Gente
mia,
penultimo
capitolo del mappazzone, grazie a tutti coloro che con grande
abnegazione mi stanno seguendo, e grazie a chi mi ha lasciato un
commento.
Scusate
se stavolta non risponderò subito a eventuali recensioni, ma per un
po’ non avrò internet: non sono disinteressato, solo
impossibilitato!
Comunque
grazie in anticipo se passerete di qui^^
IX
– In vino veritas
Legato
e imbavagliato, Schelle veniva spinto lungo un sentiero dalla canna
di un'arma da fuoco puntata in mezzo alla schiena.
Che
non fosse uno scherzo di cattivo gusto di Pankow gli era purtroppo
chiaro, dal momento che chi lo stava tenendo sotto tiro parlava un
cockney strettissimo, con suoni che nessun tedesco, nemmeno
disperatamente ubriaco come in quel momento doveva essere il suo
tenente, sarebbe mai stato in grado di riprodurre.
Si
chiese cosa sarebbe successo. L'avrebbero interrogato sul tenente
Pankow?
Quel
pensiero ebbe il potere di fargli comparire sulle spalle la ben nota
accoppiata di angioletto e diavoletto.
L'angioletto
gli suggeriva di sopportare eroicamente ogni sevizia pur di non
rivelare nulla di ciò che gli inglesi gli avrebbero sicuramente
chiesto su Pankow, ma il diavoletto faceva con aria da nulla notare
che il comportamento di Pankow negli ultimi tempi non era certo stato
così rispettoso nei suoi confronti. Se n'era fregato di qualsiasi
cosa, con quella sua odiosa arietta noncurante, svagata, di ragazzino
che non ha una preoccupazione al mondo.
Sarebbe
opportuno che imparasse a prendere le cose con la dovuta serietà,
suggeriva il diavoletto, non può continuare a fare il bambino.
L'angioletto
però accorato interveniva: Pankow è pur sempre un ufficiale
tedesco. Tradirlo, e tradire con lui tutti gli altri, significherebbe
tradire la Patria.
Il
diavoletto però obiettava: sì, ma una piccola porcata, giusto per
fargli pagare le ultime cose, giusto per insegnargli a stare al
mondo. In fondo è solo un pilota di idrovolante qualsiasi, è un
pesce piccolo...
Angioletto:
No! Lui si fida di te!
Diavoletto:
sai che spettacolo la sua faccia?
Angioletto:
Sarebbe tradimento!
Diavoletto,
suadente: Però se lo meriterebbe, non è vero?
L'ideale
scambio fu interrotto dal diradarsi della vegetazione. Più avanti,
al limitare della laguna, comparve una nave da guerra ormeggiata,
visibile più che altro come una specie di macchia scura sugli
scintillii che la luna traeva dalle increspature dell’acqua.
Schelle
deglutì ed ebbe un momento di esitazione. La canna dell'arma gli fu
premuta con più forza contro la schiena, una voce rude lo incitò ad
andare avanti.
Poco
dopo si trovò seduto in una scialuppa mentre quattro marinai
vogavano di buona lena. La canna del Lee-Enfield era sempre puntata
contro di lui, ne coglieva di tanto in tanto il baluginio sinistro,
per cui ritenne più saggio non muoversi. Si voltò solo fugacemente
verso la giungla, nella direzione in cui riteneva si trovasse il
villaggio, e gli parve di scorgere il lucore dorato del falò.
Si
chiese se lo stessero già cercando. A quel pensiero, le spalle gli
si alzarono quasi involontariamente in un gesto di scetticismo:
Pankow doveva essere già ubriaco e gli altri probabilmente non si
ricordavano nemmeno della sua esistenza.
Gli
sfuggì un sospiro. Sollevò lo sguardo sul capitano inglese ed egli,
che era in piedi a prua e sembrava assorto nella contemplazione del
mare notturno, si girò a fissarlo con l’aria di essere
perfettamente al corrente dei suoi patimenti.
Schelle
tossicchiò a disagio e distolse lo sguardo.
Poco
dopo Schelle entrò vagamente imbarazzato nella cabina personale del
comandante Hook. Questi si sedette alla scrivania e gli fece cenno di
prendere posto su una sedia che si trovava davanti al mobile. “Si
accomodi, prego,” lo invitò in perfetto tedesco. “Caporale Till
Schelle, non è così?”
“Come
fa a…?”
Hook
alzò le spalle con fare noncurante. “Signal arriva anche da noi,
caporale.”
“Capisco.”
Il tedesco si accomodò come se si stesse sedendo sui carboni
ardenti.
