Gente mia, ecco qui il pessimo
Pankow nelle vesti di salvatore di fanciulle in difficoltà…
Grazie
a tutti quelli che passeranno di qui a dare un’occhiata, e un
ringraziamento particolare a chi mi lascerà anche un commento
nonostante l’odiosità del protagonista^^
VIII
– In missione di salvataggio
Nascosto
nella vegetazione, protetto dalle incipienti ombre della sera, Pankow
scrutava con interesse il villaggio degli indios. “È come nei
film,” sussurrò al terrorizzato Wendel, che si trovava al suo
fianco rannicchiato in un'ottima imitazione dell'inoffensivo sasso.
“Guarda: quella là dev'essere la capanna del capo, con tutti
quegli ornamenti strani, e poi c'è il fuoco al centro dello
spiazzo.” Fece una pausa, poi soggiunse: “Scommetto che tutti ci
ballano intorno, al momento giusto. Si fanno le pitture di guerra,
prendono i tomahawk e poi fanno la danza rituale.”
“Signore,
credo che quelli siano i pellerossa,” obiettò Wendel.
“Uhm,
forse hai ragione. Riesci a vedere i nostri?”
I
tedeschi sedevano con aria decisamente poco soddisfatta in un angolo
dello spiazzo, un gruppetto di indios armati di lance e archi faceva
loro la guardia.
Anche
se la luce andava scemando, si distinguevano bene le tre uniformi
kaki della Luftwaffe, le quattro blu della Kriegsmarine e i due
personaggi in abiti più o meno civili, genericamente vestiti di
scuro.
“Mi
chiedo perché non cerchino di sopraffarli,” considerò Pankow tra
sé e sé. Attinse alle proprie reminiscenze di fumetti d'avventura e
concluse: “Sicuramente le punte delle frecce saranno avvelenate,
ecco perché.”
Nel
villaggio frattanto alcuni indios stavano accendendo un falò.
Passarono delle donne con vasi e fagotti in testa, un gruppetto di
bambini attraversò lo spiazzo schiamazzando. Cominciarono a suonare
tamburi dalle varie tonalità, acute e legnose, ma anche profonde e
cupe, e i colpi si alternavano in un ritmo incalzante.
Quando
il battere degli strumenti divenne un frenetico parossismo, dalla
capanna più grande uscì un uomo imponente, autorevole, con un lungo
ornamento di piume colorate che dalla sommità del capo gli arrivava
fin quasi a terra. Il suo unico indumento era un gonnellino di rafia,
ma al collo, agli omeri e ai polsi portava monili di turchese e
giada. Ossa decorate gli perforavano naso e lobi, complicate pitture
gli coprivano il corpo.
L'uomo
– di certo il capo della tribù – si avvicinò solenne al
gruppetto dei prigionieri e in tono aspro disse loro qualcosa.
Uno
dei tedeschi si alzò in piedi, si inchinò e rispose evidentemente
nella stessa lingua dell'indigeno, perché fra i due cominciò un
dialogo. Pankow notò però che nonostante ogni apparente tentativo
da parte del tedesco di mantenere toni concilianti, l'altro sembrava
alterarsi sempre di più. Alla fine gridò qualcosa brandendo una
specie di bastone decorato di piume e feticci, e tre prigionieri
furono prelevati e legati a tre pali sinistramente allineati vicino
al falò.
“Qui
si mette male,” disse il tenente.
Wendel,
più che mai rannicchiato, gli chiese: “Ora che cosa faranno,
signore?”
Pankow
alzò le spalle. “Credo che li tortureranno, se non interveniamo.”
Dopodiché si alzò e si diresse di buon passo verso il villaggio.
Quando fu allo scoperto alzò le mani e a voce alta disse: “Vengo
in pace! Pace, capite? Siamo tutti amici, ci vogliamo tutti bene! Non
possiamo parlarne, prima di cominciare a seviziare gente per bene? Io
credo che il dialogo...”
Senza
nemmeno aspettare la fine del discorso, quattro guerrieri gli
saltarono addosso e lo atterrarono.
