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Autore: zappolo70    23/08/2019    7 recensioni
ATTENZIONE: storia già pubblicata fino al capitolo VII ora completata (12 capitoli). Si avvisa che TUTTI i capitoli sono stati rimaneggiati e sono stati aggiunti riferimenti temporali per aiutare a seguire più agevolmente il dispiegarsi della storia.
La storia propone un what if inusuale e grande come una casa. Una rilettura personale della storia di Oscar e Andrè che mantiene grossomodo l’ossatura della storia e l’evoluzione temporale, anche se non fedelmente per esigenze narrative, stravolgendone però l’interpretazione alla luce di un presupposto nuovo.
Buona lettura a chi vorrà cimentarsi.
Genere: Romantico, Sentimentale | Stato: completa
Tipo di coppia: Het | Personaggi: André Grandier, Oscar François de Jarjayes
Note: Lime, OOC, What if? | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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Disclaimer: I personaggi di Lady Oscar non mi appartengono e sono proprietà esclusiva di Ryoko Ikeda.

 

VIII – 9 Aprile 1775

L’indomani mattina mi attardai nei miei appartamenti oltre il dovuto, con il chiaro intento di eludere Hortence. Credo che anche lei non si aspettasse di vedermi, sapeva bene di avermi colpita e affondata. Sapevo che le sue parole non erano state mosse da malizia o cattiveria ma solo da profondo e sincero affetto per me. Eppure, anche se il suo intento era lungi dal ferirmi, le sue parole si erano dimostrate più taglienti di un rasoio, capaci di colpire nel segno meglio di una spada affilata che, con precisione chirurgica, va dritta al punto. Aveva letto il mio cuore come fosse per lei un libro aperto. La verità raccontata con tono assertivo che non lascia spazio a dubbi, incontrovertibile, mi aveva fatto desistere dal tentativo di obiettare alcunché.

Nuda. Mi ero sentita nuda e vulnerabile, battuta. Così avevo preferito assistere alla sua partenza dal porto sicuro della mia camera, seminascosta delle pesanti tende che avevo avuto cura di non tirare nonostante il sole, seppure timido, fosse già sorto. Non potevo affrontare il suo sguardo indagatore che avrebbe cercato nel mio la muta risposta che si aspettava e che io non ero in grado di darle. Sapevo cosa avrebbe voluto per me, ed era in attesa di un segno di rassicurazione, una parola, un gesto, un cenno, uno sguardo che le facesse capire che le sue parole non erano state vane, che avrei trovato il modo di prendermi la felicità che meritavo. Mi spiace Hortence, non ho potuto darti questo conforto, proprio non ho potuto.

Avevo osservato Gerome terminare di sistemare i tuoi bagagli sulla carrozza che ti attendeva nello spiazzo antistante il palazzo e ti avevo vista uscire, accompagnata da Nanny che camminava al tuo fianco e da Andrè che vi seguiva due passi dietro. Nanny ti aveva preso le mani nelle sue mentre, con gli occhi che ho immaginato lucidi, ti bisbigliava chissà quali raccomandazioni. Poi l’avevo vista salutarti e frettolosamente rientrare in casa a passo svelto, come se si fosse ricordata di aver lasciato una pietanza incustodita sul fuoco.

Andrè ti si era avvicinato per aiutarti a salire in carrozza e tu gli avevi porto la mano per facilitargli il compito, poi di scatto ti eri fermata e ti eri girata a guardarlo. Anche lui aveva fissato il suo sguardo nel tuo e senza proferire parola avevi allargato le braccia invitandolo in un abbraccio che mal si confaceva al tuo ruolo e al tuo rango, ma che parlava di una complicità nata una notte di cinque anni prima.

Lui si era chinato appena il giusto perché il tuo viso arrivasse sopra la sua spalla. E’ a questo punto che mi ero accorta di aver inavvertitamente scostato un poco di più la tenda che mi offriva riparo, rischiando di rivelare la mia presenza. Eppure non avevo desistito e avevo indugiato sulle tue labbra che avevo colto distintamente muoversi e sussurrargli qualcosa all’orecchio. La mia mano si era aggrappa al tessuto della tenda a cercare un appiglio perché avevo sentito d’improvviso le gambe cedere. Paura. E’ paura quella che mi aveva pervaso, che aveva paralizzato il mio corpo divenuto incapace di rispondere alla mia volontà. Cosa gli avevi detto Hortence? Non potevi avergli rivelato il mio cuore, non te lo avrei mai perdonato.