“Inoltre
ci siamo già visti, non ricorda?” Sollevò lentamente l’uncino,
che brillò sinistro sotto la luce da tavolo.
Till
quasi sussultò sulla sedia quindi, in un empito di coraggio, disse:
“Io non parlerò mai!”
L’altro
annuì con indulgenza. “Ma certo, capisco. Del resto, il silenzio è
d’oro. Non è così che si dice?” Si piegò a fissarlo negli
occhi mentre con la mano sana si lisciava i curatissimi baffetti
neri.
Schelle
deglutì. “Sì… credo di sì.”
“Ma
certo. Del resto, per citare Buddha, prima di parlare domandati se
ciò che dirai corrisponde a verità, se non provoca male a qualcuno,
se è utile, e infine se vale la pena di turbare il silenzio per ciò
che vuoi dire.”
Si
raddrizzò con signorile eleganza, consentendo a un erculeo
sottufficiale di posare sulla scrivania un vassoio d’argento con
sopra una bottiglia di Porto e due bicchieri.
“Grazie,
signor Soak,” disse compito.
“Dovere,
signore,” rispose l’altro, quindi salutò e uscì.
Hook
a questo punto stappò la bottiglia e riempì a metà i due
bicchieri, poi ne spinse uno verso Schelle. “Lo assaggi,” gli
consigliò. “È un’ottima annata.”
Nonostante
la paura, anzi forse proprio per quella, il caporale non si fece
pregare. Il Porto del resto aveva un cupo color rubino ed emanava un
profumo che ricordava legni preziosi, frutta e spezie. Bevve un lungo
sorso, quindi emise un sospiro.
“Niente
male, vero?” disse Hook.
“Nossignore.”
“Posso
chiederle cosa faceva tutto solo su quella roccia?”
Il
caporale strinse le labbra. “Niente. Avevo voglia di stare per
conto mio.”
Hook
assunse un’aria costernata. “Nessuno dei suoi camerati ha pensato
di trattenerla? Come ha visto lei stesso, sono zone pericolose.”
Il
più giovane si limitò ad alzare le spalle, il comandante annuì
come se la sua reazione fosse esattamente quella che si era
aspettato. Lasciò passare un po’ di tempo, in cui l’unico rumore
che si udì fu quello dell’orologio a parete che ticchettava, poi
chiese: “E del tenente Pankow cosa mi dice, caporale?”
Schelle
aggrottò le sopracciglia, posò il bicchiere come se scottasse e
ritirò la mano. “Niente,” rispose brusco.
L’altro
si concesse addirittura una risatina. “Quanto zelo,” commentò.
“Ma non voglio sapere faccende militari, ovviamente. Parlavo del
suo aspetto umano.”
Schelle
fece tanto d’occhi. “Umano?”
“Ma
certo. Qualche aneddoto, qualcosa sull’amicizia che vi lega.”
A
quelle parole il caporale si incupì. Hook sollevò con fare
sollecito le sopracciglia e chiese: “Ho detto qualcosa che non va,
forse?”
“No,
niente.” Till recuperò il bicchiere e bevve un altro lungo sorso.
Quando lo appoggiò, Hook provvide con aria da nulla a riempirlo
nuovamente.
Il
caporale bevve di nuovo.
“Qualche
aneddoto,” propose ancora Hook. “Qualcosa sulla sua vita
privata.”
Di
nuovo il porto nel bicchiere di Schelle calò fin quasi a esaurirsi e
fu riportato ai livelli iniziali. Till cominciò a trovare quel vino
molto buono e il suo interlocutore molto simpatico.
“Lei
non è come immaginavo,” gli scappò detto.
“Davvero?”
“E
neanche… Peter.”
“Oh,
mi rincresce sentirlo,” disse Hook. Riempì di nuovo il bicchiere,
gli fece cenno di bere un sorso.
Schelle
sbatté gli occhi con l’aria di un gufo finito in piena luce. “Lo
credevo diverso.”
Il
comandante si alzò, fece qualche passo nella stanza e si atteggiò
come se fosse stato in procinto di recitare il monologo dell’Amleto.
“È terribile quando la gente che stimiamo ci delude, non è vero?”
disse invece. Lo fissò di sottecchi.
Prima
di rispondere, Till vuotò di nuovo il bicchiere, quindi afferrò la
bottiglia e provvide autonomamente a riempirlo di nuovo. “È uno
stronzo,” proclamò infine apodittico.
Hook
si sedette di nuovo, lo fissò negli occhi. “Mi rincresce
sentirlo,” disse. “Dall’articolo pare una persona così
divertente, così coraggiosa...”