“Ehi,
che modi,” protestò Pankow in tono offeso. Uno degli indios gli
puntò un coltello di selce sotto il mento. “Scherzavo,” gli
assicurò in tono soave l'ufficiale.
Lo
trascinarono verso il gruppo dei prigionieri. L'uomo autorevole, che
aveva seguito immobile tutta la scena, a quel punto chiese qualcosa.
Il
professor Dachs tradusse: “Il grande capo Vaka Ména Oñembo Ýva –
Toro in Piedi, nella nostra lingua – chiede chi è lei, tenente.”
Pankow,
al quale sembrava di essere finito dritto dritto in uno dei fumetti
di avventura con cui si dilettava da ragazzino, assunse dapprima
un'aria assorta, infine proferì: “Io sono un vostro grande amico.
C'è un problema? Sono qui per risolverlo.” Distribuì a destra e a
manca sorrisi incoraggianti, come per far capire che non dovevano
preoccuparsi, che avrebbe sistemato tutto lui.
Il
professore gli spiegò la faccenda della figlia rapita. Pankow
ascoltò con attenzione, immaginando frattanto una graziosa fanciulla
india dalle forme flessuose e dagli occhi di cerbiatto, magari con un
succinto abitino dal bordo frangiato.
“Quindi
crede che siamo stati noi?” chiese alla fine del resoconto.
“Precisamente.
Come già spiegavo al guardiamarina Bär, questa gente non è in
grado di distinguere tra inglesi e tedeschi: per loro siamo tutti
genericamente uomini bianchi.”
“Non
avrebbe senso spiegare loro la differenza tra un salutare colorito
tedesco e un malsano colorito britannico, frutto dell'eccessivo
consumo di tè e del clima umido e freddo, vero?”
“Temo
di no, tenente.”
“Allora
dica che gliela andiamo a liberare noi, la sua bambina.”
Dachs
lo fissò stupefatto. “Prego?”
“Andiamo
dagli inglesi e ce la portiamo via. Come si chiama, a proposito, la
giovinetta?”
“Yvoty
Jaguarete, Giglio Tigrato.”
Pankow
emise un sospiro. “Bellissimo,” apprezzò. Poi, in tono deciso:
“Dica al tizio con le collane che non si deve preoccupare: gli
riporteremo la sua bambina prima di domani. Dov'è che la tengono, a
proposito?”
§
Appena
illuminata da un'esile falce di luna, la scogliera era scivolosa e
costantemente battuta dai frangenti.
Pankow
avanzò cauto, quindi si appiattì contro la parete di roccia.
“Attento,” sussurrò.
Alle
sue spalle, la voce di Wendel rispose: “Sissignore.”
Senza
muoversi, il tenente aggiunse: “Il tizio con le collane ha detto
che da queste parti ci dovrebbe essere un'apertura che conduce a una
grotta.”
“Sissignore.”
“È
lì che tengono la ragazza.” Emise un sospiro, poi in tono accurato
proseguì: “Poverina, chissà quanto sarà spaventata.”
Avanzarono
cauti un altro po', il rumore dei passi coperto dal frangersi delle
onde, e infine videro sui rivoli di schiuma che scorrevano verso il
basso il vago baluginare dorato di un riflesso di luce.
Subito
dopo si udirono una specie di ruggito da orco, un trambusto che
faceva pensare a oggetti pesanti lanciati a caso contro le pareti e
il tintinnio di vetri infranti. Una lanterna uscì in volo da quella
che doveva essere l'imboccatura della grotta, rimbalzò un paio di
volte sugli scogli e precipitò in acqua.
“Cazzo,”
commentò Pankow. “Che succede là dentro?”
I
rumori di colluttazione frattanto proseguivano. Ci furono un altro
paio di ruggiti da orco, nei quali parve ai due di indovinare
l'articolazione di una qualche forma di linguaggio.
Infine
una voce impostata e vagamente sussiegosa disse in inglese: “Suvvia,
signorina, le sembra un comportamento adatto a una giovane donna?”
Seguì
il rumore di oggetti infranti, quindi un’altra voce che esclamava:
“Stia attento, signore, calcia peggio di un mulo!”