Come in un muto richiamo, ho visto il tuo viso poggiato sulla sua spalla volgersi verso la mia finestra e trovarmi. E mi sono sentita di nuovo nuda e vulnerabile di fronte a te. Da quella distanza non avrei saputo dire se tu fossi in grado di leggere la paura che mi attanagliava, ma dev’essere stato così perché, quando il tuo sguardo aveva incontrato  il mio, era stato un sorriso rassicurante quello che mi avevi rivolto e un’impercettibile cenno del capo come a dirmi di stare tranquilla, prima di sciogliere l’abbraccio e salire in carrozza senza indugiare oltre.

Eri già oltre il cancello della tenuta, eppure Andrè era rimasto lì, immobile e mi era sembrato di vedergli le mani chiudersi in pugni lungo i fianchi. Cosa gli avevi detto Hortence? Quando infine si era girato per tornare alle sue mansioni avrei voluto indugiare sul suo viso per riuscire a leggervi un qualunque indizio, ma sarebbe stato troppo pericoloso e avevo desistito, abbandonando la finestra per il letto sul quale mi ero lasciata sprofondare mollemente, le braccia allargate e le ginocchia a penzoloni. Mi sentivo esausta, nel corpo e nello spirito, la notte appena trascorsa non mi aveva regalato che un’ora di sonno disturbato. E non aveva portato consiglio.

Un tuono in lontananza e lo svolazzare delle tende mosse da un refolo di vento freddo preannunciava un cambio repentino della giornata altrimenti primaverile. Non trascorse che qualche minuto e il temporale esplose in uno scroscio d’acqua improvviso che mi costrinse a chiudere la finestra in fretta e furia. Da dietro il vetro il panorama che quella stessa mattina restituiva un insieme variegato di colori brillanti ora era incorniciato da un cielo plumbeo e pareva quello di una giornata qualsiasi in pieno autunno. Lo interpretai come una metafora calzante della mutevolezza della vita, tutto può cambiare in pochi istanti, oramai ne sapevo più che qualcosa.

Decisi di mancare ai miei doveri, avrei inviato un messo a Versaille ad avvertire della mia assenza per indisposizione. Era la prima volta che lo facevo, che poi non era esattamente una scusa, anche se l’indisposizione d’animo dubito sia contemplata dal regolamento militare.

Ero a un bivio, e la decisione non poteva essere procrastinata oltre. Dovevo fare una scelta. Rosso o nero. Di nuovo al punto di partenza.

Ripensai alle uniche parole che avevo proferito la sera prima, a chiosare il monologo di Hortence.

Erano uscite d’istinto, non ricordo nemmeno di averle pensate prima di averle pronunciate.

«Non farò mai di lui il mio amante».

E allora mi divenne chiaro ciò a Hortence era sfuggito: la mia felicità non poteva coincidere con la sua.

Cosa avrei avuto da offrirgli? Una vita fatta di attimi rubati nell’ombra e menzogne inscenate sul palcoscenico della quotidianità. Lui che nell’ombra - la mia ombra - viveva da sempre, meritava altro, meritava di più. Meritava di essere amato alla luce del sole, non certo di nascondere i propri sentimenti quasi fosse un atto criminale. Che poi il quasi si sarebbe potuto tranquillamente omettere. Condannato a ricordarsi ogni giorno di essere il servo che non poteva ambire al cuore del padrone.

La paura per la reazione di mio padre in realtà si inseriva in un contesto più ampio, nessuno avrebbe capito, nessuno ci avrebbe accettato per ciò che siamo, un uomo e una donna, tutti avrebbero giudicato ciò che noi non abbiamo mai sentito di essere, un padrone e un servo.

Triste. Eppure vero.

Mi risolsi a prendere l’unica strada che mi pareva possibile avendo ben chiaro che, una volta imboccata, non avrei più potuto tornare indietro.

E mi resi conto che fu proprio questo ad avermi fatto tentennare, perché non si trattava semplicemente di rinunciare a lui, ma di rinunciare a lui per sempre. Per sempre è una misura troppo grande persino per essere concepita dalla mente umana. La mia doveva essere una scelta senza ripensamenti.

Non ci sarebbero stati vinti né vincitori fra il rosso e il nero, solo un compromesso incolore che avrebbe impedito al nero di esultare e al rosso di ardere liberamente.

Chiusi il mio cuore in un cassetto a doppia mandata concedendo alle lacrime di bagnarmi il viso mentre gettavo via la chiave.

Ti avrei aiutato ad essere felice senza di me, avrei convinto me stessa di poter sopravvivere senza di te.

La mia indole militare mi suggerì il bisogno di una strategia, un piano che riuscisse a distogliere il tuo cuore da me.

Fu in questo preciso istante che il nome di Fersen fece capolino nella mia mente: farti credere di essere innamorata di un altro ti avrebbe fatto desistere dal continuare ad amarmi? Non sapevo quanto tempo ci sarebbe voluto, ma ho creduto di si, ho creduto che nessun sentimento potesse resistere troppo a lungo se non corrisposto, così aveva detto Therese a tua nonna. Sarebbe dipeso tutto da me, la mia recita avrebbe dovuto essere più che convincente.