“È
un ragazzino irresponsabile. Uno che non capisce il vero valore delle
cose.”
Hook
appoggiò il gomito sul piano del mobile e il mento sul palmo.
“È
uno che ha dato la mia mansione di radiotelegrafista a un pivello
appena arrivato perché lo trovava più divertente di me.” Vuotò
un altro bicchiere. “Perché era una novità.”
“Questo
è increscioso,” considerò Hook.
“È
uno stronzo.”
“Non
posso che convenirne.”
A
quel punto, il ticchettio dell’orologio a parete parve farsi
decisamente più forte. Hook si voltò in quella direzione e realizzò
che il rumore proveniva in realtà dall’oblò aperto.
Corse
fuori con un’imprecazione, disinteressandosi momentaneamente
dell’attonito Schelle. Questi rimase per un po’ a fissare la
porta da cui l’ufficiale era uscito, quindi si riempì di nuovo il
bicchiere, borbottò Prosit e lo scolò.
Un
gruppetto di marinai riunito lungo l'impavesata di dritta diede corpo
ai peggiori sospetti di Hook. “Largo!” ordinò il comandante, e
si sporse a scrutare le acque scure: i contorni sinistramente
delineati dai raggi argentei della luna, irta di aculei, una sfera
larga circa mezzo metro flottava seguendo il moto ondoso e
ticchettando come una simpatica vecchia sveglia.
“Maledizione!”
ringhiò Hook, quindi, a voce più alta: “Signor Soak!”
Comparve
l'immancabile nostromo. “Signore?”
“Signor
Soak, c'è di nuovo quella cosa.”
“Cosa,
signore?”
Il
comandante ebbe un moto d'impazienza. “Quell'affare. La Crocodile!”
Il
sottufficiale si sporse a sua volta dall'impavesata, scrutò per
qualche tempo l'ordigno, quindi propose: “Vado a prendere l'asta
della nafta, signore?”
“Prenda
quello che vuole, basta che la tenga lontana.”
Soak
annuì grave, quindi propose: “Vado a chiamare un paio di tiratori,
signore?”
“Eh?
Per fare che?”
La
risposta del nostromo ebbe il tono dell'ovvio: “Per spararle,
signore. Così la coliamo a picco una volta per tutte.”
“Idiota!”
ringhiò Hook, “A questa distanza? Saremmo noi a colare a
picco, con tutta la Jolly Roger!” Di nuovo rivolse
un'occhiata torva alla mina, quindi ordinò: “Bisogna
allontanarla.”
Il
ticchettio cessò.
Nonostante
la presenza del comandante e le regole non scritte della Royal Navy,
tutti si assieparono lungo l'impavesata, i più vicini praticamente a
contatto di gomito con la sacra persona del comandante.
“Se
n'è andata?” chiese un marinaio.
“Cos'era?”
volle sapere un altro.
Ci
furono alcuni secondi di un silenzio denso, sotteso dai mormorii di
curiosità e preoccupazione della gente, quindi una voce gridò:
“Ehi! È qui!”
Tutti
si precipitarono all'impavesata di sinistra.
“Silenzio
a prua e a poppa!” gridò a quel punto Hook, infastidito dal
cicaleccio che la misteriosa apparizione aveva suscitato. “Ognuno
torni alle sue mansioni!”
Nella
quiete che come per incanto si diffuse ovunque, il ticchettio della
Crocodile parve ancora più forte.
Hook
si piegò a fissare l'acqua, poi disse: “È passata sotto la nave,
non c'è altra spiegazione.” Senza distogliere lo sguardo dalla
mina tese all'indietro il braccio sano e disse: “Mi dia un po'
quell'asta della nafta, signor Soak, e un fucile: voglio occuparmi di
questa cosa una volta per tutte.”
Come
se avesse potuto sentirlo, la Crocodile immediatamente s'inabissò.
Per un po' rimasero a fissare la superficie dell'acqua col fiato
sospeso, ma la mina non ricompariva.
“Mi
avvisi se torna,” ordinò brusco il comandante, quindi raggiunse la
sua cabina.
La
prima cosa che il comandante notò rientrando in cabina fu che nella
bottiglia di Porto era rimasto forse un dito di vino.
La
seconda fu che con ogni evidenza il caporale tedesco non era
precisamente un bevitore: giaceva sulla poltroncina in stato di
languido abbandono e l'unica parte del suo corpo che non aveva la
consistenza di una medusa morta era la mano destra, tenacemente
serrata intorno al bicchiere ormai vuoto.