Approfittando
della confusione, Pankow avanzò cauto e gettò un’occhiata
all’interno: sulle prime gli parve di vedere un gorilla inferocito
che si agitava. A un più attento esame, il gorilla si rivelò essere
una persona, più precisamente una donna sudata e scarmigliata, con
le mani legate dietro la schiena. Il tenente constatò che era alta
quattro dita buone più di lui e larga come lui e Wendel uno accanto
all’altro.
In
quel momento stava emettendo muggiti che avevano tutta l’aria di
essere imprecazioni nella sua lingua, mentre due o tre marinai
cercavano di ridurla all’impotenza con dei lazo avvolti intorno al
corpo massiccio.
Un
po’ discosto, un sopracciglio alzato in segno di sobrio disappunto,
il capitano di fregata James Hook osservava la scena.
“Cercate
di ricondurre all’obbedienza questa creatura,” disse, “sarebbe
disdicevole e indegno di un gentiluomo dover passare a vie di fatto
nei confronti di un’esponente del gentil sesso.”
Uno
dei marinai fu scaraventato urlante fuori dalla grotta, descrisse una
perfetta parabola davanti agli occhi attoniti dei due tedeschi e finì
in acqua con un tonfo.
Wendel,
che era alle spalle del tenente, chiese: “Cosa c’è là dentro,
signore, un orso inferocito?”
“Vorrei
sbagliarmi,” fu la cupa risposta, “ma temo di aver trovato la
leggiadra e flessuosa Yvoty
Jaguarete.”
“È
prigioniera dell’orso, signore?”
“No,
a quanto pare è lei
l’orso.”
Attesero
un po’ immobili nel buio. all’interno della grotta il trambusto
sembrava essersi placato, le imprecazioni indie avevano avuto un
deciso calo. Ora erano solo un brontolio cupo, come tuoni lontani in
un cielo che promette tempesta.
Pankow
fece un cauto passo avanti e scrutò all’interno della grotta: la
ragazza era seduta su una cassa rovesciata, aveva ancora le mani
legate dietro la schiena e tramite una robusta cima era assicurata a
una massiccia stalagmite. A rispettosa distanza, un paio di marinai
la tenevano d’occhio.
“È
il momento,” proclamò il tenente, poi impugnò la pistola ed entrò
risolutamente nella grotta. “Mani in alto, signori!” consigliò
ai due marinai, in un inglese che sembrava il rumore di una raspa su
un vecchio pezzo di legno.
Nonostante
la pronuncia non ineccepibile, l’arma spianata convinse senz’altro
i due a obbedire, ma mentre essi alzavano le mani, sopraggiunse
attraverso un’altra uscita della grotta, James Hook in persona.
Ci
fu un attimo di immobilità assoluta, nel quale persino la risacca
sembrò congelarsi, poi il capitano esibì un ghigno feroce e disse:
“Ma bene, sembra che dopotutto il demonio mi abbia ascoltato.”
Con gesto repentino sfoderò la pistola. “Mani in alto,” ordinò
brusco.
“Marameo!”
fu tutto ciò che Pankow si degnò di rispondergli, quindi schizzò
via con un agile balzo. Hook sparò, il rumore improvviso, che in
quell'ambiente chiuso rimbombò come una cannonata, fece sussultare
l’orchessa, che balzò in piedi e strillò: “Tu… merda! Tu
grossa merda!” Tentò di sferrare uno dei suoi temibili calci a
Hook, che però si era già portato a distanza di sicurezza.
Yvoty
Jaguarete si girò allora verso il tenente, lo squadrò con occhi di
fuoco e disse: “Tu… piccola merda!”
Hook
sparò di nuovo, e ancora una volta Pankow evitò il colpo, che
rimbalzò sulla parete di roccia con un minaccioso ronzio, quindi
aggirò la figlia del capotribù e segò con un pugnale la cima che
la assicurava alla stalagmite. “Tu piccola merda!” ripeté irosa
la ragazza. Cercò di tirargli un calcio, poi si accorse di essere
libera. Subito si disinteressò del tenente e partì a testa bassa
verso l’imboccatura della grotta, mandando al suo passaggio uno dei
due marinai a gambe all'aria. Scomparve nel buio con la velocità di
chi conosce alla perfezione i dintorni.
