare ai miei doveri, avrei inviato un messo a Versaille ad
avvertire
della mia assenza per indisposizione. Era la prima volta che lo facevo,
che poi
non era esattamente una scusa, anche se l’indisposizione
d’animo dubito sia
contemplata dal regolamento militare.
Ero
a un bivio, e la decisione non poteva essere procrastinata oltre.
Dovevo fare
una scelta. Rosso o nero. Di
nuovo al punto di partenza.
Ripensai
alle uniche parole che avevo proferito la sera prima, a chiosare il
monologo di
Hortence.
Erano
uscite d’istinto, non ricordo nemmeno di averle pensate prima
di averle
pronunciate.
«Non
farò mai di lui il mio amante».
E
allora mi divenne chiaro ciò a Hortence era sfuggito: la mia
felicità non
poteva coincidere con la sua.
Cosa
avrei avuto da offrirgli? Una vita fatta di attimi rubati
nell’ombra e menzogne
inscenate sul palcoscenico della quotidianità. Lui che
nell’ombra - la mia
ombra - viveva da sempre, meritava altro, meritava di più.
Meritava di essere
amato alla luce del sole, non certo di nascondere i propri sentimenti
quasi
fosse un atto criminale. Che poi il quasi si sarebbe potuto
tranquillamente
omettere. Condannato a ricordarsi ogni giorno di essere il servo che
non poteva
ambire al cuore del padrone.
La
paura per la reazione di mio padre in realtà si inseriva in
un contesto più
ampio, nessuno avrebbe capito, nessuno ci avrebbe accettato per
ciò che siamo,
un uomo e una donna, tutti avrebbero giudicato ciò che noi
non abbiamo mai
sentito di essere, un padrone e un servo.
Triste.
Eppure vero.
Mi
risolsi a prendere l’unica strada che mi pareva possibile
avendo ben chiaro
che, una volta imboccata, non avrei più potuto tornare
indietro.
E
mi resi conto che fu proprio questo ad avermi fatto tentennare,
perché non si
trattava semplicemente di rinunciare a lui, ma di rinunciare a lui per
sempre.
Per sempre è una misura troppo grande persino per essere
concepita dalla mente
umana. La mia doveva essere una scelta senza ripensamenti.
Non
ci sarebbero stati vinti né vincitori fra il rosso
e il nero,
solo un compromesso incolore che avrebbe impedito al nero
di esultare e
al rosso di ardere liberamente.
Chiusi
il mio cuore in un cassetto a doppia mandata concedendo alle lacrime di
bagnarmi il viso mentre gettavo via la chiave.
Ti
avrei aiutato ad essere felice senza di me, avrei convinto me stessa di
poter
sopravvivere senza di te.
La
mia indole militare mi suggerì il bisogno di una strategia,
un piano che
riuscisse a distogliere il tuo cuore da me.
Fu
in questo preciso istante che il nome di Fersen fece capolino nella mia
mente:
farti credere di essere innamorata di un altro ti avrebbe fatto
desistere dal
continuare ad amarmi? Non sapevo quanto tempo ci sarebbe voluto, ma ho
creduto
di si, ho creduto che nessun sentimento potesse resistere troppo a
lungo se non
corrisposto, così aveva detto Therese a tua nonna. Sarebbe
dipeso tutto da me,
la mia recita avrebbe dovuto essere più che convincente.
Non
mi soffermai nemmeno a domandarmi perché io avessi pensato
proprio a Fersen.
Non ne avevo avuto bisogno, conoscevo già la risposta: il
suo cuore era già
irrimediabilmente di un’altra, niente poco di meno che la mia
regina, non avrei
corso il rischio di ingannare il cuore di un altro uomo.