Hook
lo scrutò con occhio clinico, quindi a bruciapelo gli chiese: “Dov'è
il tenente Pankow, caporale?”
Il
più giovane alzò lo sguardo su di lui e faticosamente gli chiese:
“Perché lo vuole sapere?”
“Per
fargli uno scherzo,” fu la risposta.
Schelle
rise con aria ebete. “Uno scherzo,” ripeté.
Mellifluo,
Hook buttò lì: “Se lo merita, non è vero?”
Il
caporale annuì cauto, come se stesse cercando di ricordarsi quali
muscoli si dovessero usare per far andare su e giù la testa. “Mi
gira tutto,” ridacchiò poi.
“Mi
dica solo dove posso trovare Pankow, poi la lascerò dormire
tranquillamente in questa bella cabina comoda e fresca.”
“Ha
presente il villaggio dei cosi... degli indiani?” borbottò Till
con voce incerta. “Ecco, sono tutti là. C'è lui, ci sono i
marinai, c'è lo stronzetto con i suoi fratellini...”
“Ma
guarda un po'. Tutti insieme?”
“Fratellini
di merda,” imprecò Schelle per tutta risposta. “Da quando sono
arrivati loro, è andato tutto a catafascio.”
“Ma
certo,” rispose Hook in tono conciliante. Gli vuotò nel bicchiere
l'ultimo dito di vino. “Allora, abbiamo detto che sono tutti al
villaggio, non è vero?”
“Tutti
là, a divertirsi come stupidi. Non gliene frega niente di me, non
gli importa se ho sudato sangue per avere la qualifica di raro...
radio... fonico... radiatore...”
“Certo,
certo. Ora pensi a dormire, eh?”
Non
ci fu bisogno di ripeterlo: con la testa penzoloni, Schelle stava già
russando.
§
Infastidito
da un pizzicore al naso, Pankow grugnì qualcosa e mosse dapprima la
mano in un maldestro tentativo di scacciare qualche insetto, poi
realizzò che il fastidio proveniva dal copricapo rituale, le cui
piume colorate gli si stavano infilando in ognuno dei ricettacoli che
la Natura aveva ritenuto di creare nella sua testa: naso, bocca,
orecchie e occhi.
Se
lo fece scivolare via con gesti incerti e si girò per voltarsi a
pancia sotto, ma a quel punto la vescica protestò vivacemente contro
tale risoluzione.
Stoicamente,
Pankow cercò di resistere, ma il disaccordo del viscere per la
posizione prona era di quelli con cui non si può venire a patti.
Si
sollevò quindi carponi, con la sensazione di essere un’incudine
nel cestello di una lavatrice – e di avere la stessa cosa anche
dentro il cranio – poi guadagnò faticosamente la stazione eretta.
A quel punto il suo stomaco si unì alle proteste della vescica ed
egli a passi incerti, barcollando peggio che col mare forza 9, si
inoltrò nella foresta alla ricerca di un luogo in cui lasciare ogni
suo più intimo contenuto.
Hook,
che aveva visto qualche fotografia di campi di battaglia dopo l'uso
di gas asfissianti, trovò lo spiazzo del villaggio non molto
dissimile da quelle immagini.
Del
fuoco rimanevano ormai solo poche braci, dappertutto vi erano vasi e
anfore rovesciati, alcuni su piccole pozze di quello che doveva
essere stato il loro contenuto. Sparsi qua e là c'erano piatti che
contenevano resti di frutta e altri cibi.
Lo
spettacolo che colpiva maggiormente era senza dubbio quello offerto
dalla componente umana: maschi e femmine giacevano riversi nella
posizione in cui l'ebbrezza li aveva fatti crollare, e se non fosse
stato per un diffuso russamento, davvero si sarebbero detti le
vittime di un'esposizione al sarin.
Il
comandante si avvicinò a un marinaio che giaceva supino e lo spinse
appena col piede. Questi emise un brontolio vago, poi ripiombò nel
torpore.
“Legate
tutti quelli che non sono indios e portateli via,” ordinò allora,
quasi deluso per la facilità dell'operazione.
Man
mano che i prigionieri incoscienti abbandonavano il villaggio per
essere trasportati verso la Jolly Roger, Hook sentiva crescere
in sé l'inquietudine: non vedeva, tra quei corpi ciondolanti e
inerti, nessuna zazzera rossa. Molti biondi, molti castani, ma
l'odiosa, sfacciata tonalità pel di carota che lui stava cercando si
ostinava a non comparire.