Pankow
valutò in un attimo la situazione: il marinaio abbattuto
dall’orchessa si stava alzando, l’altro aveva già raccolto da
terra il fucile, Hook aveva il dito sul grilletto.
“Marameo!”
gridò ancora una volta, quindi diede un calcio alla lanterna
superstite mandandola a fracassarsi contro la parete e si buttò
fuori a pesce. “Vieni, Wendel!” esclamò passando, “muoviamoci,
o quella arriva al villaggio da sola!”
“Io
la lascerei andare, signore!”
“No
di certo! Poi come facciamo a dimostrare che l’abbiamo liberata
noi?”
La
fiammella di un accendino scattò nel buio, traendo per prima cosa un
lampo sinistro dall’uncino d’acciaio di Hook. Successivamente, la
debole luce tratteggiò il volto del comandante, in quel momento
atteggiato a un ghigno astuto.
“Chi
si crede troppo furbo fa una brutta fine,” sentenziò l’ufficiale.
“Quell’irriverente macaco pensa di poter prendere in giro
chiunque con i suoi giochetti, ma questa volta si fa sul serio.”
Poi, a voce più alta: “Signor Soak!”
Comparve
il nostromo. “Signore?”
“Signor
Soak, mi mandi una squadra. Questa volta Pankow avrà quello che si
merita.”
“Sissignore.”
Poco
dopo, Hook procedeva sicuro nella foresta, con il debole chiarore
della luna come unica luce.
“Adagio,
uomini,” sussurrò ai marinai che armi alla mano lo seguivano. “Non
ci interessa arrivare presto, ci interessa non farci scoprire.”
Si
addentrarono silenziosi tra le fronde, seguendo la scia di rami
spezzati ed erba calpestata che Giglio Tigrato si era lasciata dietro
correndo.
§
A
Pankow sembrava di avere i polmoni in fiamme: quell’accidenti di
orchessa era sovrappeso, con le mani legate dietro la schiena e
scalza, eppure correva come una specie di cinghiale aizzato, evitando
ogni ramo troppo basso, tronco o radice con un’abilità che aveva
del soprannaturale.
Abilità
che lui non possedeva, peraltro: era già rovinato al suolo due o tre
volte, e altrettante era finito in mezzo a rovi o fango. Ormai si
augurava quasi che Hook lo acciuffasse, almeno avrebbe potuto
riposarsi un po’.
“Tutto
a posto, Wendel?” chiese, troppo stanco anche per abbassare la
voce.
“Sissignore,”
boccheggiò il ragazzo alle sue spalle. “Manca molto, signore?”
“Un
ultimo sforzo e ci siamo, almeno spero. Non facciamoci distaccare
proprio adesso, però.”
La
ragazza continuava a correre imperterrita, senza rallentare
minimamente l’andatura.
“Ehi,
tu!” ansimò Pankow, cercando di scorgere nel buio l’ampia
schiena di Yvoty Jaguarete. “Ehi! Aspetta, no?”
“Tu
piccola merda!” provenne dall’oscurità.
Proprio
quando Pankow aveva stabilito che si sarebbe sdraiato per terra e si
sarebbe lasciato morire, si intravide fra gli alberi un baluginio di
fiaccole.
L’ufficiale
ringraziò mentalmente – anche perché non avrebbe avuto fiato
sufficiente per farlo a voce – ogni divinità di sua conoscenza,
comprese quelle caldee e sumere, per non averlo fatto morire
d’infarto e si apprestò a coprire le ultime decine di metri che lo
separavano dal riposo.
All’apparire
di Yvoty Jaguarete, nel villaggio esplose un’ovazione. Il falò fu
rinfocolato, chi era legato ai pali fu liberato, e al suono di canti
e tamburi cominciò una danza sfrenata intorno alle fiamme che si
levavano sempre più alte.
Le
donne entrarono nelle capanne e ne uscirono portando vasi e cesti
colmi di cibi e bevande.
Pankow
raggiunse il gruppo dei tedeschi. Essi sedevano ancora dove li
avevano lasciati, ma ormai potevano considerarsi liberi, dal momento
che chi avrebbe dovuto sorvegliarli si stava dando a balli e
libagioni.