Non mi soffermai nemmeno a domandarmi perché io avessi pensato proprio a Fersen. Non ne avevo avuto bisogno, conoscevo già la risposta: il suo cuore era già irrimediabilmente di un’altra, niente poco di meno che la mia regina, non avrei corso il rischio di ingannare il cuore di un altro uomo.

Presi un altro poco di tempo per ricompormi prima di presentarmi a Nanny annunciandole la persistenza del mio mal di testa e chiedendole di mandare un messo a Versailles ad avvisare della mia assenza. Dopo essersi accertata che non avessi la febbre tastandomi la fronte, mi disse che mi avrebbe preparato un buon tè e me l’avrebbe fatto portare in camera, dove mi rintanai in tutta fretta, consapevole che il mio passo svelto si confaceva più a un ladro che a una persona indisposta. Ma nonostante la risoluzione presa, non volevo rischiare di incontrarlo, non ancora per lo meno. Dopo l’accaduto l’avevo visto salutare mia sorella Hortence dalla distanza di sicurezza della mia camera, ma non ne avevo ancora incrociato lo sguardo e temevo il momento in cui sarebbe inevitabilmente accaduto. Non ero pronta a vedere di nuovo la delusione e quell’infinita tristezza nei suoi occhi, non volevo essere divorata dal senso di colpa più di quanto già non lo fossi.

Immersa com’ero in questi pensieri mi accorsi solo all’ultimo che qualcuno aveva bussato alla porta  e ricordai il tè che mi aveva promesso Nanny, del quale non avevo bisogno e men che mai voglia.

Invitai ad entrare con un piatto “avanti”, rimanendo seduta schiena alla porta sul divanetto antistante il camino, contemplando le fiamme morenti terminare una ad una la loro danza sensuale.

«Annette, sei tu? Lascia pure il vassoio sul secretaire, e ringrazia Nanny da parte mia».

Il tintinnio della fine porcellana in equilibrio precario sul vassoio sorretto da mani evidentemente tremanti fu tutto ciò che udii. Nessun cenno d’assenso, nessuna parola, solo un silenzio assordante a rivelarmi chi fosse in realtà la persona alla mie spalle.

Pochi passi decisi a fendere l’aria e mi fu davanti, chino a ravvivare il fuoco nel camino senza guardarmi.

«Non dovresti lasciar spegnere il fuoco, la giornata si è fatta fredda. La nonna mi ha detto che hai un brutto mal di testa ...» prima di continuare si girò a cercare il mio sguardo rimanendo accucciato di fronte a me «niente che un po' di riposo e una buona notte di sonno non possa risolvere».

Ricordo che, pur volendo, distogliere lo sguardo dal suo mi fu impossibile. Il baluginare delle fiamme tornate ormai ad ardere alte alle sue spalle screziava i suoi riccioli neri di mille sfumature e il verde dei suoi occhi non mi era mai parso così intenso. Per un attimo fui di nuovo in quella radura inchiodata spalle a terra da quel verde pregno di passione. Durò lo spazio di un respiro, poi vi scorsi qualcosa di diverso, di nuovo. Determinazione fu ciò che vidi. E rabbia. Trattenuta. Cosa gli avevi detto Hortence? Anche lui aveva compiuto una scelta e sperai che andasse nella stessa direzione della mia: sperai che si fosse risolto a dimenticare, a dimenticarmi, a domare il suo cuore.

Provai sollievo a quel pensiero, almeno finché, una mano già alla porta, lui parlò di nuovo.

«Sono contento di non averti dovuto accompagnare a Versaille oggi. Sai, anche io non mi sento granché bene. Magari bastasse anche a me una buona notte di sonno e un po' di riposo per sentirmi meglio ...» 

Quando mi girai in direzione della porta, lui non c’era già più. Fu il primo e ultimo accenno al male che gli avevo fatto. Fu il primo di tutti i giorni a venire in cui io non riuscii più a dimenticarmene.

 

Angolo dell’autrice:

Chi non muore si rivede. Eravate arrivati fino al capitolo precedente. Non merito i commenti splendidi che avete voluto lasciarmi. Non c’è cosa che mi infastidisca di più di una storia non portata a termine. Tanto più che sono scomparsa senza una spiegazione né un saluto. Mi dispiace. Non pubblicherò mai più nulla che non abbia già terminato di scrivere. Non è onesto nei confronti di chi investe parte del suo tempo a leggermi. Il racconto è ora completo e composto da 12 capitoli, ma avviso chi vorrà avventurarsi di nuovo nella lettura che ho dovuto rimaneggiare anche tutti i precedenti.

Un saluto.

Veronica 

  
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