Chiamò
il nostromo. “Dov'è il maledetto Pankow, signor Soak?” volle
sapere.
Il
sottufficiale si strinse nelle spalle. “Forse l'hanno già portato
via, comandante.”
“Non
l'ho visto.”
A
quel punto, Hook estrasse la pistola e passò personalmente di
capanna in capanna alla ricerca dell'irriverente giovanotto.
S'imbatté
in dormienti di ogni età, però di razza rigorosamente india. Alla
fine trovò qualcosa che suscitò il suo interesse: in una delle
capanne, abbandonato in un angolo, c'era un vistoso copricapo di
piume colorate accanto al quale era posato un berretto da ufficiale
della Luftwaffe. Il comandante lo raccolse servendosi dell'uncino.
Dapprima lo scrutò stringendo gli occhi come se si fosse trovato
davanti Pankow in persona, quindi guardò al suo interno e un paio di
P ricamate sulla fascetta gli diedero la conferma che il berretto
fosse proprio suo.
“Signor
Soak!” chiamò.
Subito
si presentò il nostromo. “Comandante?”
“Signor
Soak, mi faccia avere una granata e un filo, presto. Le garantisco
che l'ignobile macaco avrà una bella sorpresa, quando proverà a
indossare il suo berretto.”
§
Quando
Schelle recuperò una parvenza di cognizione di sé, nella cabina si
stava diffondendo il chiarore dell'alba.
Fuori
c'era un certo trambusto, ma dalla sala macchine non giungeva alcun
rumore, quindi la nave doveva essere ancora ormeggiata. Si sentivano
però ordini gridati e gli parve di riconoscere anche qualche parola
in tedesco.
La
cosa gli diede una certa inquietudine. Per qualche motivo, quelle
voci nella sua madrelingua non gli sembravano foriere di novità
positive. Se ci fosse stato un assalto dei suoi alla nave, per
esempio, ci sarebbero anche stati i suoni di una lotta. E poi quale
assalto, se le uniche armi che avevano a disposizione erano i
moschetti dei tre marinai, la sua pistola e quelle dei due ufficiali?
Si
voltò verso l'oblò con l'intenzione di raggiungerlo per dare
un'occhiata fuori, ma in quel momento percepì dei passi in
avvicinamento.
Richiuse
gli occhi e lasciò ciondolare la testa come una carcassa in cella
frigorifera.
Nella
stanza attigua entrarono due persone, che presero poi a parlare fra
di loro.
Riconobbe
subito la voce del comandante Hook. Per quanto non capisse tutto
quello che diceva, gli fu comunque chiaro che erano stati catturati
dei tedeschi.
Nonostante
il mal di testa, nonostante lo stomaco sottosopra, la lingua felpata
e la vescica che gridava vendetta al cospetto di Dio, cercò di
concentrarsi al massimo per cogliere il maggior numero possibile di
particolari della faccenda.
A
un certo punto, l'ufficiale disse: “Un buon lavoro: tutti catturati
tranne Pankow. Ma gli ho lasciato una sorpresa che non dimenticherà
facilmente.” Ci fu un compiaciuto silenzio, quindi proseguì:
“Pagherei per vedere la faccia che farà quel dannato moccioso
quando proverà a raccattare il suo berretto.”
Un'altra
voce, più rude, appesantita da una lunga consuetudine con rum e
sigari, rispose: “La Mills farà davvero un bel botto, signore.
Secondo me la sentiremo anche da qui.”
Till
dovette farsi forza per non sussultare: la combinazione nello stesso
discorso di granata Mills, berretto e Pankow dipinse nella sua mente,
pur non ancora del tutto lucida, scenari dei più foschi.
Gli
fu chiaro che doveva cercare di raggiungere prima possibile il
tenente, ma come?
A
quel punto si udì un ticchettio, il comandante inglese proferì una
tremenda imprecazione, poi lui e l'altro uomo lasciarono in tutta
fretta la cabina per correre in coperta.
Appena
fu certo di essere solo, Schelle saltò in piedi e si avvicinò
all'oblò: lungo l'impavesata di sinistra, una frotta concitata di
marinai stava trafficando con un'asta graduata che gli parve quella
che si usava per misurare il livello della nafta. L'attenzione di
tutti era concentrata su quel lungo bastone.
Senza
esitare uscì dalla cabina e saltò in acqua dall'impavesata di
dritta, quindi si allontanò a nuoto più veloce che poteva, pregando
che il diversivo, qualunque cosa fosse, durasse abbastanza da
consentirgli di raggiungere la terraferma.
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