“Com’è
andata?” chiese il guardiamarina Bär. Si alzò in piedi e fece
qualche passo per sgranchirsi.
Ancora
ansante, Pankow rispose: “La parte più complicata è stata correre
dietro a quella là.”
L’altro
si voltò a fissarlo. “È sicuro che non vi abbia seguito nessuno?”
Il
tenente sbuffò infastidito: era stanco, aveva sete, si voleva
riposare e non vedeva l’ora di scoprire cosa c’era nelle anfore
che gli indios si stavano passando con gran soddisfazione di mano in
mano. “Si figuri se ci hanno seguiti,” replicò, “era buio
pesto.” Poi per evitare altre domande si alzò e fece per
allontanarsi, ma a quel punto venne raggiunto dal capo della tribù,
che aveva in mano un copricapo simile a quello che indossava.
Prima
che Pankow potesse realizzare quello che stava succedendo, l'uomo
glielo pose sulla testa, quindi solennemente proclamò: “Taguató
Ovevéva!”
Alla
frase seguì un’ovazione.
“Taguató
Ovevéva!” ripeté l’uomo, indicando il tenente col copricapo di
piume.
Alle
spalle di Pankow, il professor Dachs spiegò: “L’ha nominata
Aquila Volante. È un grande onore.”
“Beh,
allora bisognerà brindare, direi!” esclamò il tenente,
spostandosi con noncuranza il copricapo sulle ventitré. “Purché
la qualifica non comporti sposare la figlia del tizio con le
collane.”
Gettò
uno sguardo fugace a Yvoty Jaguarete, che finalmente libera, con le
trecce che le ballonzolavano sulla schiena e un abito discinto,
conduceva le danze intorno al fuoco. Distolse lo sguardo con un
brivido di orrore.
Si
girò poi a cercare i suoi: Wendel ce l'aveva di fianco, Hans e
Michael, a torso nudo e variamente imbrattati di pittura, stavano
saltellando assieme agli indigeni. I marinai erano riusciti ad
accaparrarsi una delle anfore e la stavano con gioia vuotando. Il
tizio che parlava la lingua locale era immerso in una fitta
conversazione con un indio, mentre quello che si era qualificato come
tecnico – il professor Hase, se ricordava bene – stava parlando
di fenomeni elettrostatici con il guardiamarina.
Non
vedeva Schelle da nessuna parte: magari il furbastro si era già
trovato qualche ragazza india e le stava facendo vedere le
costellazioni, per così dire.
Liquidò
la faccenda con un'alzata di spalle, si liberò della camicia e
gridò: “Ehi, ci sono anch'io!”
Corse
a raggiungere quelli che stavano ballando intorno al fuoco.
Appena
fuori dal villaggio, seduto su una pietra, Schelle emise un sospiro.
Da una parte si augurava che nessuno andasse a cercarlo, ma
dall’altra il fatto che tutti si stessero divertendo e a nessuno
interessasse sapere che fine aveva fatto lo metteva in uno stato
d’animo plumbeo.
Aggrottò
le sopracciglia. Chi aveva colpa di tutto era ovviamente il tenente
Pankow. Lui e la sua stupida noncuranza. In quel momento sentiva la
sua voce allegra, squillante, vagamente appesantita dall’alcol,
intonare maldestramente quello che doveva essere un canto indigeno,
chiaramente storpiato come un indio avrebbe potuto storpiare Die
Fahne hoch.
Le
strofe finirono in grandi risate, qualcuno urlò qualcosa e le risate
ebbero un parossismo.
Corrugò
la fronte: si stavano divertendo alla grande laggiù. Si stavano
ubriacando, magari, incuranti della guerra e dei nemici che senza
dubbio infestavano l’isola. “Un comportamento molto
responsabile,” borbottò, e poi non riuscì ad aggiungere altro,
perché una robusta mano lo afferrò per il collo togliendogli il
respiro e un’altra gli tappò la bocca.
D’istinto si divincolò, ma
altre mani lo immobilizzarono e lo trascinarono via.
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