Presi
un altro poco di tempo per ricompormi prima di presentarmi a Nanny
annunciandole la persistenza del mio mal di testa e chiedendole di
mandare un
messo a Versailles ad avvisare della mia assenza. Dopo essersi
accertata che
non avessi la febbre tastandomi la fronte, mi disse che mi avrebbe
preparato un
buon tè e me l’avrebbe fatto portare in camera,
dove mi rintanai in tutta
fretta, consapevole che il mio passo svelto si confaceva più
a un ladro che a
una persona indisposta. Ma nonostante la risoluzione presa, non volevo
rischiare di incontrarlo, non ancora per lo meno. Dopo
l’accaduto l’avevo visto
salutare mia sorella Hortence dalla distanza di sicurezza della mia
camera, ma
non ne avevo ancora incrociato lo sguardo e temevo il momento in cui
sarebbe
inevitabilmente accaduto. Non ero pronta a vedere di nuovo la delusione
e
quell’infinita tristezza nei suoi occhi, non volevo essere
divorata dal senso
di colpa più di quanto già non lo fossi.
Immersa
com’ero in questi pensieri mi accorsi solo
all’ultimo che qualcuno aveva
bussato alla porta e
ricordai il tè che
mi aveva promesso Nanny, del quale non avevo bisogno e men che mai
voglia.
Invitai ad
entrare con un piatto “avanti”, rimanendo seduta
schiena alla porta sul
divanetto antistante il camino, contemplando le fiamme morenti
terminare una ad
una la loro danza sensuale.
«Annette, sei tu?
Lascia pure il vassoio sul secretaire, e ringrazia
Nanny da parte mia».
Il
tintinnio della fine porcellana in equilibrio precario sul vassoio
sorretto da
mani evidentemente tremanti fu tutto ciò che udii. Nessun
cenno d’assenso,
nessuna parola, solo un silenzio assordante a rivelarmi chi fosse in
realtà la
persona alla mie spalle.
Pochi
passi decisi a fendere l’aria e mi fu davanti, chino a
ravvivare il fuoco nel
camino senza guardarmi.
«Non dovresti
lasciar spegnere il fuoco, la giornata si è fatta fredda.
La nonna mi ha detto che hai un brutto mal di testa ...» prima di
continuare si girò a cercare il mio sguardo rimanendo
accucciato di fronte a me
«niente che un po'
di riposo e una buona notte di
sonno non possa risolvere».
Ricordo
che, pur volendo, distogliere lo sguardo dal suo mi fu impossibile. Il
baluginare delle fiamme tornate ormai ad ardere alte alle sue spalle
screziava
i suoi riccioli neri di mille sfumature e il verde dei suoi occhi non
mi era
mai parso così intenso. Per un attimo fui di nuovo in quella
radura inchiodata
spalle a terra da quel verde pregno di passione. Durò lo
spazio di un respiro,
poi vi scorsi qualcosa di diverso, di nuovo. Determinazione fu
ciò che vidi. E
rabbia. Trattenuta. Cosa gli avevi detto Hortence? Anche lui aveva
compiuto una
scelta e sperai che andasse nella stessa direzione della mia: sperai
che si
fosse risolto a dimenticare, a dimenticarmi, a domare il suo cuore.
Provai sollievo
a quel pensiero, almeno finché, una mano già alla
porta, lui parlò di nuovo.
«Sono contento di
non averti dovuto accompagnare a Versaille oggi. Sai,
anche io non mi sento granché bene. Magari bastasse anche a
me una buona notte
di sonno e un po' di riposo per sentirmi meglio ...»
Quando mi
girai in direzione della porta, lui non c’era già
più. Fu il primo e ultimo
accenno al male che gli avevo fatto. Fu il primo di tutti i giorni a
venire in
cui io non riuscii più a dimenticarmene.
Angolo
dell’autrice:
Chi
non muore si rivede. Eravate arrivati fino al capitolo precedente.
Non merito i commenti splendidi che avete voluto lasciarmi. Non
c’è cosa che mi
infastidisca di più di una storia non portata a termine.
Tanto più che sono
scomparsa senza una spiegazione né un saluto. Mi dispiace.
Non pubblicherò mai
più nulla che non abbia già terminato di
scrivere. Non è onesto nei confronti
di chi investe parte del suo tempo a leggermi. Il racconto è
ora completo e
composto da 12 capitoli, ma avviso chi vorrà avventurarsi di
nuovo nella
lettura che ho dovuto rimaneggiare anche tutti i precedenti.
Un
saluto.
Veronica
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